Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Indagini pericolose
Indagini pericolose
Indagini pericolose
E-book1.255 pagine17 ore

Indagini pericolose

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Cartoline dall’inferno - Omicidi quasi perfetti - Apparenti suicidi
3 romanzi in 1

Un autore da oltre 2 milioni di copie

Brutali assassini, crimini efferati, feroci torture, sete di vendetta e un nuovo protagonista: il detective Ash Henderson.
In Cartoline dall’inferno facciamo la conoscenza del detective Ash Henderson, alle prese con “il killer dei compleanni”: un feroce assassino che da oltre due lustri rapisce ragazze alla vigilia del loro tredicesimo compleanno, per poi spedire ai familiari cartoline che immortalano le figlie torturate fino alla morte. Nessuno sa che Ash ha un motivo molto, molto personale per desiderare la cattura del killer…
Un altro folle sanguinario è responsabile degli Omicidi quasi perfetti: otto anni fa ha assassinato quattro donne e ne ha ridotte altre tre in fin di vita, lasciandole con una bambola di plastica all’interno del ventre squarciato. Ora però è stato ritrovato un nuovo cadavere e sembra giunto per Henderson il momento tanto atteso per riscattarsi…
Infine, in Apparenti suicidi ci addentriamo per le strade della cittadina di Oldcastle, dove la tranquilla e festosa atmosfera natalizia viene turbata da crimini e cattive azioni di ogni genere. Ed emergono uno a uno, in dodici storie legate da un filo rosso-sangue come in un unico intreccio criminoso, dodici racconti al cardiopalmo permeati da quell’umorismo nero che contraddistingue la penna di MacBride, non a caso uno dei più acclamati scrittori di thriller del mondo.

N°1 in Inghilterra
Un autore da oltre 2 milioni di copie
Tradotto in tutto il mondo

«Stuart MacBride usa la penna alla stregua di un machete. Un concentrato di cattiveria narrativa.»
Il Sole 24 ore

«Un noir alla Tarantino con dosi di humour scozzese. E, nonostante il sangue scorra a fiotti, la scrittura è ammaliante.» 
La Stampa

«Un grandioso esempio di scrittura pennellata col machete, intinta nella crudeltà più torbida e raccapricciante, ma anche profusa di disperata speranza e di virile amarezza. Ritmo forsennato, cadaveri e sangue come pioggia, ottimi comprimari e compagni di viaggio, un vocabolario misterioso che rende più agghiacciante e spaventosa la comprensione. Niente da aggiungere: un grande romanzo di corruzione interiore.»
Piero Soria, La Stampa, Tuttolibri
Stuart MacBride
È lo scrittore scozzese numero 1 nel Regno Unito ed è tradotto in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato i thriller Il collezionista di bambini (Premio Barry come miglior romanzo d’esordio), Il cacciatore di ossa, La porta dell’inferno, La casa delle anime morte, Il collezionista di occhi, Sangue nero, La stanza delle torture, Vicino al cadavere e Scomparso, con protagonista Logan McRae. Nel 2013 è uscito Cartoline dall’inferno, con protagonista il detective Ash Henderson, di cui Omicidi quasi perfetti è un ideale seguito, e Apparenti suicidi. Ha ricevuto il prestigioso premio CWA Dagger in the Library e l’ITV Crime Thriller come rivelazione dell’anno.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2017
ISBN9788822707314
Indagini pericolose

Correlato a Indagini pericolose

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Indagini pericolose

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Indagini pericolose - Stuart MacBride

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    CARTOLINE DALL’INFERNO

    ti prego…

    Capitolo 1

    a volte è meglio non sapere

    lunedì 14 novembre

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    martedì 15 novembre

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    mercoledì 16 novembre

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    giovedì 17 novembre

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    venerdì 18 novembre

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    sabato 19 novembre

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    domenica 20 novembre

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    lunedì 21 novembre

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    OMICIDI QUASI PERFETTI

    la fine è vicina

    Capitolo 1

    Sei anni dopo

    Capitolo 2

    Diciotto mesi dopo

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 7

    Lunedì

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 13

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Martedì

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 29

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 36

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Mercoledì

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 46

    Capitolo 48

    Giovedì

    Capitolo 52

    Sei mesi dopo

    Capitolo 53

    APPARENTI SUICIDI

    1. Il ladro e l’albero di pere

    2. I piccioncini

    3. Cucina francese

    4. Hotline

    5. Anelli d’oro

    7. La morte del cigno

    8. La ragazza di Kingsmeath

    9. La ballerina

    10. L’uomo che salta

    11. La banda delle cornamuse

    12. L’assalto della Vigilia

    en

    1660

    Titolo originale: Birthdays for the Dead

    Copyright © Stuart MacBride 2012

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Alice Gasparini

    Titolo originale: A Song for the Dying

    Copyright © Stuart MacBride 2014.

    First published by HarperCollins Publishers.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Francesca Noto

    Titolo originale: 12 Days of Winter

    Copyright © Stuart MacBride 2011.

    Originally published in the English language by HarperCollins Publishers Ltd.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Francesca Noto

    Stuart MacBride asserts the moral right to be identified as the author of this work.

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2013, 2015, 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0731-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Stuart MacBride

    Indagini pericolose

    Cartoline dall'inferno – Omicidi quasi perfetti – Apparenti suicidi

    omino

    Newton Compton editori

    CARTOLINE DALL’INFERNO

    A Jane

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite, avvenimenti, società, organizzazioni e luoghi reali ha l’unico scopo di dare alla narrazione un senso di realtà e autenticità. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e i fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e qualunque eventuale somiglianza con fatti o persone reali è del tutto causale. Uniche eccezioni i personaggi di Royce Clark, Andy Inglis, Janice Russell, Julie Wilson e Sheila Caldwell, che hanno dato il loro esplicito consenso ad essere personaggi di questo romanzo. I tratti caratteriali a loro assegnati sono stati ideati per le esigenze del testo e non comportano necessariamente una somiglianza con le persone vere.

    ti prego…

    Capitolo 1

    Flash. È come un’esplosione nella testa, coltelli che si infilano negli occhi, vetri rotti nel cervello. Poi buio. Si appoggia allo schienale della sedia, il legno scricchiola sotto i suoi piedi.

    Sbatte le palpebre, poi di nuovo. Un bagliore blu e arancione dipinto dentro le palpebre. Lacrime scorrono sulle sue guance sporche.

    Ti prego…

    Tira su dal naso bagnato di muco. Tutto intorno c’è odore di sporcizia e di sudore amarognolo, di polvere e di qualcosa che ricorda la pipì, come quando quel topo era rimasto intrappolato dietro la cucina. Un corpicino peloso nascosto nell’oscurità, rancido di muffa, puzzolente di salsicce avariate, che arrostiva ogni volta che accendevano il forno.

    Ti prego… La bocca pronuncia la parola dietro il nastro appiccicoso, ma ne esce solo un debole lamento. Le fanno male le spalle; ha le braccia piegate dietro la schiena, i polsi e le caviglie che sfregano contro i lacci con cui sono bloccati alla sedia di legno duro.

    Getta la testa all’indietro e guarda il soffitto. La stanza sembra fluttuare: le travi di legno nude sono coperte di macchie nere e di tele di ragno; una luce al neon ronza come una vespa intrappolata dietro un vetro. I muri sono sbavati di sporco, e una grande macchina fotografica è appoggiata a un cavalletto.

    Poi il rumore. Canta Tanti auguri a te, le parole giungono incespicanti e incerte, forse ha paura di sbagliare.

    Questo è assurdo. Del tutto assurdo. Non è ancora il suo compleanno, mancano ancora quattro giorni…

    Tira su di nuovo col naso.

    Non sta succedendo veramente. È un errore.

    Scuote via le lacrime dagli occhi e guarda nell’angolo. È arrivato al gran finale, la testa bassa mentre mormora le parole. Ma non canta il suo nome, ma quello di qualcun altro: Andrea.

    Ah, meno male.

    Ha capito che è tutto un errore, vero? Non dovrebbe esserci lei lì, ma Andrea.

    È Andrea che dovrebbe essere legata a una sedia in una stanza sporca e puzzolente, piena di ragni e che odora di topi morti. Lui capirà.

    Prova a dirglielo, ma il nastro trasforma le parole in grugniti privi di senso.

    Lei non è Andrea.

    Non dovrebbe essere lì.

    È di nuovo dietro la macchina fotografica, si schiarisce la voce un paio di volte, fa un bel respiro, si passa la lingua sulle labbra. La voce sembra quella di un presentatore di programmi per bambini: «Di’ cheese!». Un altro flash le riempie gli occhi di puntini bianchi.

    È un errore. Deve rendersene conto, è la ragazza sbagliata, deve lasciarla andare.

    Apri gli occhi, ti prego. Non è giusto.

    Si sposta da dietro la macchina fotografica e si strofina la faccia con una mano. Per un po’ si guarda le scarpe, fa un altro bel respiro. «Regali per la festeggiata!». Appoggia una cassetta degli attrezzi vecchia e ammaccata sul tavolo di legno traballante vicino alla sedia. Il tavolo è chiazzato di marrone, come se qualcuno anni fa vi avesse rovesciato la Ribena.

    Non è Ribena.

    La bocca si stringe dietro il nastro, le lacrime rendono confusi i contorni della stanza. L’aria intrappolata nella gola si trasforma in piccoli singhiozzi, sincopati e tremolanti.

    Lei non è Andrea, è tutto un errore.

    «Ho qui…». Fa una pausa mentre strascica i piedi. «Ho qui qualcosa di speciale, solo per te, Andrea». Apre la cassetta degli attrezzi e prende un paio di pinze. I becchi di metallo arrugginito scintillano nell’oscurità.

    Non la guarda, inarca le spalle, gonfia le guance come se stesse per vomitare, si strofina la bocca con una mano. Cerca quello che non sarà mai più un sorriso. «Sei pronta?».

    a volte è meglio non sapere

    lunedì 14 novembre

    Capitolo 2

    Oldcastle fm ronzava dalla radio appoggiata sul piano della cucina.

    «…non è fantaaaaaaaaaaaaaaaaastico? Sono le otto e venticinque e state ascoltando Breakfast Drive-Time Bonanza con Sensational Steve». Poi un rumore stridulo, come il clacson di una vecchia macchina.

    Contai trentacinque sterline in banconote da dieci e da cinque e le appoggiai sull’avviso di pagamento delle Poste, poi infilai la mano in tasca e ci misi il resto. Quaranta sterline e ottantacinque centesimi, abbastanza per far recapitare le lettere di Rebecca alla mia casella postale per un altro anno.

    Il bottino di questa settimana era: un catalogo della Next, tre lettere da organizzazioni benefiche e una dalla Royal Bank che cercava di rifilarle una carta di credito. Gettai tutto nel cestino, tranne il biglietto d’auguri.

    Era contenuto in una semplice busta bianca, con un francobollo e un’etichetta adesiva che riportava l’indirizzo:

    Rebecca Henderson

    19 Rowan Drive,

    Blackwall Hill,

    Oldcastle.

    OC15 3BZ

    Non era una stampa al laser: era stato battuto a macchina, i caratteri ben impressi sulla carta, e la e disallineata rispetto al resto delle lettere, proprio come le altre volte.

    Il bollitore iniziò a fischiare e riempì l’aria di vapore.

    Presi uno strofinaccio e tolsi la condensa dal vetro, facendo scivolare delle goccioline che atterrarono sull’infisso di legno nero.

    Fuori, il giardino sul retro era un groviglio di sagome frastagliate, il sole una sbavatura di fuoco all’orizzonte che colorava Kingsmeath d’oro e di ombre. Intorno si vedevano case popolari dai muri grigi, con le tegole macchiate di licheni e i tetti di ardesia luccicante, una scuola elementare tozza e austera con le finestre scintillanti circondata da una cancellata di ferro.

    «Ah, ah! Siamo arrivati al momento del Gioco della camicia di forza e Christine Murphy pensa che la risposta giusta sia disturbo psicotico acuto polimorfico». Uno starnazzo elettronico. «Pare proprio che le voci nella tua testa si sbaglino, Christine: la prossima volta sarai più fortunata».

    La scatola dei sigari era ruvida sotto i polpastrelli; era leggermente più grande di una custodia di una vecchia videocassetta vhs, ed era decorata da qualcuno abbastanza vecchio da potergli affidare solo un paio di forbici con le punte arrotondate e un po’ di colla. Quasi tutti i brillantini si erano staccati anni prima, e ormai i lustrini sembravano più granelli di sabbia che altro, ma in fondo era il pensiero che contava. Aveva la dimensione perfetta per contenere i biglietti d’auguri.

    Aprii il coperchio. L’odore legnoso di vecchi sigari lottò contro quello di muffa in cucina e con la puzza che risaliva dalle fogne.

    Il biglietto dello scorso anno era in cima, su una Polaroid era scarabocchiato «Buon compleanno!!!»: una foto quadrata inserita in un rettangolo bianco. Era un pezzo da museo, visto che la Polaroid non produceva nemmeno più la pellicola. Il numero 4 era annotato sull’angolo superiore sinistro.

    Presi l’ultima busta, poi inserii un coltello sotto la linguetta, strappai proprio lungo la piega ed estrassi il contenuto. Un mucchietto di scaglie scure cadde sul piano – era un dettaglio nuovo: puzzavano di ruggine. Alcune caddero sull’orlo dello strofinaccio, e al contatto con il tessuto bagnato crearono piccole decorazioni rosse.

    Oh Dio…

    Quest’anno la foto era attaccata a un semplice cartoncino bianco. La mia piccola: Rebecca, legata a una sedia in una cantina, chissà dove. Era… le aveva tolto i vestiti.

    Chiusi gli occhi per un istante, mi facevano male le nocche, strinsi i denti così forte che mi ronzarono le orecchie. Bastardo. Stronzo, maledetto bastardo.

    «Rimanete incollati, ragazzi, perché abbiamo un divertentiiiiiissimo scherzo telefonico dopo le news, ma prima un vecchio successo: Tammy Wynette e la sua cofana con Stay with your man, ottimo consiglio, signore mie». Un altro effetto sonoro da commedia.

    La pelle bianca di Rebecca era sporca di sangue, lacerata, ustionata e piena di lividi; lei aveva gli occhi sgranati, e dietro il nastro adesivo si intravedeva la bocca spalancata. Il numero 5 era scarabocchiato su un angolo della foto.

    Erano passati cinque anni dalla sua scomparsa, cinque anni da quando il bastardo l’aveva torturata a morte e aveva scattato le fotografie per documentarlo. Cinque biglietti d’auguri, uno peggio dell’altro.

    Il toast era saltato fuori, riempiendo la cucina di odore di bruciato.

    Fai un respiro profondo. Fai un respiro profondo.

    Appoggiai il biglietto numero cinque sopra gli altri nella scatola. Chiusi il coperchio.

    Bastardo…

    Oggi avrebbe compiuto diciotto anni.

    Mentre Tammy dava il suo meglio alla radio grattai la parte bruciata del toast sul lavandino della cucina, e con lo stesso coltello spalmai il burro che assunse un colorito grigiastro. Poi presi dal frigo due fette di formaggio che sembrava di plastica e condii il tutto con un tè al latte e due antiinfiammatori. Masticai cercando di non pensare ai due denti dondolanti in alto a sinistra. La pelle intorno alla guancia era tesa, gonfia e dolorante. Asciugai la finestra con uno straccio pulito.

    Le luci dei lampioni si spegnevano mentre il sole compariva da dietro la collina, trasformando Oldcastle in una tela blu e arancione. In lontananza Castle Hill si ergeva sulla città, una spessa massa di granito, con un pendio ripido da una parte e strade erte e acciottolate dall’altra. I resti delle fortificazioni del castello sembravano denti rotti abbarbicati proprio sulla cima.

    Vivere qui significava questo: potevi alzarti ogni mattina e guardare fuori dai prefabbricati cadenti della tua schifosa casa popolare e vedere tutte le cose belle di Oldcastle. Ci potevi sbattere la faccia tutti i giorni: non importava quanto tempo passassi a fissarle, rimanevi sempre bloccato nel maledetto Kingsmeath.

    Avrebbe compiuto diciotto anni.

    Distesi lo strofinaccio sul piano da lavoro, e tirai fuori dal freezer il contenitore di plastica con i cubetti di ghiaccio. Strinsi i denti e lo girai. Il ghiaccio crepitò e gemette, una colonna sonora di sicuro più adatta alle mie dita doloranti di quella maledetta Tammy Wynette.

    Il ghiaccio rotolò al centro dello strofinaccio. Gli diedi una forma allungata, poi lo sbattei sul piano un po’ di volte. Pescai una bustina usata dal lavandino e mi preparai un altro tè in una tazza pulita, con quattro zollette di zucchero e uno spruzzo di latte, infilai la scatola dei sigari sotto il braccio, presi il tutto e mi diressi verso il salone.

    La sagoma sul divano era rannicchiata sotto un sacco a pelo aperto. Tirai le tende.

    «Forza, pigrone, alzati».

    Parker grugnì. La sua faccia era uno schifo: occhi gonfi e violacei, naso rotto, labbra spaccate, e un vistoso livido su una guancia. Durante la notte aveva sanguinato e il sacco a pelo era macchiato. «Mmmnnnfffff…».

    Aprì un occhio: la parte che avrebbe dovuto essere bianca era di un colore rosso acceso, e la pupilla era dilatata. «Mmmmmnnfff?». Muoveva a stento la bocca.

    Gli allungai lo strofinaccio con il ghiaccio. «Come va la testa?»

    «Fffffmmmnnndttt…».

    «Ti hanno fatto un bel servizio». Tenni lo strofinaccio incollato alla guancia di Parker finché non lo prese lui. «Cosa ti avevo detto della sorella di Johnny Simpson il Grosso? Cazzo, non…». Il mio cellulare iniziò a squillare, la suoneria era il tipico trillo di un vecchio telefono. «Cavolo…».

    Appoggiai la tazza sul pavimento accanto alla testa di Parker, dalla tasca presi un blister di pillole e gliele diedi. «Tramadol, te ne devi andare prima che io ritorni: viene Susanne».

    «Nnng… fnnnn brrrkn….».

    «Non morirebbe nessuno se ogni tanto mettessi un po’ in ordine, questo posto fa schifo». Afferrai le chiavi della macchina e la giacca di pelle. Tolsi il telefono dalla tasca: sullo schermo lampeggiava il nome Michelle.

    Fantastico.

    Come se quella giornata non fosse già abbastanza incasinata.

    Premetti il tasto verde. «Michelle».

    L’accento delle Highlands era sincopato e tagliente. «Mettilo giù!».

    «Mi hai chiamato tu!».

    «Cosa? Non dicevo a te, ma a Katie». Una pausa sorda. «Non mi interessa, mettilo giù. Arriverai tardi». E poi si rivolse a me. «Ash, potresti dire a tua figlia di smettere di comportarsi come una ragazzina viziata?»

    «Ciao, papà». Era Katie con la sua vocina tutta zuccherosa.

    Sbattei le palpebre. Cambiai la presa sulla scatola di sigari, cercai di fare un sorriso forzato.

    «Sii gentile con tua madre. Non è colpa sua se la mattina è una stronza. E non dire che te l’ho detto!».

    «Ciao, papà».

    E poi di nuovo Michelle. «Ora entra in macchina o ti giuro….». Rumore di una portiera che si chiude. «La prossima settimana è il compleanno di Katie».

    «Oggi è il compleanno di Rebecca».

    «No».

    «Michelle, è…».

    «No, non voglio parlarne, Ash. Hai promesso di trovare il posto e…».

    «Sono passati cinque anni»

    «Non ha neanche lasciato un biglietto! Che razza di piccola ingrata…». Una pausa, il rumore del respiro che usciva dai denti serrati. «Perché dobbiamo passarci ogni anno? A Rebecca non importa di niente, Ash, sono passati cinque anni e nemmeno una telefonata. Allora: hai trovato un posto per la festa di Katie?»

    «Tutto a posto, ok? È tutto prenotato e pagato».

    Be’, più o meno…

    «Lunedì, Ash. Lunedì è il suo compleanno. Tra una settimana».

    «Ho detto che è tutto sistemato». Uno sguardo all’orologio. «Sei in ritardo».

    «Lunedì». Attaccò senza salutare.

    Feci scivolare il telefono in tasca.

    Sarebbe davvero così sbagliato parlare di Rebecca? Ricordare come era prima, prima… prima che iniziassero ad arrivare quei biglietti d’auguri.

    Al piano superiore, nascosi la scatola di sigari al solito posto – sotto un’asse traballante del pavimento – mi avviai in sala e diedi uno strattone all’inutile ammasso di ossa e carne sdraiato sul divano.

    «Due Tramadol ogni quattro ore, al massimo. Se arrivo a casa e ti trovo in overdose steso sul mio divano, ti ammazzo».

    «…fonti ben informate confermano che la polizia di Oldcastle ha rinvenuto il corpo di una seconda ragazza. La stampa locale e la polizia di Tayside per ora si rifiutano di commentare le voci secondo cui i genitori dell’adolescente scomparsa, Helen McMillan, avrebbero ricevuto un biglietto di auguri dall’assassino conosciuto come killer dei compleanni».

    «Cosa? Parla più forte». Avevo il telefono infilato tra l’orecchio e la spalla, e con la vecchia Renault mi stavo immettendo nella rotatoria. Dundee era un ammasso grigio, corrucciato sotto un cielo color argilla. Una pioggerella cadeva sul parabrezza dai due spruzzini dell’Audi davanti a me. «Pronto?»

    «Pronto?». Riuscivo a sentire a malapena il commissario capo Weber per via del rumore del motore, dello sciabordio del parabrezza e del gracchiare della radio. «Ho detto, quando?».

    «…dove il primo dirigente Eric Montgomery ha rilasciato la seguente dichiarazione».

    Il primo dirigente di Dundee sembrava avesse entrambi i pollici infilati nelle narici. «Chiunque ricordi di aver visto Helen l’anno scorso a novembre, all’epoca della scomparsa, si metta in contatto con la centrale di polizia più vicina…».

    Abbassai la radio fino a che non divenne un ronzio monotono. «Come faccio a saperlo?». La strada a due corsie era un cordone di fanalini rossi, che si allungavano fino all’incrocio per Kingsway. Poi un segnale luminoso, lavori in corso – previsti rallentamenti. No, merda. Frenai, e cominciai a tamburellare con le dita sul volante. «Ci potrebbero volere settimane».

    «Oh, per… E cosa devo dire al dirigente?»

    «Il solito: stiamo seguendo varie piste, e…».

    «Ti sembra forse che possa dirgli una cosa del genere? Dobbiamo avere un sospettato, un risultato, e subito. Fuori dalla reception ci sono accampati i media di mezza Scozia in attesa di un commento, e l’altra metà assedia McDermid Avenue…».

    Il traffico si muoveva a stento, strisciava, si fermava e poi strisciava di nuovo. Perché i bastardi non potevano darsi una mossa?

    «…Mi stai almeno ascoltando

    «Cosa?». Sbattei le palpebre. «Sì… anche se non possiamo farci molto, lui è lì?». Sull’altra carreggiata si era aperto un varco, così premetti sull’acceleratore, ma la vecchia Renault arrugginita se ne accorse appena. Avrei dovuto cedere all’offerta di prendere una delle macchine di servizio. «Dài, stronzetto…».

    Un tir della Tesco si infilò rombando nel varco: spruzzi di acqua sporca oscurarono il parabrezza della Renault finché i tergicristalli non li trasformarono in due arcobaleni color cachi.

    «Bastardo!».

    «Dove sei?»

    «Sto entrando a Dundee, sono al concessionario della Toyota. C’è un traffico terribile».

    «Ok, proviamo di nuovo: ricordi che ti ho detto di comportarti bene con il sergente Smith? Bene, non è più una richiesta, ma un ordine. È venuto fuori che, prima che arrivasse qui, quel viscido coglione lavorava al Dipartimento per il controllo dei comportamenti professionali alla Grampian Police».

    Dipartimento per il controllo dei comportamenti professionali? Cazzo…

    In effetti non faceva una grinza: il sergente Smith sembrava proprio il tipo che lo metteva in quel posto ai colleghi ed era tutto contento mentre lo faceva.

    La coda avanzò di pochi metri. «Perché ce lo dobbiamo tenere noi, allora?»

    «Proprio questo è il punto».

    «La cosa migliore sarebbe che tutti stessero tranquilli per un po’».

    «Pensi serva?». Silenzio all’altro capo, poi di nuovo Weber. «Dipartimento per il controllo dei comportamenti professionali. Da Aberdeen».

    «Ho capito».

    «Significa che la polizia stessa non si fida di noi, il che – se devo essere onesto – non è poi così sbagliato, ma comunque, è il principio in sé. Abbiamo bisogno di un risultato e in fretta». Un clic e Weber non c’era più.

    Sì, dovevamo ottenere qualche risultato, e in fretta, perché era così che funzionava. Non importava che da otto anni la squadra speciale cercasse di catturare il bastardo: Weber aveva bisogno di un risultato per evitare che alla Grampian Police e a Tayside scoprissero che tutte le voci sul cid di Oldcastle erano vere, perciò un risultato sarebbe dovuto miracolosamente saltare fuori.

    Rialzai il volume della radio e la voce di un ragazzino di merda di una boy-band ronzò dalle casse.

    Ooh, baby, swear you love me,

    don’t say maybe

    ooh ooh say we can make it right…

    Il telefono ricominciò a squillare, la suoneria vecchio stile più rumorosa della spazzatura alla radio. Schiacciai il tasto e lo infilai di nuovo tra l’orecchio e la spalla. «Dimenticato qualcosa?».

    Una breve pausa, e poi un accento femminile irlandese. «Penso che sia lei ad aver dimenticato qualcosa, o mi sbaglio?».

    Oh Dio… deglutii. Serrai la presa sul volante. Era Mrs Kerrigan. Stronzo. Perché avevo risposto a quel telefono del cazzo? Controllare sempre il display prima di tirare su.

    Baby, let’s not fight tonight,

    let’s do it, do it, do it right…

    Mi schiarii la voce. «Stavo… per chiamarla».

    «Ci scommetto. È in ritardo. Mr Inglis è molto deluso».

    Let’s do it right, tonight!

    Intermezzo strumentale.

    «Ho bisogno di un po’ di tempo per…».

    «Non pensa che cinque anni siano abbastanza? Perché sto cominciando a credere che ci stia prendendo in giro. Voglio tremila sterline entro giovedì a mezzogiorno, ok? O è spacciato».

    Tremila sterline entro domani a mezzogiorno? E come avrei trovato tremila sterline entro domani a mezzogiorno? Impossibile. Mi avrebbero spezzato le gambe.

    «Nessun problema, tremila sterline, domani a mezzogiorno».

    «Sarà meglio per lei, grazie». E riattaccò.

    Mi piegai in avanti con la testa appoggiata al volante. La superficie di plastica era ruvida, come se qualcuno l’avesse rosicchiata.

    Potevo sempre evitare di fermarmi, superare Dundee e proseguire verso sud, fino a Birmingham o a Newcastle e stare un po’ con Brett e il suo fidanzato.

    Dopotutto i fratelli dovevano pur servire a qualcosa. Sempre che non mi avessero coinvolto nell’organizzazione del matrimonio, cosa che, invece, sarebbe successa: decidere i posti, il centro tavola floreali e i vol-au-vent…

    Che si fottessero.

    Let’s do it right now, baby,

    let’s do it tonight!

    Gran finale.

    Da qualche parte dietro di me un clacson strombazzò. Alzai la testa e vidi che davanti alla Renault la strada era libera, così pigiai l’acceleratore e mi ritrovai di nuovo alle spalle dell’Audi.

    «State ascoltando Tay fm, e questo era Mr Bones con Tonight baby. A breve la grande rivelazione di Overgate, ma prima Nicole Gifford vuole augurare al suo fidanzato Dave buona fortuna per il nuovo lavoro. E adesso Just Walk Away di Celine Dion…».

    Scappare, e in fretta: quella era la cosa da fare. Spensi la radio.

    Tremila sterline entro domani. Per non parlare delle altre sedicimila…

    C’era sempre la possibilità dell’estorsione: potevo tornare a Oldcastle e contare su un paio di persone. Fare una visitina a Willie McNaughton per vedere se vendeva ancora il ghb ai ragazzini della scuola. Ci avrei ricavato un paio di centoni. Karen Turner aveva quel bordello sulla Shepard Lane. E Jimmy Campbell il Grasso probabilmente coltivava ancora erba nel suo appartamento… Un’altra dozzina di visite a domicilio e avrei potuto alzare almeno mille e cinquecento, forse duemila.

    Ne sarebbero mancate altre mille, e non avevo più niente da vendere.

    Forse Mrs Kerrigan ci sarebbe andata piano e mi avrebbe spezzato solo una gamba, e la settimana successiva gli interessi sarebbero aumentati, così come le fratture.

    Il parcheggio era quasi vuoto: attorno all’entrata dell’hotel c’erano solo una manciata di utilitarie di rappresentanti e di auto a noleggio. Mi infilai in un buco vuoto, spensi il motore e poi rimasi lì seduto a fissare il vuoto mentre la pioggia batteva sul cofano della macchina.

    Forse Newcastle non era poi una cattiva idea…

    Toc, toc, toc.

    Mi girai sul sedile. Un viso paffuto mi stava guardando dal lato del passeggero: bocca stretta, mento coperto di barba, testa calva gocciolante e lucida, borse scure sotto gli occhi, pelle grigio-bluastra. Grandi spalle inarcate quasi fino alle orecchie. Puro accento di Liverpool: «Entri o no?».

    Chiusi gli occhi, contai fino a cinque e poi scesi sotto la pioggia.

    Le minuscole labbra si incurvarono ai lati. «Dio, guarda in che stato sei. Spaventi le vecchiette». In una mano teneva un sacchetto di carta marrone, e il logo del Burger King era sporco di rosso.

    «Pensavo che Londra avesse cancellato il tuo accento di Liverpool».

    «Stai scherzando? Sono come un bastoncino di Blackpool rock¹: se lo tagli a metà trovi la scritta Sabir ama Merseyside² su tutta la lunghezza». Mi puntò la faccia con un dito cicciottello. «Com’è ridotto l’altro tizio?»

    «Quasi brutto come te».

    Sorrise. «Be’, tua mamma non si lamenta mai quando gliene do un po’».

    «A essere onesti, è un po’ meno esigente da quando è morta». Chiusi la macchina, la pioggia batteva sulle spalle della mia giacca di pelle. «I McMillan sono qui?»

    «Naaa, sono a casa. Teniamo un profilo basso, perché pensiamo che non vogliano una squadra speciale della Corona accampata davanti all’uscio». Sabir si voltò e si avviò verso l’hotel, ampi fianchi che ondeggiavano, piedi a papera. «Il padre cerca di tirare avanti, invece la madre è a pezzi. Che mi dici tu?».

    Lo seguii dentro le porte automatiche in una scialba hall. La receptionist era attaccata al telefono e scarabocchiava su un’agenda. «Lo so… Sììì… Be’, è solo perché lei è gelosa».

    Sabir mi condusse verso gli ascensori e schiacciò il bottone con il pollice. «Siamo al quinto piano. Grande vista, il parcheggio di Tesco da un lato e una strada a due corsie dall’altro, come Venezia in primavera. Uguale». I numeri scalavano da nove. «Allora, sei qui per una visita di piacere o stai facendo un favore a qualcuno?».

    Gli consegnai una fotografia. Le porte si spalancarono, ma Sabir non si mosse. Fissava l’immagine con la bocca aperta.

    Uno sbuffo provenne dalla reception. «No… Te lo giuro, non ho mai… no… Te l’ho detto, è gelosa». Le porte si richiusero.

    Sabir buttò fuori l’aria. «Porca miseria…».

    Capitolo 3

    L’odore amaro del caffè filtrato riempiva la sala conferenze al quinto piano. Una parete era di vetro – all’estremità c’era una porta finestra che si affacciava sul balcone – e le altre erano addobbate con fogli scarabocchiati e lavagne bianche.

    Sabir aprì il sacchetto di Burger King e tirò fuori delle patatine fritte mentre dondolava sul tappeto beige. Lo seguii.

    Due uomini e due donne erano riuniti all’altra estremità della stanza, seduti sul bordo del tavolo vicino a un uomo tarchiato con i capelli grigio-rossi e il viso profondamente solcato da rughe e grinze: il vice questore aggiunto Dickie. Agganciò il pollice alla lavagna più vicina. «Devi prendere tutti i filmati a circuito chiuso che hanno, Maggie. Questa volta non facciamoci rifilare ciò che gli pare. Dovrebbero ancora essere su file».

    Una delle donne annuì, il lungo viso magro circondato da un assurdo caschetto da paggetto. «Sì, capo». Scarabocchiò qualcosa su un blocco.

    Il vqa Dickie ritornò a sedersi e sorrise a un ammasso di muscoli senza mento. «Byron?»

    «Sì, bene…». L’immenso sergente si raddrizzò gli occhiali con la montatura di ferro. «Quando Helen è scomparsa l’anno scorso, la polizia di Tayside ha parlato con tutti gli amici, i compagni di scuola e con quelli del parrucchiere da cui lavorava il sabato. Nessuno ha visto niente. Contesto familiare abbastanza equilibrato, voleva studiare legge all’università, nessun fidanzato, le piacevano i gerbilli, Lady Gaga e leggere». Si girò e indicò una bacheca coperta di foto a mezzo busto di giovani ragazze, tutte sparite nei dodici mesi precedenti, pochi giorni prima del loro tredicesimo compleanno.

    Anche la foto di Rebecca era stata lì in mezzo…

    Una aveva il bordo rosso, il nastro era fissato con puntine di acciaio: era Helen McMillan. Capelli color rame lucido, sorridente, con addosso una camicia bianca e ciò che sembrava il cravattino di un’uniforme scolastica.

    Byron assunse un’espressione accigliata. «Secondo Bremmer, corrispondeva al profilo della vittima solo per il venticinque per cento».

    Seduto dall’altra parte del gruppo, il sergente Gillis si accarezzò la lunga barba bionda da vichingo, i lunghi riccioli legati in una coda dietro la testa. Quando parlava aveva il grugnito tipico di Morningside e di chi fumava sessanta sigarette Benson & Hedges al giorno. «Da ciò che sappiamo, Helen non teneva un diario, perciò non abbiamo idea se avesse pianificato di incontrarsi con qualcuno il giorno in cui è stata rapita. Aveva detto a sua madre che sabato dopo la chiusura del parrucchiere sarebbe andata in giro per negozi: voleva un nuovo telefono per il compleanno. L’ultima immagine che abbiamo di lei è mentre esce dal negozio Vodafone nel centro commerciale di Overgate alle cinque e trentasette. Poi più nulla».

    Dickie scrisse qualcosa sulla lavagna. «Il nostro uomo sembra ave­re una passione per i centri commerciali. E cosa mi dite dei social network?».

    Sabir si schiarì la voce. «Sto esaminando tutto da capo: ho questo nuovo software di analisi dei profili che valuta anche gli amici. Per ora sappiamo solo chi ha una cotta per chi e quanto siano fantaaastici i Five Star Six». Mi diede una pacca sulla spalla. Sapeva di patatine. «Cambiamo argomento».

    Tutti guardarono verso di me, alcuni fecero un cenno con la testa – a parte il coglione peloso del sergente Gillis – e un paio addirittura mi salutarono con la mano.

    Il sorriso rese le rughe attorno alla bocca del vice questore aggiunto ancora più profonde. «Agente Ash Henderson, da quanto tempo. A cosa dobbiamo…». All’improvviso cambiò tono. «È successo qualcosa, non è vero?».

    «Alle due e mezza di ieri pomeriggio, un gruppo di operai del Comune stava riparando una fognatura principale a Castleview». Allungai la fotografia che avevo mostrato a Sabir e la consegnai a Dickie. Era l’ingrandimento venti per venticinque di una buca. La terra era scura, quasi nera, in netto contrasto con l’escavatrice color giallo acceso del Comune che si vedeva sullo sfondo. Un telo di plastica nera sbrindellato circondava un ammasso di ossa biancastre: costole, femori e tibie che la benna dell’escavatrice aveva sparpagliato. Il teschio giaceva su un lato, la tempia destra sfondata.

    «La scorsa notte abbiamo rilevato che la mappa dentale corrisponde. È Hannah Kelly».

    «Porca miseria…». Il sergente Gillis si tirò la barba da vichingo. «Ne abbiamo una! Finalmente ne abbiamo una!».

    «Fantastico». Dickie si alzò in piedi e afferrò la mia mano, scuotendola su e giù. «Finalmente abbiamo una prova forense. Veri resti organici, non interviste mezzo dimenticate o filmati sgranati di telecamere a circuito chiuso che ci fanno diventare matti. Abbiamo prove reali». Lasciò andare la mano e per un momento ebbi la sensazione che fosse sul punto di abbracciarmi.

    Feci un passo indietro. «Alle tre di stanotte abbiamo trovato un altro corpo, nella stessa area».

    Sabir aprì un portatile con una mano mentre nell’altra teneva l’hamburger mezzo mangiato. «Dove?». Le dita della mano destra danzarono sulla tastiera e un proiettore fissato al soffitto si mosse, trasformando la parete vicino alla porta in un grande schermo: Google Earth si avviò.

    Mi sistemai sul bordo di una scrivania. «McDermid Avenue».

    «McDermid Avenue…». Si sentì un rumore di tasti, la cartina zoomata mostrò il Nord-Est della Scozia e poi Oldcastle, la curva luccicante del fiume Kings divisa a metà. Poi scese più in dettaglio, finché Castle Hill arrivò a occupare tutto il muro: le strade intrecciate di ciottoli che circondavano il castello, la grande area di King’s Park e l’edificio rettangolare anni Sessanta dell’ospedale. Maggiori particolari: le strade alberate, le case terrazzate di arenaria con i tetti in ardesia e i lunghi giardini sul retro. McDermid Avenue apparve nel centro esatto, sempre più grande, fino a poterne distinguere le auto. Le case si affacciavano su un rettangolo di macchia, con cespugli e alberi, un parco trascurato attraversato da viottoli.

    Il vqa Dickie si avvicinò tanto da disegnare un’ombra sulle immagini della strada. «Dov’è il luogo della sepoltura?». Era inquieto, si sfregava i polpastrelli.

    Probabilmente stava pensando che dovevamo riuscire a identificare la casa dove i corpi erano stati seppelliti, a scoprire chi viveva lì nove anni prima e ad arrestarlo, così ce ne saremmo potuti andare tutti a casa. Povero coglione.

    Diedi un colpetto a Sabir, tolsi i semi di sesamo dalla tastiera del computer e poi puntai il mouse sul parco dietro le case. Doppio clic a tre centimetri dai resti del palco dell’orchestra, proprio dentro un roveto. La schermo si mosse di nuovo, ma questa volta la foto satellitare non aveva un’alta risoluzione e l’immagine risultò sgranata.

    Le spalle di Dickie si abbassarono leggermente. «Oh…».

    Non era proprio così semplice.

    Ridussi lo zoom, e altre strade comparvero sullo schermo insieme a McDermid Avenue: Jordan Place, Hill Terrace e Gordon Street, tutte affacciate sul parco.

    La donna con la pettinatura a forma di caso fischiò.

    «Ci saranno, quante, sessanta… ottanta case lì?».

    Scossi la testa. «Negli anni Settanta molti di questi edifici sono stati suddivisi in appartamenti. State guardando almeno trecento case con accesso al parco».

    «Merda».

    Una piccola pausa, poi Byron alzò il mento. «Sì, ma almeno abbiamo un punto di partenza, o no? Abbiamo trecento possibili piste invece del nulla assoluto. È comunque un risultato».

    Rigirai la Patafix nel palmo fino a farla diventare appiccicosa, poi ne feci quattro pezzi e attaccai il foglio al muro, completando il quadro. Otto biglietti d’auguri fatti in casa, ingranditi in formato A3 dalla fotocopiatrice dell’hotel. Li sistemai in due file da quattro, il più vecchio in alto a sinistra, il più recente in basso a destra. Tutte le istantanee riportavano un numero nell’angolo superiore sinistro: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8. Una ogni anno, per otto anni.

    La prima ritraeva Hannah Kelly legata a una sedia in una stanza sporca: occhi sgranati, guance rigate dalle lacrime, e un rettangolo di nastro adesivo a coprire la bocca. Indossava gli stessi abiti con cui era scomparsa: una corta giacca di pelle chiara, una canottiera rosa con una sorta di logo stampato sopra, una minigonna di tartan rosa, calze e alti stivali neri. I legacci intorno alle caviglie si intravedevano appena sulla pelle scura, le mani erano dietro la schiena.

    Aveva ancora i capelli: lunghi, nero notte, lisci.

    Era scomparsa da un anno e quattro giorni quando era arrivato il biglietto.

    Hannah appariva vestita fino alla foto numero cinque, anche se non sempre interamente. Poi diventava un inferno di tagli e lividi, e sulla sua pelle chiara si intravedevano piccole bruciature circolari di un colore rosso intenso.

    Sul mio petto si annidò quel peso freddo, così familiare.

    Otto biglietti, una sorta di anticipazione di ciò che sarebbe accaduto anche a me: le foto di Rebecca, anno dopo anno, una peggio dell’altra. Voleva essere sicuro che sapessi cosa le aveva fatto, che vedessi…

    «Ash, tutto bene?». Dickie mi stava fissando.

    Mi schiarii la voce. «Sì, solo… la notte scorsa è stata lunga, in attesa dei risultati». Mi diressi verso la macchina del caffè della sala conferenze, lasciando gli altri a guardare quella sessione di tortura al rallentatore. Poi a mano a mano si allontanarono, finché rimase solo Dickie insieme all’unico membro della squadra che non conoscevo. L’altra donna, che sedeva tranquilla e prendeva appunti mentre tutti gli altri festeggiavano il ritrovamento del corpo di Hannah Kelly, era l’unica a non sembrare un poliziotto.

    Scrutava le foto da un paio di occhiali con la montatura spessa, una mano che giocherellava con un lungo ciuffo di capelli ricci e castani. Con l’altro braccio si cingeva il corpo, come se stesse cercando di trattenere qualcosa. Indossava una maglia grigia a righe, jeans, un paio di Converse rosse alte e da una spalla le pendeva una borsa di pelle chiara. Vicino a Dickie, sembrava la figlia.

    Forse la nipote: non poteva avere più di ventidue anni.

    Mi unii a loro, la tazza che sprigionava calore e ammorbidiva le dita ruvide. «I genitori di Hannah ancora non lo sanno».

    Dickie guardò l’ultima fotografia della serie, quella arrivata due mesi prima del compleanno della ragazza. Era accasciata sulla sedia; i lunghi capelli neri erano stati rasati, sulla testa si vedevano lividi e tagli e sulla fronte era incisa la parola Puttana. Gli occhi erano chiusi, le lacrime scorrevano luccicanti sulle guance tra le tracce di sangue. Dickie tirò su col naso. «Volete che glielo dica io?». Sospirai. Scossi la testa. «Lo farò io quando tornerò a Oldcastle. Mi conoscono».

    «Uhmm…». Pausa. «Parlando di chi…».

    Dickie annuì alla ragazza con la maglia a righe. «Vi conoscete già?».

    «Salve». Smise di giocare con i capelli. «Dottoressa McDonald, cioè, Alice, veramente. Voglio dire, può chiamarmi Alice, se vuole, o dottoressa McDonald, insomma, a volte le persone mi chiamano dott, ma non mi piace molto, Alice va bene…».

    «Ash». Allungai la mano per stringere la sua. Lei la guardò.

    «Bene, grande, grazie per l’offerta, ma non ho contatti fisici con persone che conosco appena, cioè, è una questione di igiene e di batteri – lei è una di quelle persone che si lavano le mani dopo essere andati in bagno, si mette le dita nel naso o è uno di quelli che si gratta – per non parlare poi di tutta la faccenda dello spazio personale».

    Totalmente assurda. Fuori di testa.

    Si schiarì la voce. «Scusi, vado un po’ in agitazione nelle interazioni sociali con gli sconosciuti. Ci sto lavorando su, cioè, con il vice questore Dickie ora va bene, non è vero, vice questore? Non parlo più a vanvera con lei, glielo dica».

    Dickie sorrise. «Da ieri, la dottoressa McDonald è la nostra psicologa forense».

    «Ah». Una pazza per catturare un pazzo… «Cosa è successo all’ultimo?».

    Si strinse ancora più forte tra le braccia. «Credo proprio che sia necessario fare una visita sul luogo della sepoltura. Il killer dei compleanni non ha scelto quel posto a caso: doveva sapere che lì poteva stare tranquillo, che non l’avrebbero scoperto per anni. Se fossi io a uccidere le ragazze e a seppellirle, vorrei un posto vicino per essere certa che siano al sicuro. Cosa ne pensate? È tutta una questione di potere e possesso, che dite?». La dottoressa McDonald si guardò la punta bianca delle Converse rosse.

    Lanciai un’occhiata a Dickie. «Non parla così quando siete solo voi due?»

    «Quasi mai». Alzò la mano, come se stesse per darle una pacca sulla spalla.

    Trasalì e fece un passo indietro.

    Dickie sospirò. «Vi… lascio, allora». Mise la mano in tasca, lontano dal pericolo. «Ash? Hai fretta di tornare a Oldcastle o hai un minuto?».

    Fretta? Ancora non avevo deciso se dirigere il mio catorcio verso Newcastle e fermarmi lì. «Tutto il tempo che vuoi».

    «Allora», chiusi la porta di vetro e mi appoggiai al parapetto, «la camicia di forza se la compra lei o dobbiamo fornirgliela noi?».

    Il panorama dal balcone della sala era penoso come Sabir l’aveva descritto: si vedevano la strada a due corsie e il centro commerciale di Kings­way. Grandi edifici di vetro e metallo delimitavano il triangolo asimmetrico del parcheggio. Sopra, il cielo era di un grigio compatto, la luce fredda e sottile penetrava attraverso la pioggia battente. Per lo meno si stava all’asciutto: il balcone della stanza sovrastante riparava dal maltempo.

    I mozziconi di sigarette erano ammucchiati agli angoli, piccoli cilindri arancioni che si gonfiavano sulle piastrelle umide. Gillis era all’altro capo del balcone, fumava – il fumo gli usciva dalla barba come se stesse bruciando – e borbottava al cellulare, camminando avanti e indietro.

    Dickie accese una sigaretta e fece un lungo e profondo tiro, poi appoggiò i gomiti sul parapetto, sfregandosi con una mano le borse sotto gli occhi. «Come va l’artrite?».

    Piegai le mani: le articolazioni mi facevano male. «Potrebbe andare peggio. E la tua ulcera?»

    «Lo sai, quando ho cominciato questa cazzo di indagine, ero intoccabile, ero al top, frequentavo posti diversi… Ti ricordi gli omicidi Pearson?». Un altro tiro. «Guardami, ora».

    «Cosa è successo al vostro ultimo psicologo?».

    Dickie mimò una pistola con il pollice e l’indice, appoggiò la mano alla tempia e premette il grilletto.

    «In una camera d’hotel a Bristol, tre settimane fa». Lanciò uno sguardo verso la sala conferenze. «La dottoressa McDonald potrà essere anche una matta, ma per lo meno non dovremmo ripulire il suo cervello dai muri. Be’… tocchiamo ferro».

    Mi girai, guardai attraverso le porte di vetro. Era ancora davanti agli ingrandimenti dei biglietti d’auguri e giocherellava con i capelli mentre osservava il corpo sanguinante di Hannah Kelly. Impressi alla mia voce un tono scherzoso che risultò alquanto esagerato. «Non è certo colpa sua, vero? Il killer dei compleanni è sempre stato un osso duro».

    «Quando veniamo a sapere che lui le ha prese, è già passato un anno. Gli indizi non dicono più nulla, non ci sono testimoni, o non ricordano, o inventano cazzate perché guardano troppa televisione e pensano che sia ciò che vogliamo». Dickie scosse la cenere dalla sigaretta, poi fissò la punta incandescente. «Tra quattro mesi raggiungo l’età della pensione. Otto anni a lavorare allo stesso cazzo di caso e nemmeno un indizio… fino a oggi». Strinse gli occhi, avvolto dal fumo. «Due corpi, probabilmente altri in arrivo. Estrarremo dna, fibre, e prenderemo il bastardo. Andrò in pensione e marcerò verso casa a Lossiemouth a testa alta, mentre il killer dei compleanni marcirà in una cella sporca di merda per il resto della sua mostruosa vita».

    «Ci darai una mano con gli interrogatori porta a porta?».

    Pausa. «Potresti riportare la dottoressa McDonald a Oldcastle? E mostrarle il luogo del ritrovamento così che possa farsi un’idea del posto?».

    Sì, perché fare da babysitter a una psicologa instabile era proprio in cima alla lista delle cose da fare nella vita. «Tu non vieni?».

    Dickie fece una smorfia, e gli angoli della bocca gli si incurvarono verso il basso. «Sai perché sono ancora qui, Ash? Perché non mi tolgono il caso e lo affidano a qualcun altro?»

    «Nessuno stronzo lo vuole?».

    Annuì. «È un suicidio professionale. Parlando di… Ho bisogno di un altro favore». Si alzò, con una mano si strofinava la parte bassa della schiena. «L’ultimo psicologo, Bremner, non si è solo ucciso, ma ha anche portato con sé gli appunti sul caso. Ha bruciato tutto nel cestino dell’hotel, ha disattivato l’allarme anti-incendio, gli ha dato fuoco e poi si è sparato».

    Infilai le mani in tasca. Cominciavo a sentire freddo. «Avevo sempre pensato che fosse un idiota».

    «È riuscito a fottere anche i documenti nei server. Ogni ricostruzione psicologica che avevamo… puf, è andata in fumo. Sabir ha cercato di recuperare i dati, ma è passato troppo tempo da quando Bremner ha fatto quel casino e anche i backup sono andati». Dickie fece un ultimo tiro dalla sigaretta, poi gettò il mozzicone ardente nella pioggia. «Non voglio parlare male dei morti, però…».

    «Cosa devo fare?»

    «Tu e Henry siete ancora amici, vero?»

    «Henry chi?», corrugai le sopracciglia. «Chi? Forrester? Ci spediamo il classico biglietto d’auguri natalizi, ma sono anni che non lo vedo».

    «Il problema è che la dottoressa McDonald deve ricominciare da capo, e le sarebbe di grande aiuto discutere del caso con lui. Magari potresti vedere se lui ha ancora i file originali?»

    «Chiamalo e fatti spedire tutto con il corriere».

    Dall’altra parte del balcone, Gillis chiuse il telefono, poi spense la sigaretta contro il muro e la fece cadere sulle mattonelle ai suoi piedi.

    Dickie guardò il centro commerciale. «Lei dice che deve vederlo di persona, faccia a faccia».

    Gillis venne verso di noi. «Gliel’ha già detto?»

    «Detto cosa?».

    Un sorriso spuntò nello spazio tra i baffi e i peli della barba scoloriti dalla nicotina. «Delle Shetland. Porterai la dottoressa a trovare il vecchio amico Forrester».

    Misi il petto in fuori, alzai il mento. «Portacela tu. Sei tu che sembri un fottuto vichingo».

    «Il vecchio non vuole avere niente a che fare con il caso, ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Sei suo amico, vai e parlagli».

    Dickie sospirò. «Dài, lo sai come è fatto Henry quando punta i piedi!».

    Aggrottai le ciglia. «Alle Shetland?».

    Gillis strizzò gli occhi. «Non vuoi aiutarci a prendere il bastardo? Davvero? Che razza di poliziotto sei?»

    «Sono solo un paio di giorni, Ash, al massimo tre o quattro. Mi metto d’accordo io con il tuo capo».

    La dottoressa McDonald non era l’unica matta. «Non andrò alle Shetland! Abbiamo appena trovato due corpi e…».

    «Non succederà niente in questi giorni: dobbiamo aspettare i risultati di laboratorio a Oldcastle e spararci trecento interrogatori porta a porta». Dickie annuì in direzione della sala, dove la dottoressa osservava i biglietti. «Quando prenderemo il killer dei compleanni, avremo bisogno di lei per accelerare gli interrogatori. Voglio una confessione piena, definitiva, non qualcosa che gli permetta di uscire cinque o sei mesi dopo grazie a un viscido avvocato difensore».

    «Non sono il suo cazzo di babysitter! Trovate qualcun altro per…».

    «Ash, per favore».

    Guardai la pioggia… quattro giorni lontanissimo da Oldcastle, ma ancora nel Regno Unito. Quattro giorni in cui le grinfie di Mrs Kerrigan non potevano raggiungermi; forse, una volta che Henry avesse visto quanto incapace era la nuova psicologa di Dickie, avrebbe riportato il suo culo rugoso al lavoro e mi avrebbe aiutato a prendere il bastardo che aveva ucciso Rebecca. Quattro giorni per convincere il vecchio che quattro anni alle Shetland erano un castigo abbastanza pesante per quello che era successo a Philippe Skinner, e che era ora di tornare al lavoro.

    Annuì. «Ok, volo da Aberdeen o da Edimburgo?».

    Il sorriso di Gillis si fece più ampio. «Domanda divertente, chiedilo a…».

    Capitolo 4

    «Può rallentare, per favore?». La dottoressa McDonald strinse ancora di più la maniglia sopra la portiera del passeggero, le nocche bianche, gli occhi chiusi.

    Accelerai, con il pedale arrivai a toccare il tappetino della Renault. Sì, lo so, era infantile, ma aveva cominciato lei. Fuori dai finestrini dell’auto sfumava veloce dietro di noi una strada residenziale, e alberi scheletrici si stagliavano nel cielo grigio. Una pioggerella batteva contro i vetri. «Pensavo fosse una psicologa».

    «Lo sono, ma non è colpa mia se viaggiare in aereo mi terrorizza, so che può sembrare assurdo, perché statisticamente nel Regno Unito è più probabile essere uccisi da un tostapane che morire in un incidente aereo – perciò non faccio mai i toast – ma non riesco…». Emise uno strillo acuto mentre sterzavo per Strathmore Avenue. «Per favore! Può rallentare?»

    «Non sa se stiamo andando veloci, ha gli occhi chiusi».

    «Lo sento!».

    Il mio telefono iniziò a suonare. «Aspetti…». Tirai fuori l’aggeggio dalla tasca e premetti il tasto verde. «Pronto?».

    Una voce maschile: «Abbiamo un altro…».

    La dottoressa McDonald mi tolse il telefono dalla mano. «No, no, no!». Se lo avvicinò all’orecchio, ascoltò un momento. «No, non glielo passo, sta guidando, vuole causare un incidente, non voglio morire, lei vuole uccidermi, è una sorta di psicopatico che uccide passeggeri a caso provocando incidenti stradali, è questa la sua idea di divertimento?».

    Tesi la mano. «Mi ridia il telefono».

    Appoggiò l’aggeggio all’altro orecchio, fuori dalla mia portata. «No, gliel’ho detto, sta guidando».

    «Mi dia quel maledetto telefono!».

    Allontanò la mia mano. «Ah ah… Aspetti». Mi guardò dal sedile del passeggero. «È un certo Matt, dice di riferirle che è uno schifoso bastardo». Di nuovo al telefono. «Sì, gliel’ho detto… ah ah… ah ah… Non lo so».

    «Matt, chi?»

    «Quando torniamo a Oldcastle?»

    «Chi cazzo è questo Matt?».

    «Dice che mentre se la spassava a Dundee, il georadar ha scoperto un altro gruppo di resti…». Mentre ascoltava, inclinava la testa da un lato e aveva un’espressione concentrata. «Non lo dirò all’agente Henderson… perché è inutilmente maleducato, ecco perché».

    Be’, almeno avevo capito chi era Matt: il capo della Scientifica di Old­castle. Parlava sempre come uno scaricatore di porto.

    Un altro corpo.

    Fai che non sia Rebecca. Lasciala tranquilla sottoterra finché non avrò messo le mani su quel bastardo che l’ha torturata a morte. Ti prego.

    Buttai la macchina sulla destra. «Chiedigli se hanno già identificato il corpo».

    «L’agente Henderson vuole sapere se avete già identificato… ah ah… No… glielo riferisco».

    Mi guardò. «Dice che le deve venti sterline, e…».

    «Per amor di Dio, hanno l’identificato o no?».

    Svoltai a sinistra in un’altra strada di case popolari che sembravano un carcere.

    «Dice che stanno ancora disseppellendo i resti». Mise una mano sul microfono. «A quanto pare il procuratore ha insistito nel mettere un archeologo forense a capo dello scavo, e sta trasformando tutto in un grande spettacolo».

    Girai a sinistra, poi di nuovo a sinistra in una strada senza uscita, su un lato della quale si affacciavano tre condomini e sull’altro delle casette grigie a un piano. Alle dieci passate di un lunedì mattina d’inverno, la maggior parte delle case erano buie. Nell’oscurità piovosa si intravedeva qui e là una luce dalla finestra.

    Maledizione. «Abbiamo compagnia».

    Un furgone Transit grigio con il logo di Sky che spiccava su una fiancata era fermo vicino al marciapiede, con il tetto pieno di antenne e di un disco satellitare. Era l’unico mezzo per le riprese esterne che si vedesse, il resto dei veicoli era il solito assortimento di schifose fiat, Vaux­hall e Ford, tanto amate dai reporter dei tabloid e dei quotidiani.

    Parcheggiai alla fine della strada di fronte al caseggiato a forma di l, quello con fuori un’agente in uniforme sotto la pioggia, con le braccia incrociate appoggiate sul ventre gonfio. Una luce sulla porta principale le colorava la giacca di un giallo fluorescente.

    Tirai il freno a mano e poi spensi il motore. Aprii la mano: «Il telefono».

    La dottoressa McDonald mi fece cadere il cellulare sul palmo come se volesse evitare che le sue dita mi toccassero.

    «Matt, di’ all’archeologo di muovere il culo: questa è un’indagine per un omicidio, non un pigiama party».

    «Ma…».

    Riattaccai e infilai il telefono in tasca. «Ma come fa ad avere paura di volare?»

    «Non è una cosa naturale. E poi non ho paura di volare». Si slacciò la cintura di sicurezza e mi seguì sotto la pioggia. «Ho paura di precipitare, che è perfettamente logico, un meccanismo di sopravvivenza del tutto razionale. Tutti dovrebbero avere paura di precipitare, la cosa strana è non avere paura. Lei, lei è quello strano».

    La guardai. «Sì, certo, sono io quello strano».

    Fuori dal piccolo caseggiato dovemmo mostrare la tessera alla guardia fradicia. Una frangia scura che sbucava da sotto il berretto era appiccicata alla fronte per l’acqua che cadeva, e il suo viso paffuto si stirò in un’espressione gelida.

    Feci un cenno di saluto al gruppetto di giornalisti, ma nessuno si disturbò a scendere dalla propria bella macchina calda. Uno abbassò il finestrino e tirò fuori un obiettivo, più che altro per vincere la noia. «Rompono le scatole?».

    L’agente scoprì i denti di sopra. «Sì, è da non credere. Salite?».

    No, eravamo andati fin lì per farle compagnia e prendere un po’ di pioggia. Alzai lo sguardo all’edificio di mattoni rossi. «I McMillan sono in casa?»

    «Sì, ma state attenti, c’è anche un giornalista». Si spostò da un lato. «Non siamo esattamente i benvenuti».

    «Saliamo?», tenni la porta aperta e accompagnai dentro la dottoressa McDonald.

    Mi guardò. «Ehhm…».

    «È stata una sua idea, ricorda? Io volevo tornare subito a Oldcastle, ma no, ha detto…».

    «Può andare lei per primo?»

    «Va bene». Le scale odoravano di profumo al muschio e di cipolle fritte. Una composizione di piante stava morendo in un vaso al primo piano, il tappeto iniziava a spelacchiarsi ai lati, il volume di una televisione era troppo alto.

    Le mie scarpe scricchiolavano sui gradini, come se qualcuno vi avesse messo della sabbia per evitare che il tappeto diventasse troppo scivoloso. Il secondo piano era molto simile al primo: altre piante morenti, un paio di porte dipinte di un colore rossastro, un mucchio di elenchi telefonici appoggiati sul davanzale ancora chiusi nel cellofan.

    La voce della dottoressa McDonald fece eco nella tromba nelle scale da qualche punto più sotto. «È sicuro salire?»

    «Sicuro?». Guardai i vasi di piante rinsecchite. «No, è tutto infestato di Ninja rabbiosi». Pausa. «Certo che è sicuro!». Mi aggrappai alla balaustra e mi trascinai all’ultimo piano.

    Un paio di porte conducevano a due appartamenti distinti: uno zerbino di benvenuto era di fronte a uno dei due, un lercio rettangolo marrone appoggiato sul tappeto pieno di sabbia. Sopra il campanello il cognome McMillan era dipinto a mano con una scrittura infantile su una targa di legno.

    Mi appoggiai al muro e aspettai.

    Tre minuti dopo, la dottoressa McDonald fece capolino da dietro l’angolo, e mi guardò. «Non faccia il sarcastico, non sto cercando di darle fastidio, è solo che ho un certo… timore degli spazi chiusi che non mi sono familiari».

    Era un miracolo che la lasciassero girare sola.

    Bussai alla porta.

    Aprì un poliziotto che indossava il completo camicia bianca e cravatta che gli ufficiali di polizia avevano abbandonato anni prima a favore di uno nero in stile Darth-Vader. Aveva il naso lungo, picchiettato da venuzze, e su una fronte stretta c’erano un paio di occhi scuri un po’ distanziati. Quando si voltò per squadrare la dottoressa McDonald, sulla spallina nera scintillarono un gruppo di gradi argentati da sergente, poi mi guardò e mi fece una smorfia. «Agente Henderson? Vediamo il distintivo».

    Piccolo bastardo zelante. Lo tirai fuori di nuovo. «Lei è un agente di collegamento con la famiglia?».

    Un cenno con il capo. «Bene, grazie. Scusatemi, ma questi giornalisti del cazzo cercano di infilarsi qui, fingendo di vivere nel palazzo, o di essere parenti o amici della famiglia…». Indicò con il pollice dietro le sue spalle. «I genitori sono di là con uno di qualche tabloid».

    «Come è arrivato fin qui?»

    «Arrivata: l’hanno invitata loro, lei e il suo libretto degli assegni, hanno intenzione di pubblicare il biglietto d’auguri».

    «Oh malediz… È l’indizio in un’indagine in corso! Perché non l’ha buttata fuori a calci? Devo…».

    «Non possiamo impedire alla famiglia della vittima di invitare gente, è casa loro». L’acf sporse il petto in fuori. «E comunque, agente Henderson, non me ne frega niente se è uno degli imbucati di Dickie». Si diede dei colpetti sulla spalla, facendo sobbalzare i gradi d’argento sulla spallina. «Li vede questi? Significano sergente, perciò attento a come parla. Voi cazzoni della squadra speciale siete tutti uguali: perché non avete ancora preso il killer dei compleanni? Voi bastardi non sareste in grado di spaccare un carrello della spesa».

    Silenzio.

    Strinsi i pugni, le nocche schioccarono. Colpire il bastardo, al diavolo se era un sergente: non sarebbe stata la prima volta…

    La dottoressa McDonald entrò nell’ingresso e si mise proprio in mezzo a noi. «Questo è proprio un pasticcio, no? Be’, non quello da mangiare ovviamente, sarebbe stupido, ma in senso figurato. Insomma, lavoriamo tutti per raggiungere lo stesso risultato, ma abbiamo pressioni e aspettative diverse». Sorrise al sergente mentre faceva un passo indietro. «Essere un acf deve comportare uno stress incredibile. Il mio nome è Alice McDonald, sono una psicologa criminale, cioè non sono una psicologa che commette crimini, quelle cose succedono solo nei film, e nei libri, credo, non nella vita reale, è un problema se entriamo?».

    Mentre il sergente indietreggiava nel corridoio, i suoi occhi si spostarono a destra e a sinistra alla ricerca di un posto sicuro dove nascondersi dallo tsunami di pazzia che si stava avvicinando sul tappeto beige.

    La sua schiena urtò contro una porta: non c’erano vie di fuga. Nessuna possibilità, poteva solo affogare… Si girò, e la spalancò.

    La sala era piena di mensole e mobili zeppi di vasi, cartoline, cristalleria ornamentale, pacchi di buste, pezzi di pietre levigate… I mobili sembravano di Ikea, ma la confusione era da mercatino delle pulci. C’erano tre persone: un uomo e due donne.

    Non era difficile capire quale delle due fosse la giornalista: era l’arrivista di mezz’età che indossava un vestito abbastanza costoso, aveva le sopracciglia corrugate e la bocca stretta in una linea severa. Sento il tuo dolore, è così terribile, una tragedia… Gli angoli della bocca erano contratti, come se cercasse in tutti i modi di non sorridere. Un’esclusiva come quella non era da tutti giorni.

    Il sergente entrò nella stanza e si schiarì la gola. «Ian, Jane, questa è la dottoressa McDonald, è una… psicologa. Vuole parlare con voi di… ehmm…». Si girò a guardarla.

    Entrò. «Mi dispiace per Helen. So che è difficile, ma devo farvi delle domande, per cercare di capire come fosse».

    Che fine aveva fatto quel farneticare di prima?

    Il padre, Ian, aggrottò le folte sopracciglia, unite come le porte di una corazzata. Indossava pantaloni della tuta arancioni dello United di Dundee e una maglietta di Mr Men, aveva i capelli rasati e le braccia incrociate sul petto.

    La moglie era… enorme. Non solo grassa, ma alta, un gigante a fiori con lunghi capelli marroni e occhi rossi gonfi. Si schiarì la voce. «Stavo per fare del tè, volete…».

    «Loro non rimangono». Ian si lasciò cadere sul divano e guardò la dottoressa McDonald. «Vuole sapere com’è mia figlia? Morta. Ecco com’è».

    Jane strappò un fazzoletto dalla scatola appoggiata sulla gambe. «Ian, per favore, non sappiamo per…».

    «Certo che è morta». Puntò il mento nella nostra direzione. «Chiediglielo, forza, chiedigli cosa è successo alle altre povere ragazze».

    Lei si passò la lingua sulle labbra. «Mi… mi dispiace, è sconvolto, ha avuto uno shock terribile. E…».

    «Sono morte. Le prende, le tortura, le uccide». Ian si strinse le mani così forte che i polpastrelli sbiancarono. «Fine della storia».

    La dottoressa McDonald guardò per un momento il tappeto. «Ian, non le mentirò, ma…».

    «Veramente…». Mi infilai nella stanza, con gli occhi puntati sulla giornalista. «Forse possiamo parlarne in privato?».

    Ian scosse la testa. «Comunque le riferiremo tutto ciò che ci direte. Finalmente tutti sapranno come stanno davvero le cose, non come in quei comunicati stampa del cazzo che rilasciate».

    La reporter si alzò in piedi, e allungò la mano. «Jane Buchanan, freelance, voglio che sappiate che ho il più profondo rispetto della polizia in una così difficile…».

    «Mr McMillan, quest’indagine è in corso, e se prendiamo la persona colpevole del rapimento…».

    «…è nell’interesse pubblico riferire…»

    «…impedire che continui a farlo, ma non possiamo se questi parassiti riferiscono tutto…».

    «Parassiti?». Il tono professionale si incrinò. Mi puntò un dito contro: «Ascolti bene, bellezza: Jane e Ian riceveranno un compenso per la loro storia, non può censurare…».

    «…di certo vogliamo evitare che altre famiglie passino questo inferno!».

    Ian mi guardò in cagnesco. «Fottetevi tutti, non ci riporterà indietro Helen, o no? È morta. L’ha uccisa un anno fa. Non c’è un cazzo che possiamo fare per cambiarlo». Si morse le labbra, lo sguardo rivolto alle persiane delle finestre. «Non importa ciò che vogliamo noi, i giornali ne scriveranno lo stesso. Almeno così avremo… perché dovremmo regalare il nostro dolore?».

    La moglie si era seduta accanto a lui, gli cercò la mano e gliela strinse.

    Forse aveva ragione: perché avrebbe dovuto permettere a quegli sciacalli di rovistare nella vita della figlia senza avere niente in cambio? I soldi non avrebbero riportato Helen in vita, ma almeno sarebbero stati qualcosa. Sarebbero serviti a dimostrare che non erano impotenti. Avrebbero smesso di svegliarsi nel cuore della notte, bagnati di sudore, tremando… Ne dubitavo.

    La giornalista si schiarì la voce, alzò il mento, ritornò a sedere e si mise a scrivere su un blocco.

    La dottoressa McDonald si accucciò davanti al divano, e appoggiò una mano sul ginocchio di Ian.

    «È tutto ok. Ognuno ha un modo diverso di affrontare le cose. Se questo è il suo modo… be’, faremo del nostro meglio per esserle d’aiuto. Ora, parlatemi di Helen…».

    Uscii dalla stanza.

    Capitolo 5

    Helen McMillan aveva gli stessi poster di Katie. Va bene, i gruppi musicali provenivano dall’insulso programma di X-Factor e non suonavano il pretenzioso rock emo-arrabbiato che, invece, piaceva a Katie, ma l’intenzione era la stessa. Queste sono le cose che mi piacciono, che mi rappresentano.

    Gli idoli di Rebecca erano i Nickelback e le Pussycat Dolls… Era sempre stata una ragazzina strana.

    «Trovato qualcosa?»

    «Ehhh?». Spostai lo sguardo dalla disordinata scrivania a un angolo della stanza.

    La dottoressa McDonald era in piedi sulla porta. «Trovato qualcosa?»

    «Sto ancora cercando…».

    Un grande unicorno peloso rosa

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1