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Filmacci: 100 film italiani da evitare dal 2000 a oggi
Filmacci: 100 film italiani da evitare dal 2000 a oggi
Filmacci: 100 film italiani da evitare dal 2000 a oggi
E-book365 pagine4 ore

Filmacci: 100 film italiani da evitare dal 2000 a oggi

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Info su questo ebook

Un dizionario nato con un preciso intento: tracciare le coordinate, attraverso ferocissime e divertentissime recensioni, su tutto quello che di peggio ci ha regalato il cinema italiano negli ultimi venti anni.

Filippo Morelli e Cesare Paris, da malati di cinema quali sono, vivisezionano 100 pellicole e, grazie ad un'analisi sottile e spietata, ne demoliscono le basi. E prendono di mira non solo i film più brutti, mal recitati e peggio girati, ma anche i finti capolavori, le cantonate autoriali e le opere che vorrebbero essere cult ma si rivelano pastrocchi inenarrabili.

Un'opera diretta e senza compromessi per ridere di tutte quelle pellicole che potrebbero essere classificate alla voce "la grande bruttezza".

LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2023
ISBN9788869348884
Filmacci: 100 film italiani da evitare dal 2000 a oggi

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    Una serie di commenti, alcuni condivisibili, ma del tutto arbitrari su 100 film italiani. Nessuna analisi o approfondimento dei film ma solo impressioni in liberta con immancabile battuta finale (meglio se in dialetto). Scontato e brutto. Una mera operazione commerciale.

Anteprima del libro

Filmacci - Filippo Morelli

Filippo Morelli e Cesare Paris

Filmacci

Cento film italiani da evitare dal 2000 a oggi

Cinema

© Bibliotheka Edizioni

Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

tel: (+39) 06. 4543 2424

info@bibliotheka.it

www.bibliotheka.it

I edizione, novembre 2023

e-Isbn 9788869348884

Tutti i diritti riservati.

Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

A Federico, gioia e dolore del mio cuore A Giulio, splendida estate della mia vita

Cesare

Alla mia adorata Camilla, che quando leggerà questo libro scoprirà cosa pensava esattamente il suo papà del primo film visto al cinema con lei

Filippo

Non vado più a vedere i film con Maria Grazia Cucinotta, perché oltre al biglietto mi tocca pagare l’Ici, la tassa sugli immobili: lei ci prova pure, a recitare, è il suo viso che si rifiuta.

(Roberto D’Agostino)

Per me, il cattivo gusto è l’essenza dell’intrattenimento. Se qualcuno vomita guardando uno dei miei film, è come ottenere una standing ovation. Ma bisogna ricordare che esiste il buon cattivo gusto e il cattivo cattivo gusto.

(John Waters)

Prefazione

La mejo anima delli filmacci nostra

di Boris Sollazzo

Confesso, provo un’invidia profonda per Cesare Paris e Filippo Morelli. Molti anni fa avevo messo in cantiere un temerario e temibile Dizionario dei film brutti, con una quarta di copertina piena di insulti di registi di un certo livello (sia gli autori che le contumelie) dirette all’autore. Poi il direttore editoriale della casa editrice che mi propose la missione suicida salpò per altri lidi e tutto sfumò. Con Cesare ne abbiamo parlato dopo l’entusiasmo provato per il suo La risata amara, opera di altissimo livello sull’amarissima coda finale della commedia all’italiana, quegli anni brutti, sporchi e cattivi in cui tutti gli autori più importanti di quell’epoca offrirono film cupi, a tratti distopici, di sicuro profetici, terribilmente iperrealisti.

Con Filmacci Paris e Morelli hanno, da outsider liberi dai legacci di una professione cinematografica quotidiana, costruito un percorso di onestà intellettuale e esegetica di rara lucidità, gustosa ironia, sana franchezza. Tutte doti che mancano ai recensori italiani – quasi tutti – attanagliati da affetti di lungo corso, consuetudini con cineasti e attori, timori reverenziali e altre relazioni pericolose che ne ammorbidiscono giudizi e parole. Anche perché, va detto, la critica cinematografica non ha più la centralità di un tempo, non è più un propulsore di dibattiti, polemiche, riflessioni, di costruzione di piattaforme culturali (pensate a Duel per non andare troppo indietro nel tempo) e non di rado, anche in Italia, serbatoio di futuri registi.

Filmacci, però, ha un altro grande merito, che si intuisce sin dal titolo. La capacità di non prendersi troppo sul serio, lavorando con enorme serietà su ogni singola opera e la sua analisi. L’ironia alla base dell’operazione si rispecchia in ogni tappa del libro, decisa a terremotare l’attuale consociativismo critica-registi, rompendo le schiere di un buonismo diffuso (o a volte, cosa peggiore, di una neutralità innocua, fatta di racconti di trame e spoiler e interviste sdraiate) per scuotere le fondamenta fragili di un movimento cinematografico ormai dominato dall’indolenza emotiva, intellettuale e anche fisica.

Non si fanno problemi a dire le cose come stanno i due autori, in modo da farsi capire ma senza blandire un linguaggio sciatto, riescono a trovare una terza via tra l’accademia insopportabile di anziani soloni in servizio permanente effettivo e il vento nuovo della critica social, in cui c’è una vuota polarizzazione, un’ossessione per il giudizio ultimativo, la volontà di urlare al capolavoro o dedicarsi all’insulto tout court, appiattendo ogni tipo di sforzo di visione strutturata del fenomeno creativo, produttivo, industriale collettivo.

Filmacci deve diventare un appuntamento annuale, deve avere più spin-off – Seriacce, lo attendo con ansia – dovrebbe diventare un nuovo modo di raccontare e giudicare l’intrattenimento cinematografico: popolare, innovativo e profondo (un po’, per qualche nostalgico come me, alla Paese Sera dei bei tempi).

Bravi Cesare e Filippo, ma non smetterò di invidiarvi, sappiatelo. Perché il sottoscritto lo chiamavano quello cattivo, il matto, e si godeva solitario gli insulti dei grandi protagonisti del ‘900, dei Mutandari della Settima Arte.

Ora, invece, ci saranno due nuovi sceriffi della cinesegesi di qualità, dell’ironia cinefila e una nuova categoria critica: i Filmacci, appunto.

E i criticacci, ovviamente.

Introduzione

Dall’inizio del nuovo millennio a oggi, il cinema italiano ha partorito una tale infinità di abomini su celluloide che sarebbe servito un doppio Mereghetti – calcolando la lunghezza media di ogni recensione di questo volume – per ficcarceli dentro tutti.

Qui ne trovate 100. Una parte cospicua, di certo non esaustiva, della peggio gioventù della nostra settima arte. Sono veramente i più brutti? Scorrendo i titoli penserete che abbiamo tralasciato delle perle che non dovevano assolutamente essere tralasciate?

Lasciamo a voi la parola definitiva, così come lasciamo a voi il piacere di controbattere alle nostre affermazioni, di riversare su di noi il vostro odio se foste in disaccordo o di aspettarci sotto casa per parlarne a quattr’occhi.

Ma sappiate una cosa: tutto quello che troverete scritto qui è frutto di una disamina attentissima, di una cognizione di causa che, forse, potrà salvarci dai vostri strali e dalla vostre frecciate.

Chi ha scritto cosa? Se all’inizio avevamo proposto di firmare le recensioni, l’editore ci ha consigliato di lasciare un velo di mistero. E, calcolando che chi ha deciso di pubblicare questo libro non ha mai messo bocca su quanto scritto e ci ha lasciato totale libertà di pensiero e parola, non abbiamo potuto far altro che accondiscendere ai suoi voleri.

Quindi se chiedete lumi e volete sapere chi ha stroncato Albakiara o chi ha fatto a pezzi Cemento armato fateci uno squillo in privato e vi illumineremo.

Cento film dicevamo. Non solo pellicole trash o imbarazzanti pastrocchi, non solo scult e filmacci girati con la mano sinistra, ma anche opere molto spesso incensate dalla critica (Il giovane favoloso di Martone) o autori idolatrati dal pubblico (Muccino e Özpetek) ma che, a un esame più attento e a una lettura più analitica, rivelano crepe strutturali evidenti e profondissime.

Scorgendo i nomi dei registi ne troverete qualcuno che ricorre con maggiore insistenza. Ad esempio Dario Argento con cinque titoli (Il cartaio, Dracula 3D, Non ho sonno, Occhiali neri e La terza madre) e i fratelli Vanzina con quattro (Lockdown all’italiana, Olè, Il ritorno del monnezza e Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata). Come mai così tanti? Perché, nel caso di Argento, non possiamo perdonare al papà di Profondo rosso il tradimento che ormai da una ventina di anni sta perpetrando nei confronti di chi, almeno fino alla metà degli anni ’80, lo riteneva l’unico autore capace di sovvertire e innovare il cinema horror/thriller nel nostro Paese. Oggi Argento, purtroppo, è diventato un mestierante e i suoi film, oltre a una rabbia sorda, fanno tenerezza per quanto sono brutti. Mentre, per quanto riguarda i Vanzina Bros., perché non sono più riusciti ad inquadrare, fotografandolo con sincronico tempismo, il volto cialtrone di un’Italia in continuo cambiamento (ad esempio il sublime Le finte bionde), regalandoci opere tirate vie, sempre più al risparmio, sempre meno aderenti alla realtà di questo stivale consunto e lacero.

Il nostro è stato un viaggio trasversale e ha cercato di non tralasciare nulla, per quanto possibile: film che non sono stati visti nemmeno da chi li ha girati (In the market, Grotto, Prigionieri di un incubo, Cobra non è) accanto a cinepanettoni in totale disarmo (In vacanza su Marte); esordi di autori oggi considerati maestri ma che al tempo della loro uscita vennero giustamente lapidati (Melissa P. di Guadagnino) a braccetto con stanche parabole comiche di registi che hanno sempre avuto poco da dire e continuano a dirlo senza vergogna (Pieraccioni e Siani); fenomeni social da baraccone che hanno accumulato fortune immense lucrando sulla candida ingenuità dei nostri figli (i Me contro Te) insieme a registi che definire grossolani gli si fa un complimento (Claudio Fragasso e Stefano Calvagna).

E, ancora, pellicole indipendenti e lacrima movie, horror senza capo né coda e i reali orrori di Jerry Calà, le grottesche maschere divenute – senza motivo – star del tubo catodico e spinte a forza nel grande schermo (Kledi Kadiu in Passo a due, Daniele Interrante e Costantino Vitagliano in Troppo belli) e le pellicole che potevano avere quel qualcosa in più ma che hanno dimostrato di avere qualcosa in meno (Yara di Marco Tullio Giordana; War – La guerra desiderata di Gianni Zanasi).

Bene, crediamo non ci sia molto altro da aggiungere e sia tempo di lasciarvi immergere in questo oceano di bruttezza cinematografica.

Augurandoci che questo dizionario aumenti nel corso degli anni, passando da cento a millemila film, non ci resta che augurarvi buona lettura. Con la speranza che quello che leggerete vi divertirà allo stesso modo in cui ha divertito noi a scriverlo.

State senza pensieri e un abbraccio a tutti.

Filippo Morelli e Cesare Paris

I film

0-9

6 giorni sulla Terra

di Varo Venturi (2011)

Il professor Davide Piso (Massimo Poggio), esperto in idiozie, compie delle sedute di ipnosi regressiva su persone che dichiarano di essere state rapite dagli alieni (esseri che nel film si manifestano sottoforma di animazioni al computer peggiori dei vecchi full motion video visti sulla prima PlayStation) per liberarle dalla presenza parassitaria della coscienza extraterrestre che alberga nella loro anima. Dopo aver fatto la conoscenza di Saturnia (Laura Glavan), una ragazza convinta di essere stata posseduta da una creatura di un altro pianeta, il dottore si troverà a doversi confrontare con il cattivissimo Hexabor di Ur, un’entità aliena decisa a prendersi in pianta stabile l’anima della ragazza e probabilmente a fare anche qualche casino a livello mondiale che però boh, vai a capire. Con l’aiuto dei suoi collaboratori e di un esorcista, padre Trismegisto (interpretato dal regista Varo Venturi), uno che sembra Corrado Guzzanti che imita Carmelo Bene, il professore si ritroverà invischiato in una caccia all’uomo che coinvolge i servizi segreti francesi, i massoni, la Polizia e la famiglia satanista di Saturnia, i loschi – come riporta la pagina Wikipedia dedicata al film – Gotha-Varano, i quali (…) proclamano di discendere dalle più altolocate stirpi regnanti sin dalla notte dei tempi includendo nel loro lignaggio faraoni egizi, cesari, imperatori francesi e tedeschi. I Gotha-Varano sono anche dediti all’esoterismo e agiscono in collusione con sette massoniche, nobiltà europea, ordini religiosi operanti nei più alti livelli del Vaticano, servizi segreti e forze militari, tutti accomunati dallo scopo di favorire e promuovere con ogni mezzo il ‘grande progetto’ dell’alieno.

I film fatti da quelli (conosciuti col nome in codice Red Ronnie) che credono veramente ad alieni, UFO, creature extra-dimensionali, rettiliani, nuovi ordini mondiali e cose pazze varie li riconosci subito: più che interessati a raccontare una bella storia avvincente, o almeno costruita come-cristo-comanda, sono concentrati quasi del tutto sull’esporre dettagliatamente le loro teorie buffe in ammucchiate di eventi e descrizioni di minchiate che, nel 99% dei casi, finiscono col rendere del tutto incomprensibile la trama già dopo un quarto d’ora, in favore di lezioni contorte di pseudoscienza messe in scena col tono di quelli che stanno risvegliando coscienze e 6 giorni sulla Terra, di lezioni contorte, è pieno fino all’orlo.

Si va dai codici a barre dei libri (sul Giro d’Italia) che nascondono numeri misteriosi (il 666, roba che neanche più i bambini delle medie che si sentono satanisti dopo aver ascoltato i Def Leppard sulle musicassette dei genitori) ai Men in Black che – ovviamente – esistono sul serio e cancellano la memoria delle persone dopo che hanno visto troppo, e si continua con frasi come io so come eliminare l’ossidazione dei neurotrasmettitori cerebrali (fenomeno conosciuto come rincoglionimento), fino ad arrivare all’imperatore delle stronzate pseudoscientifiche da complottari, sua maestà IL MICROCHIP NEL CERVELLO, roba che ormai non fa più ridere neanche quando viene usato in maniera ironica.

Come consulente scientifico viene accreditato Corrado Malanga, uno scrittore ufologo che se lo cerchi su Google appare insieme alle cose di Massimo Mazzucco. Che poi, se uno ci pensa in termini pratici, fa ridere con le mani sulla panza che per una storia del genere, di gente che si riprende la sua anima strappandola agli alieni durante un rave ai Castelli Romani in cui i DJ devono produrre – testualmente – l’antifrequenza 666, si siano avvalsi della collaborazione di qualcuno in grado di controllare che tutto fosse corretto, come se nei cartoni con Rainbow Dash ci fosse il consulente messo a verificare che gli arcobaleni cacati dagli unicorni siano riprodotti con la giusta successione di colori.

Tutto questo contribuisce a creare un tale casino, a livello narrativo, che sembra di assistere – più che a un film – a quei momenti, nei videogiochi open world, in cui vai a innescare accidentalmente una missione secondaria mentre stai svolgendo un’altra missione secondaria in cui ti sei trovato per sbaglio mentre eri convinto di proseguire sul cammino della main quest, e quindi ecco che ti ritrovi con una chiave dorata in mano davanti ad un cancello d’argento che ti impedisce di raggiungere un rubino enorme che fluttua a un metro da terra e tu, completamente smarrito, ti chiedi ok, che cazzo stavo facendo?.

A

AlbaKiara

di Stefano Salvati (2008)

L’ispettore Castri (Raz Degan) è un poliziotto corrotto che sta organizzando il furto di ben duecento chili di cocaina sequestrati dai suoi colleghi e destinati a essere distrutti. Quando, durante il colpo, non tutto andrà secondo i piani, la droga finirà per puro caso nelle mani della giovanissima Chiara, una ragazza stupida come la merda, volgarissima, zoccola a un millimetro dalla prostituzione vera e propria e priva di educazione, con la quale saremo chiamati ad empatizzare. La dinamica con cui Chiara entra in possesso della montagna di stupefacenti è particolarmente interessante e per niente campata per aria: suo zio Baldo (Alessandro Haber), infatti, gestisce – seguiteci – un piccolo negozio di alimentari e deposita parte della merce nella cantina di casa sua (alla quale ha accesso anche Chiara) anziché nel magazzino dell’attività commerciale, per motivi del tutto imperscrutabili. Un giorno, però, l’uomo si accorge che dalle scatole dello zucchero a velo che sono esposte sugli scaffali manca del prodotto, sottratto da un buco nelle confezioni. Confrontandosi con la nipote, scopre che a forare le scatole per rubare lo zucchero è stata proprio lei (sì, beh, avrete già capito dove si vuole andare a parare e sarete già con entrambe le mani sulla faccia). Ovvio che quando un giovane si abitua a rubare zucchero a velo dalla merce che lo zio dovrebbe tenere in negozio, poi è difficilissimo smettere, come è noto ai milioni di giovani che in tutto il mondo sono vittime di questa schiavitù, ed è naturale, quindi, che quando lo zio e gli altri complici dell’ispettore Castri depositeranno i 200 chilogrammi di cocaina proprio in quella cantina e proprio nelle confezioni dello zucchero a velo, Chiara andrà a metterci le mani e succederà il patatrac. Non fa una piega, per niente macchinoso!

Diretto da Stefano Salvati, che dopo questo abominio lovecraftiano concluderà la sua carriera cinematografica (roba da matti!) e scritto a quattro mani dallo stesso regista e dal giallista Carlo Lucarelli (che invece ancora scrive, segno che un sacco di gente non legge i titoli di testa dei film o pensa sempre a benevole omonimie), AlbaKiara è ciò che un qualche programma del cazzo Mediaset (di quelli con l’inviato circondato da subumani che guardano il monitor di riferimento e salutano) crede sia la vita maledetta dei giovani d’oggi, ovvero tantissima droga, un diluvio di cazzi presi in ogni orifizio (anche se il film è particolarmente fissato coi pompini) e tantissime canzoni di Vasco Rossi, il cui figlio Davide è uno dei protagonisti del film. A rendere tutto ancora più giovanissimo di così, poi, ci pensa lo stile del film, tutto pieno di colori pazzi pazzi, scrittine e grafiche matte matte sui fotogrammi, schermate del computer che fanno rumori da computer delle fantasie di chi non ha mai visto un computer e invenzioni fanta-sballosissime, come gli ologrammi in grado di ballare nelle piste delle discoteche.

Il cast è in gran parte composto da scappati di casa e da un terzetto di attori noti che cercano di condensare tutti i loro tic recitativi in ogni inquadratura in cui sono presenti, come se avessero paura di non essere riconosciuti, e così ecco un Alessandro Haber che alessandrohabera di brutto (si mangia le parole dette a raffica con accento bolognese), un Ivano Marescotti che perde la pazienza ed esclama porca puttanazza! e un Raz Degan che sembra dover terminare ogni battuta con un bel Sono fatti miei.

Come se l’intreccio non fosse già sufficientemente contorto e il contesto supergiovane-troiesco non abbastanza ridicolo, ecco che arrivano a dare un bel contributo i continui cambi di registro, che piazzano scene profondamente drammatiche (come quella in cui lo zio Baldo parla dei gravissimi problemi del figlio) in mezzo a un mucchio di stronzate semi-ironiche per arrivare a sequenze similissime a quelle di Hostel, così, per non farci mancare nulla. A dare il colpo di grazia ci pensa una scena mid-credits che, di fatto, rovina un finale che, se fosse stato lasciato così com’era (interpretabile anche come un provvidenziale cambio di fronte), sarebbe stata senza ombra di dubbio la scena migliore del film e in assoluto un discreto mic-drop, ma si sa, i giocatori incapaci non sanno riconoscere neanche quando hanno vinto ed è arrivato il momento di posare le carte, alzarsi dal tavolo, salutare e andarsene.

Che poi sì, d’accordo, è un lavoro, devono tutti campare e bla bla bla, i soliti discorsi (anche in parte condivisibili) sentiti un milione di volte, ma nonostante tutto ci chiediamo come molti – sia del cast che della troupe – abbiano trovato il coraggio di continuare a mostrare il volto in pubblico dopo una roba del genere.

Alex l’ariete

di Damiano Damiani (2000)

Spiegare perché un ottimo regista come Damiano Damiani abbia accettato di girare questo immortale capolavoro trash resta uno dei misteri più insondabili dell’universo. Cosa abbia spinto l’autore di Io ho paura (uno dei film più cupi e feroci sulla strategia della tensione), de Il giorno della civetta (splendida trasposizione da Sciascia), di Amityville Possession (unica pellicola dello sterminato franchise sulla casa maledetta a poter essere considerata come tale) e di Pizza Connection (uno dei più sottovalutati affreschi mafiosi del nostro cinema) a rovinarsi la reputazione con un simile orrore su celluloide rasenta l’illogicità.

Proviamo a vedere cosa possa essere successo.

Vittorio Cecchi Gori alza la cornetta e chiama Damiani: Ciao caro, visto che da un po’ di tempo a questa parte non sei uno dei registi più richiesti sul mercato e la tua carriera ha subìto una flessione, voglio darti una grande chance! Che ne diresti di un bel poliziesco? Ascoltami bene e dammi SUBBBITO una risposta. Sei seduto? Siediti. Alberto Tomba nella parte di un carabiniere deve salvare Michelle Hunziker dalle grinfie di alcuni cattivoni che la vogliono accoppare. Inseguimenti, sparatorie, montaggio sincopato, scene action al cardiopalma. Lieto fine e l’amore che trionfa. Ma ci pensi? Mettere insieme un grande campione dello sci, amato da tutti gli italiani, e la soubrette più bona dei palinsesti televisivi! Vedrai che facciamo il botto! Riempiremo le sale, non sapremo a chi dare i resti….

Beh, potrebbe funzionare. Certo i protagonisti… non so… come dire… non hanno nessuna esperienza. Non sarebbe meglio scegliere qualcun altro?

No! A chi vuoi che interessi se non sanno recitare. Qui si tratta di mettere in piedi un’operazione commercialmente vincente. Poi penserai tu a ravvivare il tutto con la tua sapiente regia. Stai sereno: faremo i soldi con la pala.

Vabbè… se lo dici te….

Ecco, supponiamo possa essere andata così. Damiani si fa ingolosire dal vil denaro e Cecchi Gori parte lancia in resta dando avvio al progetto. Purtroppo per loro la ciambella non è riuscita col buco e il risultato è talmente sconfortante da restare imperituro negli annali del cinema spazzatura.

Quello che sappiamo è che Alex l’ariete doveva essere la puntata pilota di una serie che, visto il naufragio finale, si è saggiamente deciso di non far andare in porto.

Partiamo dalla trama, un pizzino scritto dal mio elettrauto di fiducia: sorriso Durbans, tette di marmo, culo scolpito e capello biondo al vento, la Hunziker interpreta una prostituta dell’Est, testimone oculare di un omicidio. Per questo viene braccata da alcuni killer al soldo del Grande maiale, laido personaggio che adora farsi sollazzare il piripicchio da chi fa il mestiere più antico del mondo per poi seviziarlo fino alla morte. Antavleva (questo l’impronunciabile nome della pulzella in pericolo) viene affidata al granitico Alex (Tomba la bomba), carabiniere poco disciplinato, che dovrà proteggerla fra mille peripezie e portarla in salvo (dove, non si capisce). Ovvio che tra i due sboccerà l’amore, così come è ovvio che i cattivoni faranno una brutta fine. W l’Arma dei Carabinieri, W le tette e il culo della Hunziker e W il cinema girato coi piedi.

Cosa dire di siffatta opera? La mano di Damiani è irriconoscibile, visto che la regia ha il ritmo di una soap brasiliana. Il montaggio è bipolare, alternato come è da pause insensate e stacchi schizoidi; le musiche sono un tormento (una colonna sonora composta da tre temi in croce: uno rock e concitato, penoso, per le scene di azione, uno sbarazzino per le scene che dovrebbero fa’ ride, uno ammuffito per quelle sentimentali); la fotografia è sgranata e fuori fuoco, le scenografie tirate su alla cazzo e mannaggia; le location scelte alla ‘ndo cojo cojo; la sceneggiatura (a firma Dardano Sacchetti) scritta senza criterio. E ci fermiamo qui per quanto riguarda gli aspetti tecnici.

Discorso più ampio merita la recitazione. Raramente ci siamo imbattuti in una scelta di miscasting così allucinante, poche volte nella vita abbiamo assistito a performance così imbarazzanti. Quel che è peggio è che tutti sembrano prendere la cosa molto sul serio, arrivando a punte di ridicolo involontario senza eguali nella storia della settima arte. Inutile parlare di chi si cimenta nei ruoli di contorno: Gabriel Garko che ci lascia subito le penne, Orso Maria Guerrini che sembra chiedersi cosa fi faccio qui, me tapino, Ramona Badescu senza arte né parte. Meglio quindi passare alla coppia protagonista.

Tomba ci regala un’interpretazione che va al di là dell’umana comprensione. Ascoltate le sue linee di dialogo in bolognese ad occhi chiusi: vi sembrerà sentire Bruno Barbieri sussurrare mappazzone. Guardate il suo volto: una maschera inespressiva, priva di sfumature, sussulti facciali, tonalità. Avete presente la scena di Sono fotogenico in cui Pozzetto fa il provino e viene insultato dal fotografo che gli dice fai schifo? Bene, siamo nello stesso fottutissimo campo di gioco.

La Hunziker è una top di gamma a livello estetico e su questo non ci piove. Ma non basta avere ogni attributo al punto giusto per bucare lo schermo. E lei, porella, fa di tutto per dimostrare di essere una campionessa olimpionica di non recitazione. Se i siparietti comici con Tomba sono da mani nei capelli, l’apice si raggiunge nelle scene drammatiche: quando guarda pensierosa in macchina… beh non me ne vorrà la bella Michelle, se affermo che siamo molto lontani dalla Meryl Streep di Kramer vs Kramer.

Tra le scene madri, impossibile non citare quella in cui Tomba, correndo a marcia indietro come un gambero, sfonda una porta-finestra facendosi male sul serio (altro che Actors Studio), lo scambio di battute con Giorgio Gobbi sul risotto con le erbette – Ti piace il risotto alle erbette? Come ha detto, scusi? Il risotto con le ER-BET-TE È il mio piatto PRE-FE-RI-TO – la traversata del porto a nuoto con il braccio crivellato di colpi e l’aggancio al volo dello yacht zeppo di delinquenti armati.

Un film tragicamente comico che, alla fine dei giochi, è riuscito a deragliare anche dal punto di vista economico che produttore e regista si erano prefissati: si vocifera infatti che sia stato uno dei peggiori incassi, se non il peggiore, del nostro cinema.

L’allenatore nel pallone 2

di Sergio Martino (2008)

So che attireremo gli strali di chi difende ad oltranza i film degli anni ’80, rivalutati

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