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Slavia N. 2020 - 1: Rivista trimestrale di cultura
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E-book378 pagine5 ore

Slavia N. 2020 - 1: Rivista trimestrale di cultura

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Gentile lettrice /Gentile lettore,
la rivista che Le presentiamo è nata nel 1992 ad opera di un gruppo di slavisti, docenti universitari, ricercatori e studiosi di varie discipline intenzionati a promuovere iniziative per approfondire la conoscenza del patrimonio culturale dei paesi di lingue slave e delle nuove realtà statuali nate dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Nel corso degli anni il panorama dei paesi di lingue slave si è ulteriormente modificato con la divisione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia e con la graduale disgregazione della Jugoslavia - un processo forse non ancora giunto a conclusione - da cui sono nati finora sette nuovi Stati, sei dei quali a maggioranza slava. Tutte queste realtà nazionali, vecchie e nuove, sono al centro della nostra attenzione. Più in generale, andando oltre i confini etnici o linguistici, rientrano nel nostro campo di indagine tutti i paesi che, nel tempo, abbiano comunque fatto parte di quel variegato universo che costituiva, secondo la terminologia sovietica, il "campo socialista" o il "campo del socialismo reale".
Slavia è annoverata tra le pubblicazioni periodiche che il Ministero per i beni e le attività culturali considera "di elevato valore culturale".
La rivista intende offrire le proprie pagine come tribuna di dibattito ed è disponibile a pubblicare articoli, testi di conferenze, recensioni, resoconti e atti di convegni, tesi di laurea e contributi vari. La Redazione invita i lettori a manifestare le proprie opinioni e a commentare i contenuti della rivista inviando messaggi all'indirizzo di posta elettronica info@slavia.it.
 Slavia si riserva il diritto di pubblicare, abbreviare o riassumere i messaggi, che, su esplicita richiesta degli autori, possono anche essere pubblicati in forma anonima o con uno pseudonimo.
Le opinioni espresse dai collaboratori non riflettono necessariamente il pensiero della direzione della rivista.
Ci auguriamo che la nostra pubblicazione possa interessarLa.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2020
ISBN9788835803973
Slavia N. 2020 - 1: Rivista trimestrale di cultura

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    Anteprima del libro

    Slavia N. 2020 - 1 - Gabriele Mazzitelli

    Italia

    Gabriele Mazzitelli

    LA STORIA DI ANJA E LA FABBRICA DEL ROMANZO

    Intervista a Giuseppe Manfridi

    Manfridi, lei è soprattutto un uomo di teatro, un drammaturgo. Anja, la segretaria di Dostoevskij [1] non è la sua prima opera narrativa ma, questa volta, si è misurato con un impegno fuori del comune, per mole e per tematica. Prima di entrare nel merito, vorrei chiederle del suo rapporto con Dostoevskij. L’anno prossimo ricorre il duecentesimo anniversario della nascita di Dostoevskij, uno scrittore che ha vissuto nell’Ottocento, ma la cui forza si è dispiegata nel Novecento per la capacità di anticipare stati d’animo e sentimenti assolutamente moderni. Il suo romanzo testimonia che anche nel XXI secolo possiamo parlare di un’attualità di Dostoevskij. Quale è per lei oggi il significato di questo scrittore?

    Avvento d’impeto una risposta soggettiva: la capacità di esprimere il senso dell’abisso come vertigine e verticalità. Nessuno, che io sappia, prima di lui lo aveva così ereticamente inteso (è l’eresia che Ivan Karamazov trasmette allo sgomento e spirituale Aleksej nel suo proclamarsi pronto a restituire a Dio il proprio biglietto d’ingresso semmai l’intera armonia umana dovrà essere pagata con lo strazio di un solo bimbo sbranato dai cani). Dostoevskij ci parla dell’abisso in cui si può crollare, così come dell’abisso da cui si può risalire (e qui la verticalità).

    Nella sua idea del mondo, dannazione e redenzione coesistono e coincidono nel dispiegarsi di una sola retta che sta all’arbitrio di ogni singola anima decidere lungo quale senso percorrere. Una visione, questa, che prefigura la colpevolezza come possibile scrigno dell’innocenza. Raskol’nikov, in Delitto e Castigo, non oserebbe ambire a un’ipotesi di purezza se non ardisse dapprima caricarsi del crimine che, con furore immaginifico, ritiene inevitabile commettere.

    È anche perciò che Dostoevskij si lascia commuovere dalla nostra assurda e miserevole inclinazione a respingere gli ammonimenti verso quella realtà salvifica che, nella convulsa mistica dello scrittore, coinciderebbe con la parola del suo Cristo.

    Fëdor Michajlovič continua a offrirci, leggendolo, la possibilità di percepire le dinamiche per cui il male (in forme che vanno dall’ipocondria a una dissennata smania di elevazione) insiste ad avere tanta ascendenza sulla labile sostanza della condizione umana.

    Prima di passare a un’analisi del suo romanzo c’è una domanda che non posso non fare a un uomo di teatro. Sebbene Dostoevskij non abbia mai scritto drammi o tragedie a me pare che molto spesso nelle sue opere si respiri un’atmosfera molto teatrale (e a volte oserei dire cinematografica), sia nella caratterizzazione dei personaggi sia in quella che vorrei definire l’ambientazione scenografica delle trame. Lei che ne pensa?

    Me lo sono domandato spesso anch’io. Un abbozzo di risposta mi è stata offerta proprio dalla stesura del mio romanzo.

    La carica teatrale della narrativa di Dostoevskij è messa in particolare evidenza dalla intensità dei dialoghi densamente presenti nelle sue pagine. Voci che si intrecciano a voci e che confliggono con altre voci ancora. Il fatto è che Fëdor Michajlovič, morso dall’urgenza di corrispondere a consegne pressanti, ha sempre dovuto fare della velocità creativa un prodromo di stile. È quindi comprensibile che, nel suo comporre, una sorta di ammasso umano e fonico prendesse il sopravvento sulle dilatazioni descrittive.

    Non escludo che proprio l’incontro con la giovane stenografa Anna Gregor’evna Snitkina abbia agito, in questo senso, un ruolo fatale spingendo l’autore verso l’acuirsi di una scrittura votata al parlato, dal momento che proprio parlando Dostoevskij si è trovato a far rifluire sulla carta tramite una mano altrui (quella di Anja, appunto) le sue creazioni. Sicché, componendo ad alta voce. Una voce, la sua, che modulava molteplici voci altrui sottoponendole alla prova del loro immediato tradursi in fiati, raucedini e sospiri. Voci recitate, insomma. Voci che chiamano in causa corpi reali, capaci di avocare attorno a sé habitat consequenziali. Ossia, gli spazi della scena di cui ogni personaggio si fa epicentro, e alimentato da quel senso dell’ hic et nunc che è specifico di una dimensione teatrale destinata ad accogliere, dinanzi a un pubblico compresente, l’avvenire di un’azione drammatica.

    Forse può essere utile ripercorrere le tappe della sua carriera artistica perché mi pare di poter dire che vi sia uno stretto legame con la scelta di raccontare una storia come quella di Anja.

    Gli inizi della mia carriera rimandano alla mia attività di studente universitario, quando avevo appena compiuto vent’anni. Nel ’76 ho portato in scena il mio primo lavoro al Teatro spazio Uno di Roma convertendo in una sinistra ronde di amori fatali l’ Andromaque di Racine, questo dopo aver tentato un allestimento, mai realizzato, sulla vita di Majakovskij (già la Russia, dunque!). Ma le mie prime composizioni di carattere per lo più poetico sono nate nel corso dell’adolescenza, ambiziosamente ispirate da letture che andavano dall’amatissimo Leopardi e dai testi di Bob Dylan a Ginsberg e a Rimbaud. L’unico narratore che da ragazzo leggevo avidamente era Edgar Allan Poe, sino alla precoce scoperta di Shakespeare. Aprire quei volumi recuperati, un giorno qualsiasi e quasi per caso, dalla biblioteca del salotto ha significato una vera rivoluzione copernicana del mio immaginario. Per me, figlio unico e poco provvisto di compagni coetanei con cui spartire le ore della giornata, l’idea di poter creare mondi abitati da personaggi immediatamente provvisti di una loro anagrafe e di una loro fisionomia da immettere in uno spazio concreto attraverso la forza deflagrante della loro fisicità, mi ha indirizzato verso quella prodigiosa forma di invenzione che è la scrittura scenica. Ho potuto così fiutare la sconcertante possibilità di creare, come dice William Saroyan, una mia personale specie umana. Dopodiché, per oltre un paio di decenni, tutto quello che ho scritto ha preso esclusivamente forma di testi teatrali e, in alcuni casi, sceneggiature (particolarmente cara mi è quella di Ultrà, film vincitore, per la regia di Ricky Tognazzi al Festival di Berlino del 1990). Quindi, superati i quarant’anni, con Cronache dal paesaggio e La cuspide di ghiaccio è iniziata la mia avventura nella narrativa.

    Per scrivere questo romanzo ha sentito il bisogno di recarsi nei luoghi di Dostoevskij, visitando la Russia: quanto è stato importante per ricreare certe atmosfere, per capirne meglio lo spirito?

    Sono stato varie volte in Russia, ma per lo più a Mosca, e solo di recente, due anni fa, a Pietroburgo; un viaggio cruciale per il progetto destinato a tradursi nel libro che poi ho scritto.

    Con me è venuta la mia compagna, Oksana Rab, che di quella cultura sa molto, e che da anni mi è assai vicina e complice in tutto ciò che faccio e che progetto. Inoltre, a Pietroburgo abbiamo avuto modo di conoscere una straordinaria guida, Irina Cherkasova, che ci ha permesso di conoscere e comprendere la città nel segno che più mi premeva per tornare alla vicenda di Anja (già presente da tempo nel mio immaginario) convincendomi in via definitiva a trarne un romanzo.

    Non per nulla, in appendice al testo cito esplicitamente Irina avendo inserito, come un piccolo dono al possessore del volume, la riproduzione di un bigliettino dove, prima di salutarci, lei ha voluto tracciare, secondo la nuova toponomastica cittadina, la mappa dei luoghi di Delitto e castigo, altrimenti irrecuperabili. Aver potuto addentrarmi così bene nel quartiere della Sennaja (il più dostoevskjano fra tutti i quartieri di Pietroburgo) ha significato senz’altro un incentivo formidabile al giusto transfert per affrontare la mia opera.

    Credo di poter dire che la gestazione di questo romanzo sia stata molto lunga se già quasi venti anni fa ci capitò di parlare del libro di ricordi di Anna Grigorʹevna Dostoevskaja tradotto in italiano col titolo Dostoevskij mio marito . Si può dire che sia stata quella lettura a far scaturire l’idea del romanzo o è la figura di Dostoevskij ad averla affascinata?

    È vero, l’idea del romanzo ha radici antiche, e origini quasi aneddotiche. Mi riferisco a quasi trent’anni fa. Vivevo allora a Parigi con Carlotta, la mia prima moglie. Avevamo da poco preso casa nel Marais (un quartiere dai forti sapori dostoevskjani).

    Una notte, a causa di lavori tra le mura domestiche, siamo ospitati dallo scrittore Sergio Ferrero, che abitava non distante da noi. Per dormire, il nostro amico mi mette a disposizione un lettino sovrastato da pareti colme di libri. Io, prima di addormentarmi, sollevo il braccio alle mie spalle e, del tutto a caso, sfilo il primo volume che mi capita a tiro e mi ritrovo tra le mani la vetusta edizione Bompiani del diario di Anna Dostoevskaja, uno scritto di cui ancora non sapevo nulla. Inizio a sfogliarlo e, malgrado il prosieguo dei capitoli snodi una pletora non proprio vivace di lutti e di pratiche quotidiane, le prime pagine mi fanno sobbalzare. L’oggettiva forza del fatto in sé – mi riferisco alle modalità del formidabile incontro della piccola stenografa col titanico scrittore idolatrato dal padre di lei (morto da poco) nell’emergenza di un romanzo da scrivere per intero entro un mese – mi suggerisce la possibilità di cavarne una narrazione in grado di toccare alcuni temi per me centrali: dalla pervasione reciproca al mescolarsi di due temperamenti tanto diversi per estrazione e soprattutto per età; dal nascere taciturno di due diversi amori che non hanno il coraggio di pronunciarsi, sino al compiersi di una simbiosi coniugale raggiunta a dispetto dello scandalo che avrebbe voluto osteggiarla. In verità, da quella sera nel Marais, sono dovuti passare molti anni prima che questo spunto si traducesse, nel 2000, in una commedia e poi, dopo altri diciannove anni, in Anja, la segretaria di Dostoevskij.

    Passiamo ora ad analizzare il romanzo che è diviso in tre parti: Prima della scrittura, Durante la scrittura e Dopo la scrittura. La scrittura di cui si parla è quella del romanzo Igrok (Il giocatore) , un’opera che ha un sapore autobiografico e la cui genesi è legata proprio a debiti di gioco dello scrittore, costretto per questo ad accettare un contratto capestro che lo obbligava a scriverlo in tempi rapidissimi. Da qui la decisione di servirsi di una stenografa, l’incontro con Anja Snitkina e l’inizio di un rapporto che da lavorativo diventerà amoroso, tanto che Anja sposerà Dostoevskij e ne sarà una fedele compagna. Ho sintetizzato io la storia vera dalla quale prende spunto la narrazione, ma ora vorrei che questa esile trama venisse da lei arricchita con la sostanza di quanto viene descritto nel suo romanzo.

    Azzardando un gioco parole, questo romanzo racconta la fabbrica di un romanzo. È il dietro le quinte di un’officina letteraria costretta a mettersi in moto con turbinosa irruenza poiché ingabbiata nella trappola mortale di un conto alla rovescia. La vicenda, si sa, corrisponde al vero, ma in questa verità ho cercato spazi disabitati in cui avventurami con spirito romanzesco non per alterare l’esito dei fatti, ma per dare evidenza plastica a ciò che se pure fosse avvenuto non li avrebbe contraddetti. Da cui l’invenzione di personaggi come quello di Sergej, il giovane fidanzato di Anja: un avvocato alle prime armi che molto si adopera per trovare alla ragazza un lavoro stabile presso i tribunali, dove la presenza di stenografi durante le udienze diventerà presto obbligatoria (il tema del lavoro è fondamentale nel mio romanzo).

    Altri personaggi, sicuramente esistiti, sono stati invece ripensati alla luce di particolari necessità narrative. Penso, ad esempio, a quello di Anna Nikolaevna, madre di Anja, immaginata come una donna volitiva e capace di sopportare il senso dell’oltraggio sociale che emanerà dalla passione corrisposta di sua figlia per il maturo scrittore. Per non dire dell’editore Stellovskij, qui ritratto con le fattezze di un autentico e carismatico demone. Poi c’è Pietroburgo, evocata nella sua lucentezza di città nuova di zecca, priva di archeologia, e solo colma di presente e di futuro.

    Anja è indubbiamente la protagonista del racconto, una ragazzina che improvvisamente incontra il suo idolo e vive tutte le emozioni di questo incontro che la trasforma in una donna adulta e consapevole. Ovviamente la narrazione ruota anche attorno alla figura di Dostoevskij, ai suoi difetti e ai suoi pregi, alle sue patologie interiori, ma a me pare indubitabile che la grande protagonista di questo romanzo sia la scrittura, come strumento al pari della parola, capace di decidere dei destini di un uomo e, quindi, come metafora della vita. Una scrittura che si fa letteratura nel caso di Dostoevskij, vale a dire rappresentazione dell’uomo nella sua essenza. Concorda con questa mia interpretazione?

    Vorrei chiarire: io non sono né un filologo, né, per natura, uno studioso. In pratica, la massima parte della mia cosiddetta ricerca documentale è da ricondursi, in questo caso, alla rilettura ossessiva di Dostoevskij. La sensazione, per un verso, di essere entrato in profonda confidenza con lui, e, per un altro, la presunzione di avere una certa consapevolezza della materia ineffabile da cui è animato lo spirito di una fanciulla in crescita mi hanno spinto verso l’azzardo di non ingannare la verità biografica di Dostoevskij e della Snitkina (la mia Netočka!), cercando però, come ho detto, di recuperare tutti gli spazi dove impiantare le fondamenta di un autentico romanzo di formazione di cui Anja è sicuramente il fulcro. In questo contesto Fëdor Michajlovič appare sulle prime come una figura già fortemente strutturata, sennonché l’impatto con la più fragrante giovinezza (Anja) e col nuovo (la stenografia) lo porteranno a una insospettabile dilatazione del suo universo creativo. Ma è certo vero che il terreno in cui tutto si compie (la nascita di un doppio amore, nonché la sfida mortale col diavolo incarnato) è la scrittura stessa, messa a fuoco attraverso l’epifania di un’opera ( Il giocatore) per cui tutto avviene a vista: correzioni, ripensamenti, e slanci ispirativi.

    A proposito di scrittura devo dire che ho molto apprezzato il tono, vorrei dire la levità della narrazione, in un romanzo che pur si sviluppa in centinaia di pagine, il che dimostra grande frequentazione con la lettura e soprattutto una non usuale dimestichezza con la parola. Potrebbe ritenersi che sia scontato visto il suo essere uomo di teatro, eppure sono convinto che la fatica della composizione teatrale sia diversa dalla redazione di un romanzo. Esiste questa differenza e in che cosa consiste?

    La stesura di un testo drammaturgico pretende una quantità di materia narrativa semplicemente allusa che uno sviluppo romanzesco ha modo di colmare o di tradurre in altro, come ad esempio il non detto, o il pensiero taciturno che a malapena affiora alla luce della coscienza. Ma pure il senso stesso del paesaggio, che in un romanzo può essere reso palpabile mercé una costellazione di dettagli i messi a contorno delle parole pronunciate (i costumi, gli odori, i sapori dei cibi e delle bevande, ecc.). La pagina di un copione, per contro, ha i suoi riscatti altrove. Innanzitutto, nel poter vivere concretamente in uno spazio comunitario, vis à vis con chi ne partecipa. Il che comporta il rischio di una resa infausta, ma pure la possibilità di raggiungere gradi di eccellenza grazie al merito dei suoi interpreti.

    Nel caso di Anja ritengo di aver tessuto una prosa specifica che mi sarà difficile usare altrove. Una prosa che, anche grazie all’uso del tempo presente, ha come scopo quello di rendere il lettore convinto di trovarsi esattamente nel dove e nel quando della vicenda narrata.

    Un’ultima domanda riguarda Angelo Maria Ripellino, poeta, traduttore, critico letterario e teatrale che è stato da lei studiato per la redazione della sua tesi di laurea. Così come a Dostoevskij è stata attribuita la frase "siamo tutti usciti da Il Cappotto di Gogol’, c’è una generazione di slavisti, di studiosi, più in generale di intellettuali che può definirsi uscita" da libri come Il trucco e l’anima o da Praga magica o dalla produzione poetica di Ripellino. Lei crede di poter essere annoverato tra questi seguaci di una delle figure più importanti della cultura italiana della seconda metà del Novecento?

    Io, di Ripellino, sono un seguace tardivo, tanto che, chiedendo di fare la mia tesi di laurea su di lui, ho tentato di porre rimedio a un incontro dilazionato e mai avvenuto.

    Ripellino, infatti, insegnava nella mia facoltà quando io la frequentavo, ma la sua materia, Storia della Letteratura Ceca, non era nel mio piano di studi, motivo per cui mi ero ripromesso di andare a seguire le sue lezioni solo per la passione nata leggendo i suoi libri e, settimanalmente, le sue recensioni teatrali su «L’Espresso». Purtroppo, a furia di rinviare, ho perso il tempo e l’occasione. Essermi poi dedicato alla sua opera è stato, perciò, quasi un atto redentivo a cui debbo l’amore mai diminuito per poeti la cui conoscenza rimanda esclusivamente a lui. Primo fra tutti, Holan.

    Confesso di aver pure faticato a liberarmi di un modo di scrivere da cui ero stato prepotentemente contagiato. In particolare, dal suono barocco della sua lingua multipla, folta di neologismi e capace di accogliere infiniti idiomi.

    I suoi libri mi attorniano sempre. Non riesco ormai più a scansarli dalla mia scrivania, come se fossero divenuti, per me, dei numi benedicenti.


    [1] Giuseppe Manfridi, Anja, la segretaria di Dostoevskij , Roma, La Lepre Edizioni, 2019, pp. 604.

    Carla Muschio

    SLIDING DOORS PER LA MITE DI DOSTOEVSKIJ

    Racconto fantastico

    Антропологическое страноведение

    Тому Эпстайну

    Человек граничит с морем,

    Он — чужая всем страна,

    В нем кочуют реки, горы,

    Ропщут племена,

    В нем таятся руды, звери,

    Тлеют города,

    Но когда он смотрит в точку —

    Тонет, тонет навсегда.

    Человек граничит с морем,

    Но не весь и не всегда, —

    Дрогнет ум, потоп начнется,

    Хлынет темная вода.

    Geografia antropologica

    a Tom Epštejn

    L’uomo confina con il mare,

    Per tutti è una terra straniera,

    Dentro di lui migrano fiumi e montagne,

    Rumoreggiano tribù,

    Dentro di lui si celano minerali e belve,

    Covano città sotto la cenere,

    Ma quando fissa il vuoto,

    Affonda, affonda per sempre.

    L’uomo confina con il mare,

    Ma non del tutto e non sempre:

    La mente vacillerà, comincerà il diluvio,

    Si riverserà a fiotti l’acqua scura.

    Elena Schwarz, 2000

    (traduzione di Giulia Gigante)

    Capitolo primo

    I Chi siamo io e lui

    Non ho capito bene dove mi trovo. Oggi è stato un giorno così lungo che mi sembra un anno, o un sogno che non riesce a finire. Sono successe tante cose e io non so se sono troppo stanca o troppo sveglia. È notte. Poco fa un signore mi ha invitata a tornare alla mia stanza in albergo, tanto ormai fino a domani non c’è più nulla da fare. Mi pare che sia il padrone di questo posto, il responsabile delle pompe funebri. Un uomo gentile, con i baffi. Ha un’aria tanto solenne ma occhi buoni. Io è dagli occhi che capisco la gente. Tranne mio marito, con lui mi sono sbagliata in pieno. Ecco, l’uomo dei baffi ha cercato di dirmi qualcosa, di farmi alzare, almeno questo l’ho capito, anche se in francese so solo dire grazie, buongiorno e buonasera. Io gli ho fatto capire, l’ho detto in russo e lui mi ascoltava attento, che non potevo lasciare qui mio marito così, in terra straniera, solo nella notte, incapace di difendersi. Già, difendersi da cosa? Era prima che avrebbe dovuto difendersi e difendere me, sua moglie. Ormai è morto ma io non posso staccarmi da lui. Almeno stasera starò qui a vegliarlo. L’uomo coi baffi mi ha chiamata nel suo ufficio, mi ha fatto bere una tazza di caffelatte con un panino. Beh, sono riuscita a mandarlo giù e lui mi guardava con uno sguardo dolce. Poi mi ha detto e fatto segno che lui se ne andava e mi lasciava qui da sola, se proprio volevo. Ed eccomi qui. Ho un po’ di paura a restare tutta sola in questo posto. Speriamo che non succeda niente fino a domattina.

    Sono tornata nella stanza dove giace mio marito. Forse dovrei dire il mio ex marito, perché ora sono vedova, una donna sola. Se è per questo sola sono sempre stata, anche nel matrimonio. Eppure quando guardo il viso di questo corpo steso sulla tavola mi fa tenerezza, una grande tenerezza e mi verrebbe voglia di abbracciarlo, di baciare le sue labbra con amore, da moglie, fino ad ottenere risposta dalla sua bocca.

    Sono stata io a scostare il lenzuolo per lasciare visibile la faccia. Domani o dopodomani, non ho capito, ci sarà il funerale e poi non lo vedrò più questo viso. Non sapevo che mi fosse così caro. L’ho odiato tanto, ne ho avuto tanta paura, ho persino cercato di morire io pur di sottrarmi al suo potere malefico, e invece eccomi qua, a vegliarlo con commozione, con affetto.

    Ma voi non sapete chi siamo noi, ve lo devo raccontare. Scusate se sono così confusa, ma ho solo diciassette anni. Le mie coetanee, quelle più fortunate di me, sono ancora a scuola, in collegio, a studiare le lezioni, mentre io sono qui a vegliare un marito morto. Una vedova di diciassette anni. Cosa volete pretendere? A volte mi verrebbe voglia di giocare ancora alle bambole.

    Ma devo raccontare come ci siamo conosciuti. Era l’anno scorso. Lui ha… dovrei dire aveva! Non riesco a credere che sia morto e uso ancora i verbi al presente. Beh, lui aveva un banco dei pegni a Pietroburgo, in centro. Qualcuno me l’aveva consigliato dopo che ero stata da Moser per impegnare una collanina d’argento e quello mi aveva riso in faccia. Mi ero offesa ed ero corsa fuori dal negozio senza lasciarlo finire di parlare.

    L’indomani ero andata da lui, da mio marito, con la stessa collanina, per vedere se avevo maggior fortuna. I soldi mi servivano subito, più del valore di una collanina, ma per capire se potevo fidarmi di lui incominciai da quella. Lui prese in mano il mio gioiellino, lo guardò, poi guardò me, senza parlare. I suoi occhi nei miei mi imbarazzavano. Fu lui il primo ad abbassarli. Riguardò la collana, disse solo: – Tre, – e io feci cenno di sì, come dire, tre rubli sono il suo prezzo, va bene, accetto.

    Mi pagò e io mi affrettai ad andarmene.

    Andai subito alla redazione di un quotidiano di Pietroburgo per depositare un annuncio da pubblicare l’indomani. Sedicenne, di buon carattere, offresi come istitutrice residenziale per uno o più bambini. Disposta a trasferirsi in campagna. Stipendio da concordare. Mi costò un intero rublo, un terzo del prezzo della mia collanina. Quel rublo ne valeva venti, se penso che la collana era uno dei pochi regali che avevo ricevuto da mio padre. Ma il ricordo di mio padre mi resta anche senza la collanina, pensai. Anche se non riesco a rassegnarmi, devo ricordare che sono una povera orfana e devo trovare una via d’uscita.

    Eh, sì, non potevo continuare a vivere con le mie due zie, me l’avevano detto chiaro e tondo. Non sei più una bambina, cara mia. Ti abbiamo accolta qui per pietà quando hai perso i genitori ma non ti possiamo sfamare per sempre. Hai sedici anni. Trovati un lavoro e portaci a casa uno stipendio, oppure esci di casa e va’ dove ti pare. A noi che importa?

    Parole dure, che mi lasciarono di sasso. Persi quel giorno quel poco che mi restava dell’infanzia. Incominciai a pensare a un’occupazione. Forse ci sarebbe stata la fabbrica, ma mi sembrava troppo triste. Io che quando andavo a scuola, prima di perdere i genitori, dicevo che da grande volevo fare la poetessa oppure la ballerina. Erano tre anni che facevo la sguattera a casa delle zie e loro mi rinfacciavano anche il pezzo di zucchero che mi davano per il tè. Bisognava proprio andarsene. Fu così che mi venne l’idea di andare a servizio presso una famiglia come istitutrice. Anche questo è un lavoro umiliante, ma almeno mangi a sazietà e i bambini ti vogliono bene.

    Passarono i giorni, nessuno rispose al mio annuncio. Pensai di riprovare presso un altro giornale. Ormai era diventata una faccenda urgente perché le zie avevano tirato fuori un’altra proposta: il matrimonio. Era venuta da noi la vecchia Arina, una donna intraprendente che faceva da sensale, e aveva parlottato con le zie, senza di me. Quelle la sera mi fanno: Sai, il droghiere del negozio all’angolo? Tra una settimana viene da noi a bere il tè.

    E allora? risposi io.

    È per te che viene, stupida. È rimasto vedovo, magari cerca di risistemarsi.

    Lo conoscevo quel droghiere. Era un uomo simpatico, grassottello, che scherzava sempre con i clienti, ma come marito non me lo figuravo proprio. L’idea che potesse desiderarmi come moglie mi mise una gran paura. Da quando seppi che sarebbe venuto da noi a bere il tè presi a evitare di passare davanti alla porta del suo negozio. E se avesse fatto la proposta di matrimonio, cosa potevo rispondergli? Ecco perché corsi subito a pubblicare il mio secondo annuncio.

    Avevo due rubli avanzati dalla vendita della catenina, ma non ero sicura che bastassero perché volevo far pubblicare l’annuncio per tre giorni consecutivi. Perciò prima di andare all’ufficio del giornale tornai al banco dei pegni di mio marito. Del mio ex marito!

    Lui mi riconobbe. Ah, siete tornata. Cos’avete oggi da propormi? Io tirai fuori una pelliccia che era stata di mia madre. Lui la prese in mano con cautela, come se gli facesse schifo. La rigirò, la guardò dal dritto e dal rovescio, poi la appoggiò sul tavolo e fece segno di no con la testa.

    Mentre l’usuraio esaminava la pelliccia, io esaminai lui. Era un uomo sulla quarantina, alto, snello, ben fatto. I capelli erano biondi e assolutamente diritti, sottili. Alle tempie c’era già un inizio di calvizie, segno di vecchiaia, mentre il volto per il resto era fresco. Pallido, è vero, ma chi non è pallido a Pietroburgo? Non era un viso sgradevole, se non per le labbra un po’ troppo sottili. Mi pareva un segno di cattiveria, di tirchieria del sangue che non voleva rigonfiare il suo sorriso.

    Quando lui fece segno di no con la testa, come dire che non mi avrebbe dato un soldo, io raccolsi la pelliccia e me ne andai senza dire una parola, silenziosa come lui. Già fuori dalla porta, lo guardai: l’usuraio sorrideva.

    Mi sentivo offesa per il suo rifiuto, eppure stranamente attratta da quell’uomo e quel negozio. Andai alla redazione del giornale: i soldi bastarono appena appena per il mio annuncio. Tornai a casa, dove mi aspettavano le fatiche della giornata. E dovevo anche affrettarmi per recuperare le due ore passate fuori. Mentre lavoravo, mi tornavano in mente i suoi tratti e il sorriso di quelle labbra sottili. Mi era rimasto in mente.

    L’indomani cercai una scusa per tornare al banco dei pegni. Guardando nella scatola dei miei poveri tesori, miseri oggetti che avevo portato con

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