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L'arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi
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E-book381 pagine5 ore

L'arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi

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L’arte di Eduardo non è un’arte tra le altre, è qualcosa di più. È una delle immagini in rilievo che nel Novecento ha raccontato la ricerca impossibile, ma irrinunciabile, dell’umanità dell’umano che la grande arte non ha smesso e non smetterà di compiere, e ha radicato questa ricerca nello spazio-tempo di una nazione, l’Italia, e a partire da una città, Napoli, che sui confini permeabili dell’umano e del non-umano, della vita e della morte, ha costruito impareggiabili “monumenti” estetici.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2014
ISBN9788868222253
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    Anteprima del libro

    L'arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi - a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    L’ARTE DI EDUARDO

    Le forme e i linguaggi

    a cura di

    Roberto De Gaetano e Bruno Roberti

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Ruggero Eugeni, Pietro Montani

    Progetto I giorni e le notti. L’Arte di Eduardo

    a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti

    Volume 1 Le forme e i linguaggi

    Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici - Università della Calabria

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    ISBN: 978-88-6822-225-3

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    L’arte di Eduardo non è una tra le altre. È qualcosa di più, è l’arte capace nel suo essere diurna e notturna allo stesso tempo di riprendere la linea scettica del dramma borghese (tramite Pirandello) per calarla nella tradizione delle maschere popolari italiane; di promuovere la lingua bassa del dialetto a lingua alta del pensiero; di dare corpo e voce sulla scena e sullo schermo ad un romanzo teatrale dove i destini dell’uomo incrociano quelli della storia; di attraversare momenti e movimenti storici (secondo dopoguerra e neorealismo) declinandone la drammaticità in forme fantasmatiche e anche patetiche (Napoli milionaria!); di pensare e costruire una commedia, anche cinematografica, dove il colore rosa dei giovani e del futuro è schiacciato da quello nero dei vecchi (Ragazze da marito); di restituire impietosamente le forme dell’istituzione cardine della famiglia (da Natale in casa Cupiello fino a Gli esami non finiscono mai); in definitiva, di riconsegnarci l’approdo ultimo, novecentesco, di un sentimento scettico e cinico del mondo (Questi fantasmi!, Le voci di dentro), di una condizione esistenziale segnata dalla solitudine come ritiro dalla vita, anche se «A vita, secondo me, significa tutto. E dicendo tutto, voglio dicere tutto» (Mia famiglia). L’arte di Eduardo non è un’arte tra le altre, è qualcosa di più. È una delle immagini in rilievo che nel Novecento ha raccontato la ricerca impossibile, ma irrinunciabile, dell’umanità dell’umano, che la grande arte non ha smesso e non smetterà mai di compiere, e ha radicato questa ricerca nello spazio-tempo di una nazione, l’Italia, e a partire da una città, Napoli, che sui confini permeabili, e a volte indiscernibili, dell’umano e del non-umano, della vita e della morte, ha edificato impareggiabili monumenti estetici.

    Questo cogliere i destini dell’umano, radicandoli nella carne viva di un Paese, nella determinatezza e singolarità di un mondo, è uno dei contrassegni di un’arte epocale e universale (l’incontro finale con Shakespeare non è casuale). Un’arte che ha saputo cogliere questi destini nel momento dell’infrangersi delle illusioni, nel punto di crisi, individuale, sociale e storica, così come è accaduto nell’immediato secondo dopoguerra. Come dice il personaggio di Libero in Le bugie hanno le gambe corte: «Non vuol capire che c’è stata una guerra; una guerra che ha distrutto tutte le illusioni, tutte le apparenze. Qua viviamo di realtà ora per ora, minuto per minuto». L’illusione distrutta è anche un’opportunità, quella di poter cogliere una verità sulla condizione umana e sul mondo, con il rischio che questa verità porti al disincanto e allo scetticismo. Ma senza verità non esiste grande arte.

    È per questo, perché l’arte di Eduardo, la sua verità, ci riguarda da vicino, da molto vicino, che nel trentennale della morte ne abbiamo voluto parlare, coordinando, come Università della Calabria, un gruppo di atenei e di istituzioni (dalla Cineteca Nazionale all’Università di Salerno, dall’Università di Messina al Suor Orsola Benincasa di Napoli) in un progetto, I giorni e le notti. L’Arte di Eduardo, di cui questo volume costituisce la prima traccia scritta.

    Parlare di Eduardo ha voluto significare in questo caso coglierne l’enorme potenza d’irraggiamento, valutarne la sua centralità per rileggere alcune fondamentali forme generiche, e ripensare in forma nuova alcuni momenti della sua presenza nello spettacolo italiano, anche cinematografico.

    Roberto De Gaetano e Bruno Roberti

    Roma-Arcavacata di Rende, settembre 2014

    PARTE I

    Anna Barsotti

    TRAGICOMICO

    Premessa

    Categoria dello spirito o segno d’una profondità stilistica, il carattere tragicomico si può leggere in buona parte dell’opera di Eduardo De Filippo, sia quella espressamente scritta per il teatro e in teatro, sia quella da lui stesso riversata sul piccolo e grande schermo; anzi proprio questo passaggio, osmotico, si direbbe, per il reciproco flusso di idee, pratiche ed esperienze, rivela in molti casi con chiarezza, come negli esempi analizzati nelle pagine che seguono (Natale in casa Cupiello, Napoli milionaria!, Sik-Sik, l’artefice magico, Non ti pago), un’attitudine a sovrapporre intuizione comica e situazione tragica.

    Partiamo da una citazione fondamentale e da una differenza. Per Eduardo alla base di un lavoro comico «ci dev’essere un fatto serio, un dramma, una tragedia se occorre, altrimenti la comicità non può essere sana»[1]. Quasi come per Fo: «Là dove una forma satirica non possiede come corrispettivo la tragedia, tutto si trasforma in buffoneria»[2]; il Giullare racconta che, «chiacchierando di situazioni comiche, ci trovammo d’accordo su un particolare determinante: La grande comicità nasce dal tragico, la comicità giocata sul melodramma è parodia buffonesca e niente più. E i temi sui quali si sviluppa il tragico sono semplici: […] la morte, la fame, il sesso, il potere, la spocchia, la violenza del potere»[3].

    Eduardo conferma: «La tragedia moderna è quella che fa ridere, non con le pagliacciate, […] ma affondando il dito nella piaga, nel dramma comune, nella tragedia comune»[4]. E, a quattr’occhi con Pandolfi, aveva detto: «Io sono convinto che le mie commedie siano sempre tragiche, anche quando fanno ridere […]. Probabilmente fra cinquant’anni riprenderanno Questi fantasmi! e non rideranno più, […] perché potranno vedere in quest’uomo che crede ai fantasmi per non credere alla realtà la vita degli uomini»[5].

    Qui entra in gioco soprattutto la singolare comicità del teatro eduardiano: comicità fantastica o tragica, diversa comunque dall’«umorismo tragico» pirandelliano. Per Eduardo l’umorismo è «la parte amara della risata», determinato «dalla delusione dell’uomo che per natura è ottimista»[6]: egli mette in scena tragedie che si consumano nell’esistenza degli uomini normali, provocate dall’incomprensione, dalle frustrazioni, dalla volontà d’illudersi, ma che non arrivano mai (o quasi mai) a uccidere lo spirito della commedia. Eduardo non rinuncia mai o quasi mai al «riso»: un riso che passa per il cervello, sgombrandolo dalle eccedenze dei sentimenti e delle passioni. Questo riso «liberatorio», ma che implica (direbbe ancora Fo) «una partecipazione critica» da parte dello spettatore, diventa per Eduardo un grimaldello capace di penetrare nel cervello degli altri, soprattutto del pubblico, instaurando con esso «una conversazione di vita»[7]. E perciò abbiamo definito la sua comicità tragica o fantastica: la tragedia del suo uomo normale (eppure dotato di manie che possono scatenare il comico) non si esaurisce mai nel «pianto» (che libera in maniera intimistica e irrazionale), ma si manifesta negli intervalli del «riso», di quel riso che cattura l’attenzione e stimola la riflessione.

    Tragi-comico appunto: perché si ride del personaggio eduardiano, nei momenti d’«anestesia del cuore» (Bergson), pur partecipando, negli altri, al suo dramma; proprio questa alternanza di distacco e partecipazione – sintomo della sua drammaturgia d’attore – lo differenzia dall’umorismo tragico pirandelliano, là dove, invece, il «sentimento del contrario» uccide o smorza il riso.

    Di qui anche l’oscillazione continua nell’opera di Eduardo fra rappresentazione dell’individuo isolato in un mondo che non lo capisce e resa dei tentativi ostinati del personaggio per realizzare un rapporto di comunicazione con gli altri. Il protagonista eduardiano è un eroe del nostro tempo, non tragico, tragi-comico, ma che raramente si arrende e impara[8]: o, se non impara lui, imparano gli altri; almeno uno degli altri personaggi in scena o, comunque, il «personaggio in più», quello in sala, il pubblico. Perciò i leitmotive che si ripropongono nel suo romanzo teatrale – crisi e trasformazione della famiglia, necessità ma problematicità di un impegno civile – sono anche motivi metaforici. Rinviano non solo allo spazio del dissidio intimo e sociale, ma proprio alla grande scena della commedia umana, al theatrum mundi; a uno «spazio», quindi, fondato sulla bipolarità costitutiva del teatro: «attori e spettatori»[9], poli contigui che attraverso lo spettacolo entrano in relazione.

    Qui una prima differenza con il cinema, dove manca il rapporto fisico attore-spettatore e dunque un dialogo con il testo che possa condurre anche alla sua trasformazione in itinere. Non solo ma, secondo Frezza, Eduardo si accosta al cinematografo con professionale curiosità, «estrema consapevolezza», se non passasse «attraverso un rilevante distacco»: «Egli non si proietta mai fino in fondo nel cinema né vi identifica uno spazio creativo nel quale spingere, tutt’intera, la propria sensibilità artistica»[10].

    La drammaturgia scenica di Eduardo, partendo da una tradizione napoletana che affonda le sue radici nel «teatro dei professionisti», dei comici dell’Arte (attori ma spesso anche attori-autori), giunge alla rifondazione di un teatro dove l’individuazione dello spazio dell’attore in rapporto con quello del personaggio, ma anche con quello dello spettatore, porta all’inclusione del pubblico stesso e del suo spazio nello spettacolo. Non attraverso un processo intellettuale o metafisico (come in Pirandello) ma attraverso un processo fisico: che proprio con l’invenzione di un doppio spazio teatrale o la funzione di un personaggio invisibile aspira a ricostituire quei valori d’interrelazione fra gli uomini negati dalla quotidianità sociale. In questo «spazio delle rappresentazioni» lo spettatore agisce, modernamente, come concorrente del personaggio: nella compagnia eduardiana di personaggi buffoneschi e melodrammatici, quasi ma non del tutto tragici, disarmati e minacciosi, siamo previsti anche noi.

    A proposito del tragicomico, già pensava sua sorella Titina nel 1930, assistendo alle prove di Sik-Sik, l’artefice magico, uno dei primi grandi personaggi di Eduardo, nato nel piccolo spazio di uno sketch all’interno della rivista Pulcinella principe in sogno…[11]: «Erano le prime volte che sentivo recitare Eduardo. Mi sembrava così diversa, così fresca quella sua comicità. Mi accorgevo che, a volte, ridendo provavo stranamente pena per quel viso scavato, pallido, per l’espressione di quegli occhi nei quali sembrava brillasse una lacrima. E dicevo fra me: ma Eduardo fa sul serio?»[12].

    Sì. L’attore faceva proprio sul serio.

    Primi piani

    Mi sono soffermata su questi due aspetti del teatro eduardiano – i suoi protagonisti e il suo particolare uso del comico – per riesaminare i cosiddetti primi piani dell’attore, spesso legati alla sua facoltà di parlare senza le parole. Grazie alla singolare interpretazione che Eduardo (attore-autore) offre dei suoi personaggi, si realizza appunto quella corrente alternata fra distacco e partecipazione (dell’attore-autore con il personaggio ma anche con il pubblico) che si riverbera sul rapporto stesso del pubblico con il personaggio. E poiché Eduardo fa capo (come detto) a una tradizione teatrale[13], che dalla Commedia dell’Arte in poi si è affidata alla comunicazione diretta del gesto e della parola, l’attore (che è in lui) lavora sul suono emotivo delle battute ma anche, essenzialmente, sul codice gestuale e mimico; aspetto quest’ultimo che per lui contrassegna anche il cinema.

    Non a caso ancora Eduardo, all’epoca del suo primo entusiasmo per il mezzo cinematografico, negli anni trenta, aveva affermato:

    Noi adoriamo il cinematografo […] non soltanto perché è un’arte complessa che ha infinite risorse, ma più particolarmente perché essa è strettamente imparentata con la nostra personale visione del teatro che consiste nel dar molto valore alla mimica. Infatti noi più che al dialogo affidiamo spesso il maggior effetto di uno stato d’animo o di una situazione alle espressioni del viso e dei gesti.

    Nella stessa intervista, per la presentazione alla stampa del film di Mario Camerini Il cappello a tre punte, collega l’eloquenza dei silenzi – grazie alla mimica – all’arte muta di Chaplin: «Vi si ascolta attentamente, caro Charlot, non si perde una parola del vostro silenzio», appunto perché crede che «il silenzio talvolta possa parlare più efficacemente delle parole». E aggiunge: «Ben sovente la scena madre delle nostre commedie [è muta] e altrettanto sovente è pure muta la scena conclusiva, quella da cui scaturisce l’effetto finale che rimane più impresso nel pubblico»[14]. Dove la prima persona plurale comprende il fratello Peppino, con il quale ha da poco (insieme a Titina) fondato e formato la Compagnia Umoristica I De Filippo, ma anche incominciato a interpretare, appunto, personaggi cinematografici.

    D’altra parte, se la recitazione teatrale di Eduardo comunica un’impressione complessiva di naturalezza, si tratta di una naturalezza calcolata: «La recitazione naturale è la cosa più difficile e costruita che ci sia»[15]; per lui il teatro è vita non in senso mimetico o naturalistico, e neppure soltanto metaforico, ma in quel senso speciale, comune ai grandi uomini di teatro completi, che attraverso il teatro hanno vissuto: «La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono uno sfollato»[16].

    Dal punto di vista propriamente mimico, egli tendeva a parlare molto con la faccia, ma attraverso un gioco sottile, per cui i singoli gesti si trasformavano l’uno nell’altro in maniera quasi insensibile; eppure riusciva a far cogliere al pubblico quel gioco, che può sembrare inafferrabile a teatro (a causa della distanza che separa generalmente l’attore dallo spettatore), mentre nel cinema o in televisione è reso percettibile dalla facoltà tecnica di ingrandire il volto dell’attore portandolo (appunto) in primo piano.

    Eduardo riusciva non solo a crearsi uno spazio attorno, consentendo una visione completa e catalizzante del suo corpo; ma sapeva anche, a un certo punto, far dimenticare quel corpo (magari irrigidendone volutamente la parte bassa, togliendone l’interesse), e indurre così il pubblico «a usare un primo piano ravvicinato verso il solo volto»[17]. Il trucco stava in una graduale progressione, tale da conservare la concentrazione dello spettatore: ma alla base c’era senza dubbio una dialettica frequente o mirata fra il volto e la maschera. Senza ricorrere alla deformazione del viso, che avrebbe portato al prevalere della maschera, l’attore innestava su una fondamentale mobilità del viso alcuni momenti di fissità, nei quali soltanto si coglieva la maschera. Convogliata così l’attenzione del pubblico sul suo volto, ricominciava a muoverlo, ma oramai il gioco di prestigio era fatto e il pubblico continuava a guardare lui, il suo viso, anche se la sua recitazione, talvolta senza parole, rasentava l’ineffabile. Ineffabile al punto che i parametri formali entro i quali si possono catalogare i suoi gesti (mimici ma anche corporei) sono insufficienti a descrivere il fenomeno nella sua individualità: il vero significato poteva essere racchiuso in un impercettibile esitare (che solo grossolanamente potrebbe essere catalogato entro le categorie di lento/veloce). Spesso si trattava di gesti mimici di espressione pura, che informavano soltanto sullo stato d’animo del soggetto, ma a volte il referente conteneva l’espressione, un suo sorriso di cortesia lasciava trasparire la tristezza; la forza dell’attore stava proprio nel rendere possibile questa doppia significazione.

    Perciò Eduardo è stato «l’attore italiano più intransigente verso l’antilingua recitativa», anche «con quel suo teatro di identità delle cose, in cui tutto sembra a posto, ma in cui nel profondo ogni elemento contraddice la sua immagine»[18]. Ha cominciato a opporsi fin dagli anni venti-trenta alla «condizione media del recitare all’italiana», a quello stereotipo dell’«attore di voce» così illustrato da Savinio:

    Gli attori deformati dal mestiere ripugnano come fantasmi non ancora staccati dal cadavere. Quelle voci tenute in serbo nel naso e tirate fuori a nastri filacciosi, quella baldanza incosciente e inopportuna, quelle facce strutte dal cerone sulle quali l’espressione del personaggio sta appiccicata come un cerotto pronto a cadere;

    al quale il critico contrappone attori come Eduardo, Titina e Peppino, che «al di là della ribalta serbano la densità, la gravità, la dignità della creatura umana!». Ma per lo stesso Savinio, se l’attore Eduardo è «un uomo», è «uomo caricatura» in senso «antico e sacro». In lui il conflitto si ripete tutte le sere «fra idolo e profanazione, fra dignità umana e avvilimento dell’uomo». Eduardo De Filippo è un «napoletano più Karaghiöz che Pulcinella, e che in sé raduna secoli di comicità e di tragedia»[19].

    Quindi, per il suo teatro, al filo dell’emergenza del monologo e della sperimentazione linguistica s’unisce quello fondamentale degli sconfinamenti fra tragico e comico. E di qui il percorso eduardiano da De Berardinis a Servillo (che gioca sui rapporti fra tradizione e ricerca), fino al nevrotico Pasquale Lojacono di Orlando; il «progetto Eduardo» di un altro attore-autore della ricerca come Alfonso Santagata, che ha lavorato con Cecchi e Fo.

    Per una ripresa di Natale in casa Cupiello il 5 maggio 1976, al Teatro Eliseo di Roma, Tian scrive: «Poche volte come nel Natale, la ricerca di Eduardo sa far coincidere la carica delle emozioni e la sottile truccatura comica della fantasia»[20]. Coincidenza straordinaria, che ha posto sempre problemi ai teorici del «riso». Bergson e Propp affrontano la questione da punti di vista diversi, ma soffermandosi entrambi su un personaggio chiave della letteratura tragicomica o umoristica, un archetipo anche per il teatro: Don Chisciotte di Cervantes. Lo splendido ritratto bergsoniano del cavaliere dalla triste figura si attaglia, con qualche opportuno aggiustamento, anche al nostro Lucariello partenopeo, e non solo a lui:

    Sì, questi spiriti chimerici, questi esaltati, questi folli, così stranamente ragionevoli, ci fanno ridere […]. Anche loro sono corridori che cadono, […] uomini correnti dietro un ideale, ma che inciampano nella realtà, candidi sognatori che la vita maliziosamente persegue. Ma essi sono soprattutto dei grandi distratti, con questa sola superiorità sugli altri, che la loro distrazione è […] organizzata intorno ad un’idea centrale – e le loro disavventure sono legate dall’inesorabile logica di cui la realtà si serve per correggere il sogno[21].

    Quindi Propp: «Per la nobiltà delle sue aspirazioni […] Don Chisciotte è una figura spiccatamente positiva», ma «per la sua completa incapacità di adattarsi alla vita egli è ridicolo». «Non è comico per le sue qualità positive», ma «per quelle negative» che ne hanno fatto «una figura universalmente popolare». D’altronde la nobiltà dell’eroe conferisce alle sue avventure di «natura comica» un aspetto di «profondo valore»: per questa combinazione «unica in tutta la letteratura universale», la «comicità» di Don Chisciotte acquista «un carattere tragico»[22].

    Don Chisciotte e Luca Cupiello sono entrambi dei «grandi distratti» proprio perché la loro distrazione è la conseguenza di una qualche concentrazione: la passione dell’uno per i romanzi d’amore e di cavalleria, la visione dell’altro di un presepio «grande come il mondo» trasfigurano la realtà che li circonda. Ma, solo riconoscendo il valore universale che assume l’oggetto di tale concentrazione, si può capire «quale intensa comicità derivi da uno spirito fantastico» (Bergson).

    Di conseguenza la recitazione di Eduardo (attore-autore) non può essere definita naturalistica. L’immedesimazione di un attore nel personaggio porta immancabilmente il pubblico a una specie di immedesimazione di secondo grado, irrazionale ed emotiva, a-critica. E ciò rende impossibile il «comico»: la risata esige una momentanea «anestesia del cuore» (secondo tutte le teorie sul comico, da Bergson a risalire ad Aristotele). Invece, come già detto, di fronte ad un personaggio eduardiano, nell’interpretazione che ne dà l’attore, lo spettatore ride pur partecipando magari al suo dramma; appunto perché la recitazione di Eduardo consente di fermare di quando in quando il flusso dell’emotività, isolando alcuni particolari ridicoli del personaggio, attraverso l’andirivieni stesso fra la maschera e il volto. D’altra parte egli è un attore-autore, che costruisce sulle sue qualità di interprete il protagonista della commedia che sta scrivendo: la memoria del corpo dell’attore diventa un importante strumento integrativo della sua scrittura scenica (come nei testi di Shakespeare o in quelli di Molière); perciò il personaggio-protagonista eduardiano conserva le tracce della sua costruzione attorica (anche quando non è più Eduardo a impersonarlo) nei testi della sua «drammaturgia consuntiva»[23].

    Mi riferisco al Natale, sebbene sia l’unica delle grandi commedie che non ha ricevuto una trasposizione cinematografica (anche se un progetto c’è stato), perché costituisce a mio avviso il prototipo del tragicomico eduardiano; come testimonia del resto la versione televisiva del 1977[24], in cui emerge appunto il gioco del visionario. Nell’epilogo, il linguaggio verbale e fonico dell’attore sfiora il limite della comprensibilità, mediante la creazione – per il protagonista – di un antilinguaggio che sfida ogni giustificazione naturalistica (la parèsi che gli immobilizza una parte del volto e del corpo). Quel monologo farfugliante sul fatto dei fagiuoli appare una specie di grammelot, rotto dalla ripetizione di una domanda fissa («Nicculino è venuto?») e dove appunto «la carica delle emozioni» coincide con la «sottile truccatura comica della fantasia» (Tian). Per quanto riguarda il suo codice gestuale e mimico, nella scena, l’attore compie solo pochi gesti e si serve di alcune espressioni funzionali ad attirare su di sé l’attenzione del pubblico, realizzando appieno il fenomeno del primo piano. La faccia assume le sembianze di una maschera, anche per il naturale prosciugamento del volto, con due buchi al posto delle guance: una maschera tragica (gli occhi socchiusi dell’ultimo Eduardo lasciano vedere essenzialmente le palpebre) se la bocca non fosse stranamente sorridente, come per la piaga di un sorriso. La simulazione della parèsi distorce il sorriso fanciullesco del personaggio come per una inconsapevole amarezza. Si ripropone la fisionomia del Pupo, già avvertibile nella scena iniziale del risveglio: un Pupo senza gambe, disarticolato dal «braccio morto» che l’attore-personaggio stesso si diverte a far ballare su e giù (come nella scena finale con Tommasino).

    Ma il «vizio comico» di Luca Cupiello (la caparbietà visionaria) si manifesta anche nella scena del suo delirio sornione: soprattutto poi quando, di fronte a Vittorio Elia, si ostina a scambiarlo per Niccolino pur di «riunire» la famiglia. Qui però il grottesco della situazione non fa ridere: nell’interpretazione di Eduardo prevale il registro tragico, o almeno l’amaro candore di un rovesciamento allucinante.

    Napoli milionaria!

    Se del Natale non esiste la proiezione cinematografica, famosa è invece quella di Napoli milionaria!: la prima commedia rappresentata, il 25 marzo 1945 al Teatro San Carlo di Napoli, dalla compagnia Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo; con Eduardo e Titina (rispettivamente nelle parti di Gennaro e di Amalia), Pietro Carloni, Dolores Palumbo, Tina Pica, Vittoria Crispo, Clara Crispo, Ettore Carloni, Giuseppe Rotondo, Clara Luciani. Lo spettacolo fu replicato subito nelle cinque stagioni successive, dal 1945 al 1951. D’altra parte l’opera è divenuta famigliare a tutti noi attraverso l’edizione televisiva o appunto il film che ne trasse l’autore-attore-soggettista e sceneggiatore (insieme a Piero Tellini e Arduino Majuri) oltre che regista, nel 1950, nel quale Totò doppiava il protagonista nella scena del «finto morto».

    Il film ha lo stesso titolo della commedia: accanto a Eduardo (Gennaro), recita Leda Gloria (Amalia), mentre Titina è Donna Adelaide, Delia Scala (Maria Rosaria); poi Carlo Ninchi, Dante Maggio, Laura Gore ed altri. La musica è di Nino Rota e la fotografia di Aldo Tonti. Presentato a Cannes nel 1951 e distribuito in tutto il mondo, contribuisce notevolmente alla popolarità internazionale dell’autore. Il passaggio di Eduardo alla regia cinematografica avviene nella prima fase espansiva di Cinecittà, ma la sua affermazione autoriale, scrive Brunetta, si registra proprio a partire dal 1950 con Napoli milionaria!:

    Opera-Mondo riscritta per lo schermo, ricreando a Roma, negli studi della Farnesina, attraverso l’epopea dolente di Gennaro Jovine e della sua famiglia, dieci anni di vita napoletana e italiana, di riflessione morale alta sulle tragedie che si sono abbattute sul paese, sulla perdita di bussole e sulla fiducia nella forza aggregante di valori profondi che si possono ritrovare[25].

    Implicitamente Brunetta allude alla ricostruzione in studio del vicolo su cui si affaccia il basso degli Jovine, e nel quale si svolgono gran parte degli esterni; operazione definita teatrale ma che, invece, contamina verità e finzione, dal momento che le numerose comparse prese dalla strada di Napoli preferirono allogarsi in quei bassi ricostruiti piuttosto che negli alloggi predisposti, là vivendo per tutta la durata del film. Inoltre Brunetta sottolinea come «in pieno neorealismo Eduardo sce[lga] una chiave visiva che, grazie alla fotografia di Aldo Tonti, sembra dichiarare maggiori parentele con il cinema francese o espressionista piuttosto che con quello italiano coevo»[26]. Con ciò entrando in contraddizione con altri critici cinematografici, come con lo stesso Frezza, che pure lo cita fra coloro che giustamente rivalutano il cinema dei De Filippo: per Frezza si tratta di «una delle significative anticipazioni del neorealismo». Eduardo «non segue una moda o una corrente perché ne è antesignano, essendo fra coloro che, da prima della guerra, concorrono ad affermare la grande esperienza neorealista»[27].

    Ad ogni modo, nel film – secondo me pregevole sotto molteplici aspetti – si perde proprio l’effetto tragicomico della veglia funebre recitata, che, grazie a Totò, diventa soltanto anche se straordinariamente esilarante (il morto in affitto Pasquale Miele svela il suo ruolo sudando copiosamente durante il bombardamento), e Eduardo se ne mostrerà consapevole; sebbene non manchino aspetti tragici, come il crollo del palazzo che provoca la morte della moglie di Peppe ‘o cricco subito dopo. Accomuna la commedia al film lo spirito con cui Eduardo affronta quel primo dopoguerra; dice Fo, nel discorso improvvisato ai funerali dell’artista: «Eduardo adorava il sarcasmo», «anche nelle scene più addolorate, patetiche, non poteva fare a meno di piazzarci lo sganascio dell’ironia»[28]. E ancora: «Nel suo modo di usare l’arma dell’ironia come strumento di denuncia dell’ingiustizia, non c’erano né rassegnazione né rinuncia». Così in un successivo intervento, ai critici che hanno accusato Eduardo di patetismo, egli ribatte: «Eduardo, nelle sue commedie, era cinico, non giocava mai al patetico, se vi si accostava, subito lo capovolgeva derisorio e crudele con un salto all’indietro sghignazzante»[29]. Pensa a Questi fantasmi!, ma aggiunge:

    Era soprattutto un autore che, anche nelle situazioni più disperate, tirava fuori, come in una spaccatura a botto, lo sprazzo del positivo e della speranza. Fu il primo a scrivere, con Napoli milionaria!, un testo sul dopoguerra. Prima ancora che la guerra fosse finita (l’opera è del ’44) aveva già intuito cosa sarebbe successo, finito il conflitto[30].

    Disperazione, grottesco, infamità, parola venduta, promessa, tragedia, e speranze sputtanate, ma alla fine la voglia di vivere ad ogni

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