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Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman.: Memorie plurali e memoria di Stato
Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman.: Memorie plurali e memoria di Stato
Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman.: Memorie plurali e memoria di Stato
E-book523 pagine7 ore

Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman.: Memorie plurali e memoria di Stato

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Info su questo ebook

Vasilij Grossman tornò a Mosca dalla guerra. Era l’estate 1945. Ancora frastornato dalle esperienze terribili e dense che aveva vissuto durante quegli ultimi quattro anni come corrispondente del giornale dell’Armata Rossa, aveva già deciso di raccontarle in un grande romanzo. Dal Quarantacinque all’inizio degli anni Sessanta di romanzi su quell’esperienza ne scrisse due. Il primo, cioè la prima parte del racconto che cronologicamente si incentra sugli eventi del luglio-settembre 1942, con qualche retrospezione ai mesi e all’anno precedente, superò le molte difficoltà create dalla censura sovietica, e fu pubblicato in URSS nei primi anni Cinquanta col titolo Per una giusta causa (Za pravoe delo). Il secondo romanzo, Vita e destino (Zhizn i sudba), incentrato sugli eventi del settembre 1942-gennaio 1943 con un epilogo alla primavera dello stesso anno, fu sequestrato dal KGB  nel 1961 e fu pubblicato, in patria, soltanto alla fine degli anni Ottanta, in Europa occidentale, nei primi anni Ottanta dopo una clandestina operazione di espatrio.
Nei due romanzi è narrata una storia di guerra, di guerra popolare, di resistenza popolare, tesa nella speranza di conquistare “dopo” condizioni di vita meno povere e finalmente libere. Ma è soprattutto storia di come questa speranza andò in fumo, e nello stesso tempo si costruì una bugia, quella della “Grande Guerra Patriottica”: la memoria di Stato, oggi noi diremmo la “narrazione” di Stato, annientò o mutilò le memorie altre, che pure esistono. 
E il “polittico di Vasilij Grossman” restituisce loro la voce.
Vi domanderete perché definire “polittico” la dilogia di Grossman. È forse la metafora migliore per descrivere la densa complessità di questo racconto. 
In un polittico ogni pannello va letto idealmente in modo simultaneo con tutti gli altri, perché se ne comprende rettamente il senso solo nel nesso della parte con il tutto. La figura centrale è quella che orienta tutte le storie che intorno ad essa si organizzano in modo non lineare, ma spaziale: conta la posizione dei pannelli, a destra e a sinistra della figura centrale, sopra e sotto. Nella dilogia di Vasilij Grossman, come in un polittico, i legami tra una storia e l’altra obbediscono a leggi che il testo stesso crea, talvolta in forme esplicite, talora in forme velate, ed una lettura ipertestuale, come quella che un polittico richiede, permette di coglierle.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2020
ISBN9788835372547
Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman.: Memorie plurali e memoria di Stato

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    Anteprima del libro

    Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman. - Ferdinanda Cremascoli

    Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman. La sua struttura è ispirata

    al polittico di Giovanni Canavesio, XV sec., conservato nella chiesa parrocchiale di Verderio, (Lc), Italia

    Ferdinanda Cremascoli

    Stalingrado. Il Polittico di Vasilij Grossman

    Memorie plurali e memoria di Stato

    Biblioteca di italianacontemporanea.org

    Prima edizione, maggio 2020

    Ai miei genitori

    «Voglio che i lavoratori siano liberi, felici, ricchi,

    che la società sia organizzata su basi di libertà e di giustizia»,

    Vasilij Grossman, Per una giusta causa, I, 33

    «Solo quando riconosce negli altri ciò che ha già colto dentro di sé,

    l’uomo assapora la gioia della libertà e della bontà».

    Vasilij Grossman, Vita e destino, II, 50

    In limine

    Alcuni anni fa, nel 2008, ascoltavo una trasmissione radiofonica pomeridiana che mi piace moltissimo. Si parlava del romanzo di Vasilij Grossman, Vita e destino, appena ritradotto (ritradotto, perché una prima versione fu pubblicata in Italia nel 1980 per Jaca Book) da Claudia Zonghetti per Adelphi. Mi incuriosii e lessi.

    Sono una lettrice appassionata di romanzi storici dall’intreccio complesso e ramificato, e ho subito amato questo romanzo con decine e decine di personaggi nelle situazioni più diverse: la tragedia indicibile e l’incongrua storia d’amore; lo spavento della guerra e la miseria della delazione. Azioni di guerra, e faccende domestiche; passeggiate nei parchi cittadini, e missioni nella steppa; roghi di città, e ghiacci artici. Uomini e animali sconvolti dalle bombe, e lo scorrere quotidiano della vita. Paesaggi devastati dall’agire umano, e paesaggi estranei al tempo umano.

    Quando sono arrivata all’ultima parola di Vita e destino, mi son resa conto che di molti personaggi e della loro storia si perdono le tracce: che ne è stato di Serëža e Katja? che succederà a Krymov e a Ženja? e il professor Štrum che farà? E Vera con suo padre e il suo bambino? e sua nonna Aleksandra? Il racconto tace sul loro futuro, che resta aperto e sconosciuto al lettore.

    Ma se non è possibile sapere cosa avverrà dopo, è tuttavia possibile sapere che cosa è successo prima a questi personaggi, perché, fortunatamente, nel caso di Vita e destino, un prequel c’è: è un romanzo pubblicato nei primi anni Cinquanta in Unione Sovietica con il titolo Per una giusta causa (Za pravoe delo). Il suo autore lo ha scritto prima di Vita e destino (Zhizn i sudba), perché ha concepito fin dall’inizio il disegno di un unico e lungo e complesso racconto.

    Peccato però che non ne esista, almeno ad oggi aprile 2020, una traduzione italiana. La scelta editoriale di tradurre solo il secondo romanzo della dilogia penalizza il lettore italiano, che condivide questa mancanza con i lettori tedeschi e spagnoli. Per il lettore francese la situazione è migliorata nel 2000, vent’anni dopo la traduzione di Vie et destin, quando del primo romanzo è stata pubblicata la traduzione di Luba Jurgenson, per la casa editrice L’Age d’Homme di Losanna, con il titolo Pour une giuste cause. Il lettore inglese ha a disposizione Life and Fate dal 2006 nella traduzione di Robert Chandler, e dal 2019 la traduzione del primo romanzo, curata da Elisabeth e Robert Chandler. Il titolo scelto è Stalingrad, cioè il titolo originale che l’autore avrebbe voluto e che modificò a causa delle pressioni censorie cui fu sottoposto.

    Le due traduzioni inglese e francese del primo romanzo a così grande distanza temporale dalla traduzione del secondo segnalano un interesse rinnovato per questo grandissimo scrittore russo. La decantazione prodotta dallo scorrere del tempo permette ora una lettura meno condizionata dalla volontà di denunciare lo stalinismo e l’intero sistema sovietico. La profondità della critica al mondo sovietico, il parallelo tra i due totalitarismi, nazista e staliniano, acquistano nella lettura completa dell’opera una nuova prospettiva più profonda ed articolata.

    È superata anche l’opposizione tra le due parti della dilogia. Non ha senso leggere Vita e destino come denuncia delle infamità del regime sovietico, mentre Per una giusta causa sarebbe un ordinario romanzo dell’era staliniana. Già Semën Lipkin con vigore polemico metteva in guardia il lettore da questa distorsione prospettica della critica degli anni Ottanta. No. È secco Lipkin nella sua memoria, Le destin de Vassili Grossman.

    (…) con i suoi ritratti realistici della gente semplice, dei contadini, degli operai, delle donne sfinite, con l’amara verità della vita quotidiana dell’Unione Sovietica, con le descrizioni geniali di Hitler e dell’incendio di Stalingrado, con la morte del battaglione Filiaškin, e l’incontro del comandante Berëzkin con sua moglie, no, (Per una giusta causa) non è un romanzo sovietico ordinario.

    Proprio queste parole di Semën Lipkin e la curiosità di lettrice che vuol sapere tutto dei personaggi che ama mi hanno condotto tra le pagine di Per una giusta causa e poi ancora di Vita e destino e ... ho scoperto una storia affascinante, una storia che si dipana nell’intera dilogia. 

    È storia di guerra, di guerra popolare, di resistenza popolare, tesa nella speranza di conquistare dopo condizioni di vita meno povere e finalmente libere. Ma è soprattutto storia di come questa speranza andò in fumo, e nello stesso tempo si costruì una bugia, quella della Grande Guerra Patriottica: la memoria di Stato, oggi noi diremmo la narrazione di Stato, annientò o mutilò le memorie altre, che pure esistono.

    E la dilogia grossmaniana restituisce loro la voce.

    Eindhoven-Vimercate, agosto 2016-aprile 2020

    Introduzione

    La dilogia su Stalingrado di Vasilij Grossman è un testo dalla lettura impegnativa.

    Anzitutto per la sua stessa mole. La storia è un ordito degli eventi storici sul fronte orientale tra l’estate del ’42 e l’inverno del ’43, con retrospettive sull’estate ’41, su cui s’intreccia una trama sofisticata di vicende umane e di prospettive molteplici. È lettura impegnativa anche per il montaggio delle diverse storie, intrecciate secondo una logica che il testo stabilisce, ma che è arduo cogliere in prima lettura. Si prenda uno qualsiasi dei principali personaggi e si noterà la dispersione nel testo degli episodi che lo riguardano. Mostovskoj ad esempio compare in Per una giusta causa alla festa in casa Šapošnikov (I, 8) e già si manifestano alcuni tratti del suo carattere. L’attenzione torna su di lui pochi capitoli dopo, quando è narrata la sua storia personale (I, 12) con lo scopo di delinearne meglio il profilo. Una volta definita, la cifra del personaggio emerge in altri episodi sparsi nell’intera dilogia, di norma molto distanti tra loro. L’attitudine di Mostovskoj all’intolleranza polemica emerge nel dialogo con l’amico Gagarov in Per una giusta causa (I, 57) e molte pagine dopo, in Vita e destino, quando nel lager nazista si confronta con il menscevico Černecov (I, 4-6); le sue convinzioni internazionaliste sono testimoniate nell’incontro con gli operai nella fabbrica Ottobre Rosso in Per una giusta causa (II, 58) ed in Vita e destino (I, 73), quando ammira e appoggia il piano del maggiore Eršov. E così via. Come Mostovskoj qualsiasi personaggio di questo lungo racconto è nodo di una rete che rimanda ad altri episodi che lo riguardano, o ad altri personaggi, o alle vicende storiche sottese.

    Dunque prima esigenza del lettore è non perdersi in un testo così vasto e composito. Ma come orientarsi tra tanti personaggi, tante vicende?

    Forse la metafora migliore per descrivere la densa complessità di questo racconto è quella di immaginarlo come un grande polittico. In un polittico ogni pannello va letto idealmente in modo simultaneo con tutti gli altri, perché se ne comprende rettamente il senso solo nel nesso della parte con il tutto. La figura centrale è quella che orienta tutte le storie che intorno ad essa si organizzano in modo non lineare, ma spaziale: conta la posizione dei pannelli, a destra e a sinistra della figura centrale, sopra e sotto. Nella dilogia di Vasilij Grossman, come in un polittico, i legami tra una storia e l’altra obbediscono a leggi che il testo stesso crea, talvolta in forme esplicite, talora in forme velate, ed una lettura ipertestuale, come quella che un polittico richiede, permette di coglierle.

    Nella dilogia grossmaniana il primo personaggio della storia è un contadino, Pëtr Semënovič Vavilov. Compare nel terzo capitolo di Per una giusta causa, prima della famiglia Šapošnikov, attorno alla quale ruotano poi i personaggi del racconto. Anche se la vicenda di Vavilov si esaurisce nel primo romanzo la sua storia è esemplare: è la tragedia delle campagne russe, cioè del popolo di quel paese, che ancora dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale è in larghissima parte contadino.

    È questo il grande tema del polittico grossmaniano: le catastrofi subite dal popolo, e insieme la sua resilienza. Benché non coltivi facili ottimismi sulla bontà degli esseri umani, o sulla positività della nozione di popolo, questo romanzo caparbiamente narra gli individui, che pure esistono, portatori delle più alte qualità umane, di benevolenza e coraggio e pazienza;  portatori dell’aspirazione, umana anch’essa, alla libertà personale e alla giustizia sociale. Ecco perché il primo personaggio del racconto è un contadino. Segue la presentazione della famiglia Šapošnikov, nelle varie e articolate vicende dei personaggi che hanno legami di parentela o di amicizia con la famiglia stessa. Il finale del romanzo è incentrato ancora sulla famiglia, anzi sull’immagine di una tavola apparecchiata. Ma non è l’ultima parola del romanzo. Se la prima è stata di Vavilov, l’ultima è di un soldato, in una costruzione, per così dire, chiastica: Vavilov-Šapošnikov/Šapošnikov-Berëzkin. L’ultima parola spetta infatti al maggiore Berëzkin, un militare di professione, coraggioso, il cui valore è spesso misconosciuto e, quando è apprezzato, lo è in modo fortuito, e comunque innocuo per gli alti comandi. Eppure la vittoria nella guerra contro i tedeschi è merito non dei grandi generali, né tantomeno di Stalin, come vuole la leggenda che si crea attorno a loro. La vittoria si deve agli uomini come Berëzkin, e come Vavilov, e come innumerevoli altri, gli uomini della stazione, gli uomini del Sei barra uno. Agli uomini come i due fratelli Novikov, e ai giovani come Tolja, come Kovaliov e Viktorov, e ai vecchi come Poljakov, e alle donne, giovani come Katja come Lena come Vera, e più mature come Sof’ja e Tamara e Aleksandra e Christja, e a innumerevoli altre: a loro, alla loro forza interiore e al loro senso di solidarietà, il popolo sovietico deve la vittoria. Il maggiore Berëzkin rappresenta tutti quei combattenti che contrastarono l’offensiva tedesca già nei primi giorni di guerra, mentre gli alti comandi versavano nella più paralizzante e mortale confusione; rappresenta tutti i soldati che seppero efficacemente organizzare la controffensiva, perché seppero trovare tra loro «quei legami umani, quella solidarietà umana così importanti ed indispensabili in combattimento e senza i quali la vittoria è impensabile» (PGC, II, 42).

    La forza paziente del popolo sovietico paga alla guerra un tributo gigantesco: la sua indicibile sofferenza si materializza nel fuoco, nel rogo di Stalingrado, e nella fiamma nefanda accesa presso le fosse comuni e presso i crematori nei campi di sterminio. La Shoah, raccontata in modo documentato, preciso, e in anticipo su tutti gli studi storici successivi, è sentita come parte della più generale catastrofe, causata dall’affermazione nella prima metà del XX secolo in Europa, Russia inclusa, di regimi, la cui essenza è nella negazione dei principi democratici di libertà, uguaglianza e fraternità. Tale negazione conduce al disprezzo per la vita umana, alla violenza, alla deportazione, al lager, e alla guerra. La tragedia degli ebrei per Grossman è epifania «dell’epoca degli stermini totali», come ricorda l’amico fraterno Semën Lipkin nella memoria, Le destin de Vassili Grossman, che scrisse nel 1990.

    Il polittico grossmaniano dunque racconta nel suo ideale pannello centrale la tragedia dei contadini, del popolo, e si articola in un pannello superiore sulla barbarie della Shoah, e in un pannello inferiore, un’ideale predella, che raffigura l’incendio di Stalingrado.  Mai, nemmeno l’incendio di Troia nel secondo libro dell’Eneide, mai incendio è stato narrato con tanta potenza di immagini, con tanta vivezza di sensazioni mai provate prima, dal calore sconosciuto, all’odore ignoto. 

    A destra della figura centrale di questo polittico ideale è rappresentata la difficile ed aspra vita quotidiana di tutto il popolo sovietico: ecco figure esemplari di operai, minatori, scienziati, madri di famiglia, giovani, vecchi, orfani ... tutti, uomini e donne di ogni età, di ogni classe sociale, di ogni mestiere, alla maniera di Čechov, a rappresentare la Russia intera, nella sua varietà e molteplicità umana, da criticare, compatire, rispettare, amare e soprattutto conoscere in tutte le sue forme, incluse le vicissitudini degli animali, dai topi alle lepri, dai piccioni alle cicogne, sconvolti dalla guerra in paesaggi devastati e maestosi, eterni e sconvolti.  A sinistra della figura centrale prende vita il racconto del popolo al fronte: la sua resistenza accanita negli episodi di guerriglia urbana; le figure dei generali dell’Armata Rossa e degli uomini di partito; le figure dei due dittatori, Hitler e Stalin; le figure dei tedeschi, in patria e al fronte e nei campiti sterminio, alla ricerca della soluzione di un enigma sconvolgente, quello del loro consenso al regime e della loro collaborazione scellerata alla Shoah.

    La scelta editoriale di pubblicare solo il secondo romanzo, come se il primo non esistesse, è la stessa operazione che porta a disarticolare i polittici e a presentarne le parti come autonome, mentre il loro senso sta nella relazione che le parti del testo istituiscono tra loro e con il tutto.

    Eppure il primo romanzo è essenziale per soddisfare la curiosità del lettore che vuol conoscere tutto il possibile dei personaggi di questa storia affascinante. Ad esempio, in Vita e destino il lettore sa che Marusja è morta, ma è in Per una giusta causa che le circostanze della sua morte sono narrate in una pagina indimenticabile. Sul traghetto in mezzo al Volga nel giorno esecrando del bombardamento e dell’incendio di Stalingrado la confusione è così assordante che Marusja non sente più nulla, è diventata improvvisamente sorda. Ma ode tuttavia uno schianto metallico, e vede una colonna d’acqua verde che si leva tacita e improvvisa, e si riversa sulla scialuppa su cui si trova con i bambini dell’orfanotrofio. La fragile barchetta si rovescia nel Volga. Resta solo una chiglia nera nell’acqua che ribolle bianca. Verde e nero e bianco sono i colori degli annegati nel Volga.

    Ma non è tutto. Per una giusta causa non solo risponde al desiderio del lettore di saperne di più, ma ha un pregio anche maggiore: in alcuni casi dà ad emozioni prevedibili una prospettiva più ampia e complessa, meno ovvia. In Vita e destino, ad esempio, Tolja è già morto quando sua madre lo raggiunge nell’ospedale militare di Saratov. In quei capitoli il centro emotivo del racconto è la madre, nel dolore insostenibile che la paralizza. È un luogo del romanzo la cui lettura è quasi intollerabile. La scelta di provocare un’emozione così forte è tuttavia sorprendente in un romanzo che esige dal suo lettore ideale una lucidità ideale. Ma se la lettura si completa con gli eventi che portano Tolja a morte in Per una giusta causa, l’emozione trova un suo punto di equilibrio tra la madre e il figlio: è il carattere di Tolja ad emergere e a bilanciare quello di sua madre Ljudmila. Tolja è un giovane, intelligente, abile artigliere, è appena uscito dalla scuola militare, non sa che cosa sia davvero la guerra, come tanti giovani che vanno al fronte; lo imparerà morendo, come migliaia e migliaia di ragazzi sacrificati a Stalingrado e ovunque, e pianti da migliaia e migliaia di madri.

    Sempre in Vita e destino c’è la vicenda della figlia di Marusja, Vera, che aspetta un bambino e lo partorisce in un giorno di novembre su una chiatta, ancorata alla riva sinistra del Volga, proprio nella giornata in cui l’Armata Rossa dà il via alla controffensiva che ferma finalmente l’avanzata nemica. Memorabile in Vita e destino è il racconto dell’interno di quella chiatta, in quella giornata, livida e caotica e assordante, glaciale e bruciante insieme, dove tuttavia una giovane donna diventa madre. Ma l’antefatto che prepara Vera alla maternità è in Per una giusta causa, là dove nel rogo che distrugge Stalingrado bombardata, Vera esce per sempre dalla sua infanzia e, benché così giovane, sente nascere dentro di sé un sentimento di protezione verso i feriti disperati che hanno bisogno di soccorso. Mentre li aiuta ad mettersi in salvo, Vera aspetta già il suo bambino, frutto della storia d’amore con il pilota Viktorov, uno dei tanti giovani sovietici dalla vita grama e dalla morte precoce; una storia d’amore che sua madre Marusja disapprova per la scarsa istruzione del giovane, come racconta Vera alla sua amica Zina.

    Anche Zina è un esempio di quelle figure minori abbozzate nella prima parte del romanzo che, lungi dall’essere dimenticate, acquistano il loro senso molte pagine dopo. In Vita e destino Zina è una dei tanti abitanti della città, intrappolati in essa, quelli che non sono riusciti a raggiungere la riva sinistra, ma sono scampati alla deportazione tedesca. Zina è la Fräulein di un tedesco, il tenente Bach. Lo frequenta per procurarsi del cibo, deve pur sopravvivere, anche se una volta regala la galletta avuta dal tenente ad una vecchia che vive in uno scantinato vicino. Ma chi è questa giovane donna, che si lega ad un nemico? Deve essere giudicata come moralmente riprovevole, come si usa in questi casi? La risposta è in Per una giusta causa. Zina è una ragazza del tutto comune, non troppo istruita e vanitosa: è capace di mangiare pane e tè per settimane per comprarsi delle calze fini, o per offrire una festa ad un’amica. Tuttavia ha un carattere pratico: ha fatto un buon matrimonio, sposando un funzionario di partito che le permette di vivere bene; constata di essere addirittura ingrassata nell’anno di guerra. Chiacchierando con Vera nella sua casa di Stalingrado (PGC, I, 54), ha parole di critica per Ženja, che è una donna molto bella, ma non si serve della sua bellezza per conquistarsi una buona posizione sociale. Nello spesso tempo approva la relazione di Vera con Viktorov, cresciuto in un orfanotrofio, meccanico e ora pilota destinato a morte quasi certa. Zina elogia l’amore disinteressato, la passione che non sente ragioni, che è assolutamente libera.  Nello scantinato di Stalingrado, dove incontra il tenente Bach, nel momento finale della resa dei conti, quando lui le si aggrappa, Zina, la pratica e calcolatrice Zina, sente tuttavia dentro di sé la forza del tutto irragionevole di un sentimento amoroso che la spinge verso il tedesco. Zina è un personaggio minore, ma il filo narrativo che la riguarda, lasciato aperto all’inizio del racconto nel dialogo con Vera a Stalingrado, è ripreso in Vita e destino e acquisisce così un suo senso specifico nell’ambito delle molte e contrastanti storie del popolo in guerra. Il popolo ha i modi e i caratteri più vari, spesso compresenti nella stessa persona, come in Zina, una donna che è furba nello stesso momento in cui è frivola, pratica mentre è sentimentale, opportunista mentre è generosa.

    Un altro episodio che offre la percezione di un’abilissima circolarità nella costruzione del racconto si svolge intorno ad un pranzo di famiglia. All’inizio in Per una giusta causa e alla fine in Vita e destino, attorno alla tavola apparecchiata siede la famiglia di Aleksandra Vladimirovna o quel che ne resta. Nel luglio-agosto 1942 il fronte è ormai prossimo, ma in casa di Aleksandra Vladimirovna, in via Gogol a Stalingrado, c’è una festa (PGC, I, 6-14). Aleksandra vive con suo nipote adolescente, Serëža, figlio di suo figlio Dmjtri, arrestato e deportato, come sua moglie, nel Trentasette. Ci sono anche due delle sue tre figlie, Marusja e Ženja.  Ci sono Vera e Tolja, giunto inaspettatamente con un compagno del corso artiglieri, Kovaliov. C’è Stepan Fëdorovič, marito di Marusja e direttore della centrale elettrica di Stalingrado, la Stalgres. E sono attesi alcuni vecchi amici di Aleksandra: Mostovskoj, il bolscevico, e Andreev, operaio alla fabbrica Ottobre Rosso, e Sof’ja Osipovna, chirurgo capo all’ospedale; è attesa anche una nuova amica, Tamara, moglie del maggiore Berëzkin, evacuata in città con due figli bambini dalla zona occupata dai tedeschi. Benché tutti siano preoccupati, la compagnia è ancora allegra e festosa.  Tutti traggono conforto dalla reciproca presenza, chiacchierano e apprezzano che Ženja abbia preparato addirittura una torta. Il secondo e davvero ultimo pranzo a Stalingrado non è più nella casa di via Gogol, distrutta dalle bombe e degli incendi, ma in un locale riattato ad abitazione nella centrale elettrica. È l’aprile 1943, meno di un anno dopo. La tavola non è più festosa. Di tutti i commensali dell’estate 1942 sono rimasti solo Stepan e Vera, la nonna Aleksandra, e Andreev, che ha perduto sua moglie, ma ha con sé sua nuora Natal’ja. La morte, la prigionia, le tribolazioni, che la guerra porta comunque con sé, hanno sconvolto la vita di tutti loro. La malinconia e il dolore sono adesso i compagni di questi sopravvissuti, che si apprestano a lasciare per sempre Stalingrado. «È duro lasciare una casa dove si è sofferto molto» (VD, III, 62), dice memorabilmente Aleksandra, e chiude così il racconto circolarmente, dove l’inizio si congiunge con la fine attraverso un’immagine, quella della tavola apparecchiata, attorno a cui siede una famiglia.

    Ma che tra le due parti della dilogia vi sia una connessione narrativa, sistematica ed organica, diventa, mirabilmente manifesto nel viaggio avventuroso di una lettera. È la lettera formidabile di Anna Semënovna, la madre del professor Štrum. Il racconto delle traversie di questa busta, che braccata dalla guerra supera ogni ostacolo, è messaggio di per sé, dal valore cruciale.

    Il colonnello Novikov, di stanza a Stalingrado è chiamato a Mosca al comando militare; i Šapošnikov lo incaricano di consegnare al professor Štrum una lettera, giunta a Stalingrado presso Mostovskoj, che a sua volta l’ha ricevuta da un vecchio conoscente, Gagarov, che l’ha avuta da un certo Ivannikov, che in fuga verso est dalle zone occupate, è riuscito a nascondere e salvare alcuni ebrei, ed ha avuto la busta, in realtà un pacchetto avvolto in una carta sgualcita e macchiata, da una donna di cui non conosce né il nome né le circostanze in cui è entrata in possesso del plico. Comunque Ivannikov ha detto a Gagarov di consegnarla a Ljudmila, per il professor Štrum. Gagarov incarica della consegna Mostovskoj come vecchio amico di Aleksandra Vladimirovna, e Mostovskoj porta la lettera a casa Šapošnikov, in via Gogol, dove apprende da Tamara Berëzkina che il pacchetto potrà andare a Mosca attraverso il colonnello Novikov, che là è appunto diretto. È così sporco il pacchetto, che Tamara lo avvolge in una carta rosa, di quelle che si usano per le decorazioni di Natale. Così involto, Novikov consegna il plico a Štrum, che per ragioni connesse al suo lavoro di fisico, è rientrato per qualche giorno nella sua casa di Mosca da Kazan’ dove è sfollato. Questi mette il pacchetto nella sua cartella e ne rimanda la lettura ad un altro momento, per una buona ragione: sta corteggiando Nina, una giovane donna che abita temporaneamente nell’appartamento vicino al suo. Anzi Viktor Pavlovič del pacchetto si dimentica proprio, finché nella sua dacia il sabato sera, dopo aver fatto un giro di controllo in casa, aver constatato i danni della guerra, dopo aver fatto un giro in giardino, essere rientrato, aver messo il pigiama ed essere andato a letto, aprendo gli involti del pacchetto ... riconosce la calligrafia della madre: allora si alza, si veste in fretta come se qualcuno lo chiamasse. E legge. Legge e rilegge la lettera, non ne farà parte a nessuno, la conserverà sempre su di sé, in una tasca interna della giacca. Legge lui solo. Il lettore non conosce qui il testo. Potrà conoscerlo soltanto in Vita e destino. Tale è l’orrore del racconto da non poter essere affrontato tutto insieme! La mattina dopo nella dacia di Viktor Pavlovič tutto ha l’aspetto consueto, il sole sorge, gli uccelli cantano, lo specchio gli rimanda il suo viso sempre uguale. Ma un filo rosa, torto, sta sulla coperta del letto, la luce del sole sembra muoverlo... Quel filo, è il filo del sangue che attraversa tutta la dilogia.

    È il sangue rosso che scivola sui corpi bianchi degli assassinati ai bordi delle fosse.  È così crudele l’idea che si possano assassinare tutti insieme tanti esseri umani da essere incredibile. Eppure questo sanguinoso racconto torna in tre distinti episodi, significativi perché creano stretti rapporti di senso nella dilogia grossmaniana, uno in Per una giusta causa, gli altri due in Vita e destino.

    Krymov, dopo il suo arresto, narrato in Vita e destino, è rinchiuso in una prigione di campagna. Lì è testimone di un fatto terrificante. Chiuso in cella, sente il carceriere e il suo superiore litigare furiosamente. Lo fanno uscire in corridoio e lì vede un uomo scalzo, in mutande, la faccia piccola e giallastra, sporco. «E piangeva quella faccia, piangeva disperata: piangevano le rughe, le guance flaccide, le labbra. Solo gli occhi non piangevano, ma sarebbe stato meglio non vederli quegli occhi tremendi, tanto atroce era la loro espressione» (VD, III, 3). È un prigioniero, fucilato poche ore prima, ma solo ferito, evidentemente, e sepolto sotto uno strato di terra non molto spesso. Si è liberato ed ora è tornato alla prigione, dove, del tutto indifferenti al suo terrore, i carcerieri si accusano a vicenda e non sanno cosa fare dell’uomo che sta loro davanti, come fosse un oggetto di nessun conto. Molti anni prima, in una discussione con Štrum raccontata in Per una giusta causa,  Krymov ricordava che ad Abarčuk era toccata una sorte simile: «Negli Urali gli uomini di Kolčak l’avevano fucilato e lui è uscito dalla fossa insanguinato (…)» (PGC, I, 28). Abarčuk, da quell’uomo di fede ardente che era, non tornò dai suoi assassini, ma raggiunse il comitato rivoluzionario e riprese la lotta. È un episodio centrale per comprendere il mondo emotivo di Krymov in due momenti diversi della sua vita. Lo stesso terrificante episodio, per il Krymov rivoluzionario è un mito, il mito del combattente valoroso, che risuscita dalla tomba, insanguinato, e continua a lottare con i suoi compagni; per il Krymov ormai arrestato, un episodio analogo è finalmente visto per quello che è: una scena mostruosa, dove un uomo, traumatizzato e istupidito, insanguinato e sporco, è agli occhi di altri uomini soltanto una cosa. E quando sarà duramente interrogato e picchiato alla Lubjanka, gli tornerà in mente quel prigioniero annientato, e si identificherà in lui. «Farò la stessa fine. Nemmeno io saprei dove andare. È tardi, ormai» (VD, III, 43).

    Il motivo della fuga dalla fossa comune che gorgoglia sangue compare una terza volta nell’opera, in Vita e destino nel contesto del racconto dello sterminio degli ebrei. Nataša è nel ghetto, presto è avviata con gli altri alla fossa comune e lì colpita. Ma dalla fossa esce, «dopo aver strizzato la camicia madida» (VD, I, 46). E torna in città. È ormai notte. Un’orchestra suona un valzer nella piazza del ghetto dove poche ore prima si è svolta la caccia infernale e dove ora si fa festa.

    È un capitolo breve, ma intenso per l’orrore della tomba comune che gorgoglia di sangue sui corpi bianchi delle vittime, per l’orrore della fossa che si muove, perché non contiene solo cadaveri: molti bambini, vecchi e disabili vi sono gettati vivi, e la morte per soffocamento può avvenire a distanza di molte ore, di giorni. Proprio questa è la condizione di Nataša che è disabile, ha un ritardo mentale, ed è figlia di un medico eliminato nel Trentasette. Questa notizia è nel testo uno degli anelli di congiunzione tra le stragi sovietiche e quelle naziste, a sottolineare che, al di là dei motivi, di stragi si tratta, e che le modalità operative degli uni e degli altri si somigliano: sono le modalità operative dello stato totalitario.

    È il professor Štrum a formulare con nitidezza questa osservazione: il nazismo respinge il concetto di individuo e basa la sua azione sull’idea di probabilità: in quale insieme di individui è più probabile trovare degli oppositori? Definito questo, procede alla neutralizzazione preventiva della minaccia, ricorrendo alla deportazione e al genocidio. E in Vita e destino il parallelo col mondo sovietico diventa esplicito: il potere sovietico ritiene più alta la probabilità di scovare un nemico tra gli strati sociali non operai. «Però anche i nazisti si erano basati sulle probabilità per distruggere popoli e nazioni» (VD, II, 54), riflette il professor Štrum.

    Emerge qui uno dei temi centrali della dilogia grossmaniana: il parallelo tra lo stato nazista e quello staliniano, o per meglio dire, tra le modalità operative di questi due regimi politici. Per la libertà di pensiero che questa riflessione dimostra, i lettori occidentali hanno ammirato, e tradotto, soprattutto il secondo romanzo della dilogia, Vita e destino, dove il tema emerge con grande forza nei pensieri del professor Štrum e nel celebre dialogo tra Liss e Mostovskoj.

    Tuttavia proprio la lettura dell’intero racconto non solo chiarisce che questo stesso tema è presente anche nella prima parte, in Per una giusta causa, ma offre al lettore una prospettiva più ricca e profonda: non è solo la similitudine tra i due regimi ad emergere è anche, e forse sopratutto, l’esistenza di memorie diverse, talvolta divergenti, della storia sovietica della prima metà del XX secolo. Le memorie di tutti coloro che vissero la rivoluzione, la guerra civile, la collettivizzazione, l’industrializzazione e infine l’invasione tedesca sono molteplici, e sono altro rispetto alla leggenda nazionalista costruita dallo Stato sulla superiorità russo-sovietica in guerra e, per estensione, in ogni altro possibile ambito, naturalmente sotto la guida infallibile del partito e del suo leader.

    È nel testo grossmaniano che trovano voce le memorie mutilate dalla memoria di Stato.

    Come in Vita e destino la critica al regime sovietico torna nelle parole di molti personaggi, così in Per una giusta causa ci sono i ricordi di Novikov, di Krymov, di Darenskij e di Berëzkin sull’inizio della guerra nell’estate 1941 e sugli errori militari commessi in quei mesi da Stalin e dai suoi generali; ci sono le considerazioni del generale Ageev sull’ordine Nessun passo indietro, del luglio ‘42 (PGC, III, 19). E tra i civili, Vavilov stesso e i cosacchi del Don, ci sono le discussioni sui kolchoz; e nella storia di Dmitrj c’è lo spavento, e lo scandalo, del gulag. Sono proprio queste riflessioni che danno origine alla critica del sistema sociale e politico dell’era staliniana in entrambi i romanzi. Lungo tutto il racconto c’è la memoria dei tanti fatti che il nuovo Stato nato nel Diciassette visse, e delle tante scelte che erano pur possibili e che avrebbero potuto portare ad esiti ben diversi. La stesse considerazioni sulla rivoluzione di Mostovskoj, il bolscevico, si sviluppano nelle due parti del romanzo, non solo in Vita e destino, ma anche all’inizio dell’intero racconto. In un capitolo iniziale in Per una giusta causa, egli ricorda Leningrado assediata, la città che è memoria vivente «dei primi battiti del giovane cuore della rivoluzione» (PGC, I, 12), questa stessa città ha per lui i tratti sofferenti dei visi infantili mortalmente pallidi, i gesti pazienti e ostinati delle donne, degli operai, dei soldati. E Mostovskoj ricorda anche le lontane, profonde e vivaci discussioni con i compagni di emigrazione, di cui sente ancora dentro di sé le voci, a Londra, nel parco dell’Università, sulla tomba di Marx. Mostovskoj ricorda la fatica estenuante degli anni in cui fu costruita la Repubblica sovietica, il suo personale contributo all’organizzazione teorica e pratica dei piani quinquennali, al programma di elettrificazione, il suo lavoro al Centro Ricerche Scientifiche dello Stato, e soprattutto il suo lavoro di commissariato all’istruzione pubblica, dove lavorò con un compagno con cui si capiva «sempre al volo» (VD, I, 4), Lunačarskij. Appena un cenno fuggevole in Vita e destino a questa figura di primo piano del gruppo dirigente bolscevico; così abile che seppe proteggersi da Stalin (non fu infatti arrestato ed eliminato), ma che non non riuscì a contrastarlo politicamente e fu emarginato, proprio come Mostovskoj.  Il cenno a Lunačarskij si illumina di significato proprio se messo in relazione col capitolo di Per una giusta causa in cui è narrata la storia di Mostovskoj, il bolscevico che idealizza la rivoluzione, che la considera come grandiosa opera di Lenin, anche quando ha la prova che l’errore sta proprio nella debolezza di quell’elaborazione teorica, che non riesce a immaginare istituzioni capaci di tradurre in politica l’ideale di democrazia; anche quando ha la prova che il leninismo apre la via al regime staliniano, che si affermò infatti, e processò e uccise anche Bucharin, un compagno di lotta che Mostovskoj aveva stimato e amato profondamente.

    È dunque sul terreno della memoria, anzi delle memorie, che si svolge il duello, impari, tra questo testo e lo Stato, fin dalla tormentata vicenda di censura che accompagna già nella prima metà degli anni Cinquanta il primo romanzo e che conduce al sequestro del secondo all’inizio dei Sessanta.

    L’esigenza insopprimibile del racconto è quella di contrastare la narrazione del potere, che dell’amor di patria e della guerra vittoriosa fa un monumento retorico al nazionalismo. La dilogia grossmaniana al contrario dà voce ad un amor di patria che non è nazionalismo, che si declina in modi diversi, plurali, e tutti legittimi, e tutti implacabilmente espunti dalla versione ufficiale o rielaborati monchi e privati del loro senso. Eppure l’amor patrio del menscevico Černecov non è meno degno di quello del colonnello Novikov, che se lo costruisce nei duri mesi della guerra. Per una patria libera combatte il capocasa Grekov non meno eroicamente del comandante Filiaškin e degli uomini che periscono con lui alla stazione. E il bolscevico Mostovskoj non è meno critico del vecchio principe Šarogorodskij sul ripescaggio di tutte le figure di condottieri russi, di generali gloriosi del passato e sulla politica di riapertura delle chiese, che sono piene, come fa notare non senza una nota di umorismo Agrippina Petrovna, la padrona di casa di Mostovskoj (PGC, I, 13).

    Una polemica esplicita con il mito della Grande Guerra Patriottica è proprio in Per una giusta causa (PGC, II, 4) nel capitolo in cui durante una conferenza stampa al fronte il generale Erëmenko fa notare ai giornalisti che la situazione attuale non è quella del consiglio di guerra tenutosi a Fili, narrata in Guerra e pace. Lì Kutuzov, contro l’opinione generale, sostiene che non può difendere Mosca, e dunque permetterà alle truppe nemiche di occuparla. Invece a Stalingrado Erëmenko dichiara che non abbandonerà mai il suo posto in città. Il corrispondente che aveva interrogato il comandante proprio sulla possibile ritirata si accorge di aver arbitrariamente calato lo schema del romanzo di Tolstoj sulla realtà. Le parole di Erëmenko suonano altre da quelle di Kutuzov all’epoca dell’invasione napoleonica e la guerra contro i tedeschi del 1941 non è la guerra contro francesi del 1812!

    Leggere dunque solo il secondo romanzo, che in origine è stato pensato come un unico testo con il primo, non consente di cogliere compiutamente il senso della vicenda di Stalingrado, che è sì storia di una guerra, di una guerra vera storicamente combattuta, ma anche racconto di come si costruì pezzo per pezzo una menzogna, quella della Grande Guerra Patriottica, che cancella la verità popolare di quella guerra. È storia di un paradosso: la vittoria sui nemici, ottenuta dal popolo russo a prezzo di sacrifici indicibili, dà origine non alla libertà, ma ad un nuovo capitolo di servitù.

    Come non cogliere poi la forte esigenza etica che caratterizza il racconto grossmaniano? Mentre svolge la sua indagine conoscitiva sul mondo, questo grande romanzo esprime anche un angoscioso timore: la grande storia ricorda i fatti, i generali, gli uomini di potere, ma se proprio gli strazi della gente comune fossero dimenticati? se tutto ciò che si è compreso a così caro prezzo si disperdesse come bruma spazzata via dal vento della steppa, o fosse sepolto sotto la coltre di neve? Nella dilogia grossmaniana l’indagine della realtà non è mai disgiunta dall’imperativo morale che la governa: occorre custodire il ricordo dei patimenti umani, occorre dare voce alla memoria di tutti, dei sopravvissuti e dei morti.

    Dalla motivazione etica del racconto discende anche la sua scelta espressiva: alla metà del XX secolo, dopo la crisi del romanzo ottocentesco e la decostruzione delle sue strutture, dopo la lezione delle avanguardie, Vasilij Grossman decide, consapevolmente e polemicamente, di scrivere un romanzo storico, che si pone all’interno della grande scuola del realismo europeo. Non del realismo socialista, non delle avanguardie, casomai del realismo alla maniera dell’amatissimo Čechov, e dell’ammirato Tolstoj. A quest’ultimo è dedicato uno scambio di battute tra Krymov e il comandante Gur’ev alla fabbrica Ottobre Rosso, dove in un altoforno sta il comando che contrasta i tedeschi (VD, I, 56). Il comandante non può credere, e Krymov non riesce proprio a convincerlo, che Tolstoj sia vissuto dopo la fine della guerra contro i francesi; non si può credere che un uomo capace di raccontare davvero la guerra, in realtà non l’abbia mai vissuta personalmente! Il dialogo è notevole perché chiarisce che realismo non è esperienza diretta di una data situazione. È ricerca, è indagine, è rispetto per ciò che si osserva, proprio come in Čechov a cui è dedicata una bella pagina in Vita e destino nel dialogo a Kazan’ tra il professor Štrum e i suoi amici (VD, I, 66).

    La discussione sui limiti delle grandi correnti artistiche della prima metà del XX secolo, del decadentismo e delle avanguardie che si oppongono al realismo, percorre tutto il racconto, in un’inesausta ricerca tesa a definire una propria originale poetica.

    La prima volta che nel romanzo si parla esplicitamente del senso e del valore di un’opera d’arte è su un dipinto di Ženja. Se ne parla insistentemente nel breve giro dei primi capitoli dell’opera. La sera della festa in casa Šapošnikov, mentre strimpella sul pianoforte nella stanza di Sergej, Kovaliov nota un ritratto e: «Chi è» domanda, sbadigliando. «Sono io, dice Vera, è la zia Ženja che l’ha disegnato». «Non è per niente somigliante» (PGC, I, 7). Si può escludere che questa battuta significhi che Ženja non sa disegnare: si è diplomata all’Istituto d’Arte di Mosca, e sua madre, riparata a Kazan’ da Ljudmila dopo l’evacuazione da Stalingrado, dice che Ženja, da quell’«eccellente disegnatrice» che è (PGC, II, 46), a Kujbyšev lavora per un ufficio militare. La battuta di Kovaliov significa invece semplicemente  che Ženja non è una pittrice realista. «Pitture misteriose di cui nessuno capisce niente» (PGC, I, 18), così Marusja definisce i quadri di sua sorella, e, polemica, sostiene anche che «per ammirare Repin e Surikov non fa bisogno d’essere specialisti» (PGC, I, 22). Anche Novikov, mentre beve il suo tè, guardando un altro dipinto che rappresenta un vecchio dai pantaloni e dalla barba verde, osserva scherzosamente: «È la vecchiaia che lo ha fatto diventare verde?» Serëža risponde: «È la zia Ženja che l’ha dipinto; trova che il vecchio pellegrino sia una delle sue tele migliori» (PGC, I, 19). Novikov è un uomo semplice, non particolarmente colto, però è prudente con Ženja, e capisce che è meglio non rischiare di dirle sciocchezze irritanti. Sicché in quegli stessi giorni, e a stretto giro di pagine, incontrato un vecchio amico, Darenskij, che reputa attendibile, gli domanda: «Vitalij Alekseevič, le piace la pittura moderna?» «La pittura moderna? No, proprio per niente». «Ma comunque è moderna». E Darenskij, alzando le spalle, «E allora? di Rembrandt nessuno si chiede se sia antico o

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