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Mondo Due
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E-book1.154 pagine15 ore

Mondo Due

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Info su questo ebook

Il cofanetto “Mondo Due”, seconda tappa del viaggio all’esplorazione degli “InfinitiMondi”, contiene la trilogia composta da:

- Il Nuovo Quarto;

- Qilana la Pura;

- Lo Sterminatore di Mondi.

“Mondo Due” può essere letto autonomamente o collegandolo agli eventi descritti in “Mondo Uno”. Ad accomunarlo a questo c’è il Pantheon di Divinità, oltre al fatto di essere a propria volta un fantasy oscuro e tetro, adatto a un pubblico maturo.

Tutti i volumi sono stati rivisti e corretti grazie alle segnalazioni dei lettori e all’opera impareggiabile di altri autori indie amici.

Grazie a tutti e buon divertimento! Per qualsiasi informazione sul piano editoriale venite a trovarmi su andrea-zanottiblogspot
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2015
ISBN9788894099102
Mondo Due

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    Anteprima del libro

    Mondo Due - Andrea Zanotti

    consigliati!

    Libro I – Il Nuovo Quarto.

    Prologo – Le origini dei Quarti.

    "La sala delle cerimonie era gremita. Tutti i maggiorenti del Regno erano presenti per quella che si annunciava come la più grande festa mai indetta nella storia.

    Re Kevlan si alzò in piedi. Il suo volto era provato, ma nessuno vi fece caso.

    La gioia di aver sconfitto l'Astronascente era il sentimento imperante.

    La distruzione di tutto ciò che gli uomini conoscevano era stata troppo vicina perché qualcuno potesse notare lo sguardo torvo del sovrano.

    Era tempo di festeggiare, questa era la convinzione di tutti.

    «Miei sudditi, miei Generali, Evocatori e Invocatori, figli miei, vi ho riuniti per celebrare la nostra vittoria e per comunicarvi i miei voleri.» disse il Re.

    Il brusio nella sala cessò all'istante e i sorrisi nei volti dei potenti del Reame si fecero tirati quando infine si accorsero dell'ombra che appesantiva l'espressione del Sovrano.

    Nessuno, se non i diretti interessati, aveva notato nella formula d’apertura utilizzata dal regnante il mancato riferimento ai Sacerdoti degli Antichi e alle gerarchie ecclesiastiche.

    «Questa guerra è stata di grande giovamento.» sentenziò il monarca accennando ai Principi di alzarsi.

    I suoi quattro figli Malika, Folko, Rebecca e Gustav abbandonarono i rispettivi scranni e salirono i gradini che li separavano dal padre.

    «Figli miei, la decisione che ho preso è irreversibile ed è finalizzata a evitare ogni futuro conflitto. Il Regno non dovrà mai più essere costretto ai patimenti sperimentati in questi lunghi anni.»

    Re Kevlan pareva schiacciato da un peso insostenibile. La sua figura un tempo possente, mostrava ora le crepe di una vecchiaia precoce, frutto delle preoccupazioni più che del trascorrere del tempo. Il mantello rosso rubino gli gravava sulle spalle come un macigno.

    Folko, il maggiore dei figli ed erede designato, fece per andargli incontro, pronto a sostenerlo in questo momento di difficoltà.

    Brusco il Re lo allontanò, ritrovando in quel gesto l’abituale alterigia.

    Il carisma risorto durò solo un istante.

    «Sono ancora in grado di reggermi sulle gambe, figlio.»

    Il giovane, rispettoso, chinò lo sguardo.

    «Il tempo delle riflessioni è giunto al termine. Sento avvicinarsi il momento della morte, della mia liberazione, ma non intendo essere la causa di nuovi spargimenti di sangue.»

    Lo sguardo che lanciò ai figli non lasciava dubbi.

    Tutti sapevano le inclinazioni dei Principi. Tutti conoscevano le fazioni che si muovevano al loro seguito e che erano rimaste sino ad allora nell'ombra a causa della guerra che aveva visto l'esistenza stessa del Regno minacciata dal Mago folle Isyl.

    «Il Regno verrà diviso in Quattro Quarti, la decisione è presa. Ognuno di voi sarà Re, e assieme vi farete carico della protezione dei Quarti. Una fortezza impenetrabile sorgerà ad Askeen per conservare e vigilare sulla prigione di cristallo che intrappola lo Sterminatore di Mondi, Isyl.»

    Le espressioni sui giovani volti dei Principi coprivano l'intero arco delle emozioni: dal disappunto del primogenito Folko, alla gioia della piccola Rebecca, che mai avrebbe sognato di divenire Regina.

    In sala un brusio di approvazione precedette lo scroscio degli applausi.

    Re Kevlan era soddisfatto: tutti i presenti avrebbero tratto giovamento da quella decisione.

    «Padre» fu Folko il primo a reagire, forte dell'essersi visto sottratti i tre quarti del Regno «dividere il Reame rischia di indebolirlo.»

    Le parole furono fagocitate dal chiasso circostante, ma il Re riuscì a percepirle e la sua espressione tornò a rabbuiarsi. «Non è questo il luogo per discutere su decisioni ormai prese.» rispose, alzando le mani e tacitando al contempo Principe e uditorio.

    Nella sala delle cerimonie calò il silenzio.

    Il sovrano fece un cenno al Generale Kosmo che trasmise l'ordine ricevuto ai subalterni.

    Il rumore cadenzato di stivali chiodati inondò la stanza. Da tutte le uscite, guardie armate affluirono a passo di marcia.

    Perplessi, i presenti si strinsero istintivamente al centro della sala, per far largo ai militari che mano a mano li accerchiavano.

    «Sudditi, non ho ancora finito.» tuonò Re Kevlan additando nuovamente al Generale. «Questa guerra mi ha insegnato un’altra cosa fondamentale, che intendo trasmettere ai miei eredi.»

    I quattro Principi non sapevano che altra sorpresa avesse in mente il padre, ma condividevano l'agitazione che si stava impadronendo dei convenuti.

    Kosmo, in risposta all'ordine del Sovrano, aveva invitato il Patriarca della Chiesa degli Antichi, il Sommo Nicodemo, a raggiungere i figli del sovrano sul palco.

    L'anziano gerarca avanzò lentamente, il bastone d'oro riccamente lavorato ad aiutarne l'incedere incerto.

    «Il culto degli Antichi viene sin d'ora vietato. Ogni pratica legata ad esso viene messa al bando e ogni uomo o donna che verrà scoperto a professare qualche cerimoniale a favore degli Dei verrà condannato alla pena capitale. Procedete pure!»

    L'ordine del Re venne eseguito con efficienza.

    I soldati si intrufolarono nella folla dei presenti, ognuno con il proprio obbiettivo ben presente nella mente.

    Raggiunsero i prelati della Chiesa degli Antichi e li trucidarono lì, davanti a tutti.

    Il caos scoppiò dopo le prime esecuzioni, sostituendo la paralisi che aveva bloccato i presenti, esterrefatti.

    Alcuni dei preti tentarono una fuga sgraziata, le vesti che svolazzavano in modo imbarazzante intralciandone i movimenti già goffi. Altri addirittura tentarono di resistere alla carica dei soldati con la forza, esplorando un campo per loro sconosciuto.

    Furono in ambedue i casi pantomime infruttuose, degne di guitti destinati al martirio.

    Nicodemo urlò contro Re Kevlan parole che solo il sovrano e i suoi figli poterono udire.

    Prima di morire, voleva capire cosa avesse originato quella follia.

    Il Re si lasciò sommergere dall’ira che aveva covato per il ventennio di guerra che aveva tormentato il suo popolo.

    «Dov'erano i tuoi Dei, vecchio, quando l'Astronascente devastava intere regioni del mio Regno? Dov'era Ulnar, il loro Signore, quando Isyl annientava le miei legioni? E la Dea della Pace, Lena, dormiva sonni tranquilli mentre le mie schiere trovavano la morte travolte dai demoni partoriti dalla mente del Mago folle? Dimmelo e io risparmierò la tua miserabile vita!»

    Il Re era paonazzo e nei suoi occhi la follia aveva sostituito ogni parvenza di raziocinio.

    Tutt'attorno la mattanza proseguiva.

    Le urla lancinanti dei sacerdoti sgozzati come bestie non riuscirono a impietosire gli Antichi che quegli uomini avevano venerato per tutta la vita.

    «Non è nei poteri di un uomo, nè in quelli di un Re, pretendere di giudicare l'operato degli Dei.» disse il Patriarca, scatenando ancor più la rabbia del Sovrano.

    Re Kevlan estrasse la lama e con un affondo trafisse l'uomo di fede.

    Pur impalato il vecchio riuscì a trovare le forze per maledire il proprio assassino, l’uomo che aveva servito fedelmente per decadi.

    Gustav, il più pio fra i figli di Re Kevlan, fece un passo avanti, per soccorrere Nicodemo, ma il Generale Kosmo lo trattenne.

    «Lasciami stare.» ordinò il Principe cercando di sciogliersi dalla presa del possente Generale, ma questo fu inflessibile.

    «L'operato del Re non si discute.»

    Le urla andavano sopendosi annegate nel sangue.

    I convenuti si erano radunati in gruppetti, stretti gli uni agli altri, terrorizzati, mentre le guardie erano tornate a presidiare le uscite, lasciandosi alle spalle i corpi macellati dei rappresentanti degli Antichi.

    Quando il silenzio fu totale, il Re riprese la parola.

    «Figli miei, i Quarti saranno devoti unicamente agli elementi. Evocatori ed Invocatori saranno i nuovi sacerdoti dell'unico credo possibile. Aria-Acqua-Terra-Fuoco, sono loro ad averci aiutato a sconfiggere il flagello di Isyl e solo loro concederanno ai Regni di vivere senza guerra. Questo è il mio voler…»

    In quell'istante i presenti videro il Re sbiancare, portandosi una mano al petto…"

    «Quante volte ti ho detto di non perdere tempo con quel moccioso e le sue storie bislacche?» tuonò il fabbro recuperando il figlio per un orecchio e trascinandoselo appresso.

    Il bambino si dimenava, ma non per il dolore: il suo rammarico era di non poter ascoltare la fine della favola.

    Il padre si fermò, gettò un’occhiata minacciosa a Tobias, il ragazzino-cantastorie. Questo era intento a intrattenere un nugolo di perdigiorno, molti bambini pidocchiosi e ragazzacci di strada.

    Tobias continuava a raccontare, senza badare minimamente alle occhiate truci dell’uomo. I suoi occhi spaziavano su altri Mondi, su altri tempi. Mulinava fra le mani un mazzo di tarocchi sdruciti, le cui immagini avevano perso brillantezza da anni.

    Il fabbro si accontentò di sollevare di peso il proprio figlioletto e se lo portò in bottega brontolando.

    «Tu ce l’hai un lavoro, non hai bisogno di buttare il tuo tempo in storie assurde.»

    Tobias mulinò in rapida successione la carta dell’Imperatore, quella del Bagatto e quella della Torre in fiamme, senza mai cessare di parlare, ma inanellando una serie di frasi senza senso, indifferente al vociare dei presenti che pretendevano la fine della storia.

    Depositate al suolo le carte, nella polvere, il bambino parve rinsavire e accontentò i presenti.

    "Pochi minuti dopo il Sovrano giaceva al suolo, privo di vita, trafitto da un male improvviso che puzzava di castigo divino.

    Per sua fortuna la morte lo colse rapida e non fu in grado di assistere a quanto errate fossero le proprie conclusioni.

    I Quarti erano nati nel sangue e questo sarebbe divenuto il loro naturale elemento, arrossando i territori fra continue lotte di Regni, elementi e fratelli."

    Tobias chiuse gli occhi, si sedette a terra e sovrappose al tarocco dell’Imperatore quello del Bagatto.

    L’Era del Mago sarebbe presto tornata e con essa l’apocalisse sarebbe infine giunta.

    1. Quarto dell’Acqua - Il Traghettatore dei Mondi.

    «Fetore di sepoltura.» sibila il Maestro d’Ossa e sputa al suolo un grumo di catarro verdastro.

    «L'olezzo proviene da quel sacco fetido che ti ostini a trascinarti appresso, vecchio.» lo redarguisce Deifobo.

    Infuriato, lo stregone gli pianta addosso gli occhi iniettati di sangue:

    «Non rivolgerti così al Santo, giovinastro privo di credo!»

    Le ossa dipinte sul suo corpo d’ebano paiono vibrare a indicarne la rabbia, i capelli bianchi, riuniti in sudice ciocche, si muovono al vento come serpi.

    Io non sento nessun odore in effetti, solo il profumo del grano.

    Il campo nel quale ci ha fatto piazzare il Traghettatore dei Mondi è una distesa dorata, a perdita d'occhio.

    Il moto delle spighe, cullate dalla brezza, lo fa apparire come un mare dal colore alieno.

    Certo, Deifobo ha ragione, quell’ammasso di ossa e sterco che il Maestro chiama Santo, è l’unica fonte di odore sgradevole, eppure qualcosa di sbagliato nell’aria colpisce anche me, come se gli elementi si stessero preparando a un evento inconsueto.

    Aria-Acqua-Terra e Fuoco, tutti col fiato sospeso.

    Il campo di grano nel quale siamo immersi è rigoglioso e florido come pochi se ne vedono nel resto dei Quarti.

    Si deve ammettere che il Templare Savio ha amministrato la sua Isola Feudo in modo eccellente. Impossibile pensare che questa terra si trovi nel bel mezzo di una guerra che dura ormai da un secolo.

    E’ questa ricchezza, questo ordine perfetto che quell’uomo è riuscito a imporre alla propria terra, a lasciarmi perplesso, a impedirmi di capire perché si voglia imbarcare nell’impresa.

    Sono tante le cose che non mi tornano a ben giudicare.

    «Zitti tutti!» tuona Rovers, scuro in volto.

    Il capitano della Centuria non è molto loquace questa sera. Meno del solito.

    Se ne sta lì, ingobbito, avvolto nella mantella scura che cela la sua armatura completa.

    Fiuta l’aria, come una belva apprensiva.

    Il sole sta calando all’orizzonte e la flebile luce penetra a stento fra le spighe alte come giganti.

    In lontananza riusciamo ancora a intravedere il Traghettatore dei Mondi inerpicarsi su per l’angusto tratturo scavato nella pietra della collinetta.

    Le sue movenze sono scattose, il logoro saio che lo riveste pare rigido, come fosse ghiacciato.

    Non dimenticherò mai i suoi occhi, due tizzoni ardenti, e lo sguardo, un vuoto fatto di fiamme inespressive.

    Il Duca dell'Isola Feudo di Roskeim, Savio Palwen III, il nostro committente, forte della sua recente conversione al folle culto dell'Unica Dea, pare essere tranquillo.

    La sua nomina a Candido Templare di Lena gli dona una risolutezza invidiabile.

    Povero folle.

    L'unica cosa importante è che la montagna d'oro che ci ha promesso sia concreta e reale, ben più di qualsiasi fantasticheria misticheggiante.

    La Centuria è al tuo servizio Savio, ma presto dovrai chiarirci diverse cose, che tu lo voglia o meno.

    Intanto cerchiamo di portare a termine questo dannato viaggio.

    «Il Santo dice che non dovremmo fidarci, e mi chiede se la mia vita valga meno dell'oro che ci ha promesso il Duca.»

    «E tu rispondigli, no?» lo rimbrotta Deifobo.

    Il Maestro d'Ossa lo fissa con aria interrogativa, la bocca sdentata aperta come un allocco.

    «Dannazione, vecchio, certo che quell'oro vale più delle tue misere ossa!» gli ride in faccia il Biondo.

    Rovers lo raggiunge, il muso austero solcato da rughe di rabbia, e lo solleva di peso dal bavero del mantello.

    «Ho detto di tacere.»

    Bisognerebbe mozzargli la lingua, per riuscire nell’impresa di zittirlo.

    Dietro di lui il resto della Centuria è in silenzio, gli occhi puntati sulla sommità della dolina.

    Nonostante l'imbrunire, la figura del Traghettatore spicca come una macchia più nera dell'oscurità circostante, quasi le tenebre al suo cospetto si svilissero, lasciandogli il primato.

    «Il Maestro ha ragione.» interviene quieto il Templare «Un tempo questa era terra di sepoltura.»

    «Il Santo non mente.» ribadisce orgoglioso quello.

    Elyn, pallida come uno straccio, lo scruta di sbieco.

    Le leggo in viso la quantità di domande che vorrebbe porre: Chi è il Traghettatore? Perché dobbiamo viaggiare? Perché in questo modo? Verso dove? E mille altre.

    L’indole da studiosa non l'abbandona neppure in questo momento di massima tensione. I suoi occhi brillano di curiosità e intelligenza. Una donna splendida.

    «Vale anche per te Duca. Silenzio e ascoltate tutti.»

    Ancora il capitano, monolitico nelle decisioni, come sempre.

    Ora la sento anch'io: una litania aspra ci viene consegnata dalla brezza che spira dalle spalle del Traghettatore.

    Porto lo sguardo sulla figura ammantata di tenebra e vedo i gesti che l'uomo misterioso sta compiendo con le mani. Traccia nell'aria dei glifi dalle linee perfette, che rimangono visibili per secondi, lasciandosi dietro una scia cremisi.

    Al mio fianco Morte sembra sul punto di parlare, la bocca spalancata in un’espressione di stupore che mai avrei immaginato potesse assumere.

    Lo immagino a proferire le sue prime parole da quando lo conosco, mezza dozzina d’anni oramai.

    Siqquara bestemmia i suoi dei, il tozzo corpo muscoloso che freme dall’ansia, come si trovasse in procinto di combattere un avversario invisibile.

    «Cosa diavolo sta facendo quello?» chiede Zitara rompendo lo stallo imposto dal comandante e rimediando da questo un’occhiataccia furiosa.

    Il nostro esploratore Fëanor Miratur, dotato di sensi acutissimi, è spiazzato, osserva la scena ma brancola nel buio, come tutti noi.

    Questa volta neppure la sua vista d’aquila riesce a dissipare l’ombra che ammanta la cima della collina.

    Il Maestro d'Ossa è già partito a cantilenare in quella lingua che nessuno ha ancora capito se sia di sua invenzione, oppure appartenga a qualche luogo sperduto di questo mondo.

    Scuote con vigore il sacco che chiama Santo, spargendone tutt’attorno il fetore e accennando un passo di danza sgraziata.

    Ci stringiamo in formazione, senza nessuna ragione oggettiva, spinti da una sensazione di pericolo incombente.

    «Non temete, l'Immacolata ci protegge.» tenta di rassicurarci Savio.

    ReCorvo, Morte e Siqquara hanno impugnato le armi.

    Poi la voce del Traghettatore dei Mondi irrompe sul campo rotolando dalla collina come una valanga.

    Penetrante e imperiosa ci arriva direttamente nella testa.

    Inintelligibili, ma dal sapore di un’invocazione arcaica, proibita e pericolosa, le parole ci pungolano la mente.

    Il tributo in anime è stato versato, buon viaggio.

    In risposta ai suoi gesti, linee e segmenti si tracciano nel campo di grano sottostante, piegando con delicatezza le spighe e dando origine a un pittogramma composto da simboli geometrici complessi.

    Cerchi dalle curve perfette, in cui si inseriscono armoniosamente ottagoni e stelle stilizzate.

    Non abbiamo neppure il tempo di interrogarci sul loro significato che crolliamo al suolo, privi di sensi.

    Rumori concitati mi strappano dal sonno.

    Mi guardo attorno, cercando di individuare le fiere capaci di emettere quei ragli. La testa mi duole e la vista stenta a rischiararsi, le palpebre che si muovono asincrone.

    Sono nel fitto intrico di una foresta, anche se non riesco a riconoscere la specie degli alberi che mi circonda.

    Il verde scuro domina tutto, mozzandomi il respiro.

    Non solo quello, anche l’umidità opprimente fa la sua parte. Mi sento soffocare, mentre l’ansia incalzante spazza via i torpori del sonno.

    I rumori comunque provengono da quel marasma di giunchi, liane e fogliame dalle dimensioni gigantesche.

    L’ambiente mi è sconosciuto, totalmente.

    Una luce blanda illumina la zona, penetrando a stento fra le chiome di quelle piante dalle fattezze anomale. Sottili raggi che filtrano tra il fogliame come schegge di luce proiettate da un diamante.

    Fanghiglia e putredine tappezzano il suolo in uno strato di fogliame misto a acquitrino, a perdita d’occhio, lasciando nell’aria un odore di terra in decomposizione.

    Improvvisamente riesco a focalizzare ciò che mi sta accanto.

    Li vedo, i miei compagni, i membri della Centuria, e un briciolo di speranza si fa largo nel mio animo.

    Il Maestro d’Ossa, Rovers, ReCorvo, Zitara e Siqquara, Fëanor Miratur, Morte, Deifobo e Elyn.

    Ci sono tutti.

    Appaiono disorientati. Anche i loro occhi vagano nel vuoto, persi in quella coltre di verde rigoglioso, alla ricerca di qualcosa di familiare.

    Come me, non trovano nulla.

    Morte fiuta l'aria inalando ampi respiri che gli gonfiano il collo tatuato. Le fiamme verdi che ne avvolgono la metà paiono guizzare in risposta a quella ricerca.

    «Stringetevi a me, saranno qui a momenti.» afferma con calma il Templare, sguainando la spada benedetta dalla lama candida come avorio.

    Chissà se è affilata, o è solo uno stucchevole oggetto di culto?

    Il comandante pare riprendere il controllo. Getta a terra l’elmo, quasi volesse liberarsi con quel gesto dai fumi che gli annebbiano la mente.

    «Di che diavolo parlate, Duca? E dove ci ha portato quel maledetto Traghettatore?»

    Già, il Traghettatore manca all’appello.

    Quella canaglia ha assolto al proprio compito e si è dileguato. Si starà già godendo la ricompensa.

    Solo ora mi accorgo che il pittogramma composto nel grano dall’uomo misterioso, ha segnato anche quella giungla, aprendo varchi dalle linee geometriche in quell'intrico di vegetazione. Noto che anche Fëanor lo sta analizzando.

    Il ringhio animalesco che mi ha risvegliato si fa più vicino, più pressante.

    «Siamo nel Nuovo Quarto, Capitano Rovers. Le nostre indagini partiranno da qui. Non c’è nulla da temere. Lena è con noi!» afferma sbrigativo Savio, muovendo la lama con gesti misurati e precisi e intonando una preghiera che mi suona familiare.

    Il Nuovo Quarto?

    Non riesco neppure ad articolare quel pensiero che qualcos'altro attira la mia attenzione: qualcosa turba gli elementi, lo percepisco all’istante.

    Visto che nessuno nella Centuria, oltre me, è in grado di interagire con essi, non può che trattarsi del Duca.

    L’Acqua, ovviamente, sta chiamando l’Acqua in nostro aiuto!

    Il suo potere è forte, e cresce rapidamente.

    Dalla bruma che aleggia fra la vegetazione, compaiono dozzine e dozzine di occhi luccicanti.

    Eccoli i nostri aggressori, finalmente si fanno avanti. Bastardi!

    Con la coda dell’occhio vedo Zitara e Fëanor incoccare frecce nei rispettivi archi, Rovers armare la balestra e Deifobo estrarre un dardo duwan.

    «Non vorrai sprecare uno di quelli per dei luridi cagnacci?» lo ammonisce Rovers.

    «Non ci tengo a essere sbranato da un branco di sciacalli.» si difende il Biondo, abbassando comunque il quadrello di polvere elementale.

    «Deve ancora nascere l’animale capace di accopparmi!» barrisce ReCorvo mulinando le sue asce gemelle.

    Torno a concentrarmi sul rituale del Templare, mentre le belve, con circospezione, affiorano dalla nebbia fiutando i confini del pittogramma tracciato dal Traghettatore.

    Più d’uno degli sciacalli ci piscia sopra.

    Il Duca, oltre a essere un ministro della Dea Buona, è un Rabdomante o un Rabdomastro. Non riesco a capire perché abbia celato la richiesta, come se si vergognasse del proprio gesto.

    Forse la sua antica arte è in conflitto con la nuova fede? Non è questo il momento per pensarci, ma quando arriverà vorrò delle risposte da Savio.

    Sguaino la spada bastarda e mi tengo pronto, cercando di allontanare quel dubbio dalla mente. Ad ogni modo le conoscenze del Templare sono superiori ai rudimenti che appresi a suo tempo all'Accademia di Askeen.

    La Cortina d'Acqua compare improvvisamente, come se provenisse da molto lontano. Ne percepisco l’irruenza e da questa comprendo che la foresta è dotata di un’anima resistente, capace di opporsi al suo arrivo.

    Il Maestro d’Ossa si stringe il Santo al petto, invocando i propri protettori.

    E' uno spettacolo vedere l'Elementale dell’Acqua avvolgerci in spire protettive, disponendosi tutt'attorno a noi poco prima che l’assalto del branco abbia inizio.

    La Cortina è cristallina come l’acqua di una fonte di montagna, ma il suo potere è smisurato.

    Nulla potrà attraversarla, fintanto che ci concederà protezione.

    Le bestie non possono saperlo. Ignare, e folli, si scagliano sulle pareti trasparenti venendone respinte in un coro di latrati furibondi, i turbini d’acqua affilati come lame che ne incidono le carni facendole a brandelli.

    Le belve sbavanti e fameliche non si arrendono cercando un pertugio che permetta loro di raggiungerci. Percorrono con foga il perimetro del cilindro protettivo come una massa informe di pelo e canini sporgenti, compiendo rapidi attacchi, fortunatamente inefficaci.

    Sono un branco numeroso e determinato.

    «Tu, saputella, ma gli sciacalli non sono bestie solitarie? E soprattutto non si nutrivano di cadaveri? Ci hanno scambiato per delle carcasse?» chiede Siqquara a Elyn, passandosi l’ascia da una mano all’altra, i muscoli del corpo tornito pronti a scattare.

    La studiosa la fissa, gli occhi ricolmi di stupore.

    Nel comportamento degli animali non vi è nulla di naturale. Mossi da una furia cieca che li fa sragionare e li spinge a comportamenti contro natura, annichilendo l’istinto che avrebbe dovuto avvisarli della pericolosità della Cortina d’Acqua.

    L’uomo non è una loro preda abituale, per sapere questo non ci vuole certo l’erudizione di Elyn, la quale abbozza ugualmente una spiegazione, non capendo che la donna barbaro la stava solo prendendo in giro.

    Rovers sta elaborando un piano, glielo leggo in quei suoi occhi cerulei che ben pochi riescono a penetrare. Probabilmente Fëanor Miratur ha già scandagliato la zona circostante, valutando le vie di fuga.

    Prima che il capitano possa esporci le direttive, gli animali si fermano. Improvvisamente guardinghi drizzano le orecchie, le fauci sbavanti che per un attimo si serrano in attesa.

    Sibili e schiocchi precedono una gragnuola di colpi.

    Dal profondo del coacervo di vegetazione proviene una salva di frecce.

    Fra latrati e guaiti, numerosi sciacalli finiscono riversi al suolo, mentre i sopravvissuti contrattaccano tuffandosi nella selva.

    Osservo la scena, tentando di capire chi sia giunto in nostro soccorso.

    Il Traghettatore dei Mondi, forse? Ne dubito…

    Colgo delle ombre aggirarsi fra le piante, ma non riesco a carpirne l’identità: sagome erette che ricordano dei ragazzini, data la loro scarsa altezza.

    Corrono fra le frasche ingaggiando combattimenti feroci con gli animali ed emettono grida altrettanto belluine.

    «Indigeni.» sentenzia il Duca Savio Palwen III, allentando il controllo sulla Cortina d’Acqua.

    Qualcosa mi dice che stia già rimpiangendo di aver lasciato la sua ordinata Isola Feudo.

    2. Nuovo Quarto – Il clan dello Sciacallo.

    «Ancora quelle maledette navi di cristallo.»

    C’era odio nella voce gutturale del guerriero ombra.

    «Tha-ho, purtroppo anche questo arrivo era previsto.»

    L’ombra osservò Kiquathu con aria pensierosa.

    «Lo so, Divinatore, ma provo una forte rabbia.»

    Dal costone roccioso sul quale si erano posizionati, godevano di una visuale eccellente.

    Sotto di loro sorgeva quello che era stato il primo campo eretto dagli invasori: Nuova Cadolia.

    Alte palizzate erano sorte a protezione del nucleo centrale di quell’insediamento che andava assumendo sempre più i connotati di una vera e propria città.

    Tutt’attorno la vegetazione era stata rasa al suolo per concedere agli abitanti, e ai loro maledetti difensori dalle vesti candide, di non farsi sorprendere dagli attacchi dei clan.

    «Siamo stati folli a non sterminare quegli stranieri, quando eravamo ancora a tempo.»

    Kiquathu ricordava tutto.

    Riviveva ogni giorno il primo sbarco come monito a non dimenticare mai l’errore commesso.

    Con i suoi modi gentili e affabili, colei che si faceva chiamare la Sorella di Lena, Agape, aveva chiesto la possibilità per la sua gente di sbarcare e di posare il campo in riva alle acque cristalline.

    Un’aura lucente incorniciava il suo volto splendido, i lunghi capelli bianchi che scendevano dolcemente sulla tunica immacolata.

    Né Kiquathu, né i suoi fratelli avevano mai udito una voce così armoniosa. Mai avevano posato gli occhi su una creatura tanto splendida.

    I primi ad averla vista, l’avevano creduta l’incarnazione stessa della Dea Madre Nulla.

    Avevano così acconsentito senza remore alle richieste, offrendo a lei e alla gente che l’accompagnava, tutto ciò di cui necessitavano.

    Il Divinatore doveva ammettere di esserne rimasto affascinato. D’altronde non c’era nulla di paragonabile, fra il suo popolo.

    Mentre i maschi degli stranieri differivano da loro solo per la maggiore altezza e per la peluria che ne ricopriva capo, volto e torace, le femmine erano curiosamente diverse, in tutto, soprattutto la Sorella di Lena, che li comandava.

    Solo l’innata diffidenza di Kiquathu l’aveva tenuto lontano dagli insediamenti degli stranieri e quella era stata la sua salvezza.

    Anche gli sciamani e i saggi dei clan non avevano avuto da ridire, in quanto la Madre stessa non sembrava nutrire ostilità verso i nuovi venuti e non aveva dato alcun segno di disapprovazione.

    Così nuove navi di cristallo avevano fatto la loro comparsa all’orizzonte e gli sbarchi si erano susseguiti.

    I suoi fratelli, incuriositi e attratti da quelle magnifiche creature che gli stranieri chiamavano donne, si erano prodigati in tutti i modi pur di poter venire a contatto con i nuovi venuti.

    Questi ne avevano approfittato spudoratamente, fino a giungere a insidiarne la libertà.

    «Riesci a percepirla, Tha-ho?»

    «Che cosa, Divinatore?»

    «L’empietà che muove quelle navi. Non vi è nulla di naturale nel loro incedere arrogante. Vedi come infrangono le onde? Vedi come fendono i marosi senza subirne la forza? Qualcosa di malefico le muove e le governa e, se osservi con attenzione, potrai vedere il volto del mostro che le dirige far capolino sopra di esse. I suoi occhi sono tizzoni ardenti.»

    Il guerriero ombra fissò lo sguardo sugli scafi affusolati delle imbarcazioni.

    Le pareti traslucide rendevano le sagome dei membri dell’equipaggio simili a spettri baluginanti, eppure non riuscì a scorgere ciò di cui parlava Kiquathu.

    Ugualmente non dubitava della veridicità delle parole del Divinatore.

    Non più.

    Nonostante il mare fosse agitato, le navi procedevano spanne sopra il pelo dell’acqua, senza beccheggiare né mutare rotta.

    Le vele bianche, innalzate su alberi vertiginosi, non erano smosse dal vento quasi fossero un semplice abbellimento e non gli strumenti che concedevano alle imbarcazioni di muoversi.

    «Anche questa volta sono comparse dal nulla. I guerrieri di vedetta garantiscono di non essersi mai distratti, eppure dove un istante prima c’era solo mare, giurano siano comparsi quei cinque scafi. Dal nulla, come fossero le acque stesse ad averli partoriti.»

    «Non rimproverarli Tha-ho, forse i tuoi guerrieri dicono il vero.» considerò accigliato Kiquathu grattandosi il mento liscio.

    «Come possono essere comparse dal nulla?»

    «Gli avvenimenti di questi tempi non trovano spiegazione razionale, prima lo accetterai e prima riusciremo a liberare il nostro popolo.»

    Il Divinatore osservò l’insediamento. Per le vie che tagliavano il villaggio creando una griglia ordinata, c’era fermento. Mercanzie di tutti i generi venivano caricate e scaricate dalle navi alla fonda, nella baia.

    Quelle genti erano indubbiamente operose, ma il ruolo affidato ai suoi simili non poteva concedergli di guardare a quella loro attitudine con bonarietà: schiavizzati e vessati, trattati come esseri inferiori, ai suoi fratelli toccavano i lavori più miserabili ed estenuanti.

    Il guerriero gli lesse nei pensieri.

    «Perché la Regina Madre permette tutto questo?»

    Kiquathu lo colpì al volto con violenza, senza preavviso.

    «Nulla ci ha abbandonati, stolto! Anche questo è bene che tu lo capisca sin da subito. Sciacal è la nostra nuova guida e in cambio di fedeltà ha promesso di salvare il popolo.»

    Il guerriero ombra abbassò il volto glabro sul quale stava comparendo una chiazza rossa, causata dal colpo subito.

    Le navi di cristallo avevano gettato l’ancora nella baia antistante e sciami di scialuppe venivano calate fuori bordo. Coloni invasati e soprattutto soldati della Dea Buona, Lena, così la chiamavano quei dannati.

    Le loro corazze lucenti lanciavano barbagli accecanti, le criniere bionde che garrivano al vento: Cavalieri della Concordia, e per ognuno di essi almeno venti immacolati.

    Altre imbarcazioni cariche di oro, ferro e cibo, partivano dal pontile in senso opposto per raggiungere le navi all’ancora: risorse che gli stranieri rubavano alla loro terra.

    Infinite tonnellate di selvaggina sotto sale, come se la patria di quegli stranieri fosse un deserto arido, incapace di fornire loro sostentamento.

    I viaggi si facevano sempre più frequenti e numerosi e la terra in cui lui e i suoi fratelli da sempre abitavano, stava iniziando a portarne i segni.

    Nuove colonie venivano fondate sulla riva del mare e sempre nuove zone di foresta venivano date alle fiamme, spianate e messe a coltura.

    Anche i buchi nel ventre della terra, che i nuovi arrivati chiamavano miniere, venivano scavati sempre più all’interno, turbando la quiete della vita della giungla con l’andirivieni di carri e merci. Intere specie animali venivano annientate, sia per procacciare cibo ai nuovi venuti, che per soddisfarne i capricci venatori.

    Tonnellate di carcasse venivano spolpate e messe sotto sale per essere imbarcate e riportate nella terra nativa di quei maledetti.

    «Guarda le nuove leve degli invasori. Nuove spade pronte a mietere vittime, nuovi stivali chiodati con cui calpestare l’onore dei nostri fratelli e deturpare il suolo della nostra terra.»

    La voce del Divinatore era incrinata. La consapevolezza della difficoltà dei tempi in cui si trovava a vivere e delle responsabilità che gravavano sulla sua persona lo facevano apparire ancora più vecchio.

    Tha-ho lo guardò con ammirazione.

    «La rabbia di Sciacal non darà loro scampo. Raderemo al suolo anche questa città.»

    «No, non ancora, non è il momento propizio. I clan ribelli non sono abbastanza forti per condurre una guerra. I Nuovi Dei sono giovani e inesperti. Dobbiamo muoverci con astuzia. Sciacal ha detto che un evento capace di mutare il sentiero della storia è prossimo ad accadere e qualcosa mi dice che non manchi poi molto.»

    Lo sguardo del Divinatore corse all’entroterra.

    Sorvolò gli ordinati campi di lavoro dove i suoi fratelli erano costretti a sudare per le vesti bianche, a compiere strage di palme e banani per far spazio ai nuovi venuti e alle loro colture, fino allo sfinimento.

    Oltrepassò le miniere dove i propri simili sputavano sangue ogni giorno, ammalandosi e morendo, per arricchire gli invasori, chini sotto il peso di carrelli colmi di minerali. Li trascinavano tirando catene che penetravano loro nella carne, sfigurandoli al pari delle frustate che i padroni dalle vesti bianche infliggevano loro.

    Disgustato per una resa così vergognosa, distolse lo sguardo e proseguì oltre, sondando le distese di giungla vergine, ancora preservata dalle mire espansionistiche degli stranieri.

    La Madre, la Dea Nulla che sempre li aveva guidati e protetti, si aggirava furtiva nei meandri della selva. Abitava ancora le piramidi-tempio che avevano innalzato in suo onore.

    Kiquathu riusciva a percepirne la presenza, eppure essa non interveniva in soccorso dei propri figli.

    Il Divinatore si allontanò da lei, lasciandola sola con i propri dubbi e con i propri rimpianti, forse. Lui non era in grado di comprenderlo.

    Percepiva la rabbia di Nulla, trattenuta a stento, ma non comprendeva verso chi questa fosse pronta a deflagrare.

    Giunse infine al pittogramma che aveva marchiato la selva, tracciando solchi nei quali non sarebbe mai più cresciuta vegetazione alcuna.

    Quel simbolo arcano era carico di potere. Impossibile passasse inosservato.

    «Sono giunti.» sbottò sbalordito.

    «Chi, saggio Kiquathu?»

    «Stranieri, che non hanno utilizzato le navi di cristallo.»

    «Devo mandare i guerrieri a ucciderli, Divinatore?»

    «No, forse sono diversi da quelli che stanno schiavizzando i nostri compagni.»

    «Diversi? Vuoi trattare con loro?»

    Tha-ho vide gli occhi di Kiquathu perdere l’abituale luce e farsi vacui mentre sondavano l’orizzonte. Le pupille iniziarono a muoversi da destra a sinistra, le palpebre che si socchiudevano conferendo al saggio un’espressione ebete.

    Un’ombra comparve sul viso del Divinatore e gli occhi della testa di sciacallo che portava come copricapo brillarono di una luce vermiglia.

    «Sciacal è interessato a questi uomini, guerriero ombra. Dobbiamo prenderli, sottrarli ai nostri nemici.» la voce di Kiquathu pareva provenire da un pozzo.

    Tha-ho si inchinò.

    «Se questo è il desiderio di Sciacal, andrò subito a cercarli.»

    Passarono secondi senza che nessun altro rumore all’infuori del respiro accelerato del guerriero ombra disturbasse i due, poi Kiquathu scosse con violenza il capo, tornando nel pieno delle proprie facoltà.

    «L’irruenza del Dio si è nuovamente impossessata del mio corpo…» disse il Divinatore con un filo di voce, stremato, il corpo scosso da fremiti incontrollati.

    «I tuoi presagi, saggio Kiquathu, sono stati confermati. Gli stranieri interessano a Sciacal. E’ meglio mettersi in marcia.»

    «I nostri fratelli a quattro zampe sono già sul posto, sento i loro ululati furiosi. Purtroppo la scia di potere lasciata dai nuovi venuti è stata così grezza da attrarre anche altre attenzioni.»

    «Credi ci saranno rischi?» domandò il guerriero ombra, la cui vita era dedicata alla protezione del Divinatore.

    «Sarà meglio allertare i guerrieri.»

    «Così sarà fatto.»

    Tha-ho si voltò e si incamminò giù per il declivio che lo avrebbe portato nella radura dove si era accampato il clan dello Sciacallo.

    «Ancora una cosa» gli urlò dietro il Divinatore «manda dei messaggeri agli altri clan ribelli. E’ giunto il momento di riunirsi.»

    Se la sua interpretazione delle parole arcane di Sciacal era corretta, fra quegli stranieri si nascondeva colui che avrebbe potuto liberarli dalle vesti bianche, e dalla cagna adoratrice di Lena che li guidava.

    3. Cuore dei Quarti - La Fortezza di Askeen.

    Il Rabdomastro Malet ripose con delicatezza il volume che stava leggendo.

    La lettura era il suo unico rifugio da quando, due lune prima, lo avevano sorteggiato come nuovo rappresentante del Quarto dell'Acqua per la carica di Guardiano di Askeen.

    Quella fortezza, tetra e scura, sembrava permeata dalla malvagità del prigioniero che custodiva.

    Non c'era da stupirsi che neppure i più ambiziosi fra i Mastri, si offrissero volontari per quell'incarico, e che i più maledissero la scelta operata millenni prima da Re Kevlan.

    Inoltre lo stare a stretto contatto con le genti degli altri Quarti non poteva certo essere considerato un piacevole passatempo.

    Per quanto ampia fosse la fortezza di Askeen, gli spazi sembravano angusti, dovendoli dividere con degli stranieri.

    Si era fatto tardi e Malet doveva andare a dare il cambio a Keter.

    La spocchia del giovane Aeromante non gli piaceva, ed era convinto che tale ritrosia non fosse solo dovuta al fatto che i loro Quarti di appartenenza fossero in guerra da più di un secolo. C'era qualcosa in quell'evocatore che non gli dava sicurezza.

    Nella loro attuale missione i quattro Guardiani avrebbero dovuto avere cieca fiducia l'uno dell'altro, eppure, al momento l'unico cui Malet tributava un certo rispetto era l'anziano Hokmah.

    La maggiore affinità che provava per il taciturno Geomastro era in parte giustificata dal fatto che avessero circa la stessa età, ma anche il pregiudizio che da sempre divideva le due scuole di pensiero aveva il suo peso.

    Evocazione o Invocazione? Trattare con gli elementi o dominarli?

    Erano due visioni diametralmente opposte e anche ora, nel centro dei Quarti, esse trovavano i propri rappresentanti e come naturale conseguenza gli uni si allontanavano dagli altri per una sorta di istinto naturale che li faceva diffidare da chi la pensava diversamente.

    Così la Piromante Binah si era avvicinata a Keter, mentre Malet aveva fatto coppia con il Geomastro.

    Eppure lì, al centro dei Quarti, c'era in ballo la sicurezza del Mondo di Alenna e tutte le diatribe dovevano essere accantonate per un bene superiore.

    Tutta colpa di Re Kevlan che ci ha messo in questa condizione!

    I tempi in cui l'Impero riuniva tutte le terre sotto un unico credo omogeneo erano lontani. Poi il regnante folle aveva compiuto l'errore di dividere il Reame nei Quarti, per affidarne uno a ciascuno dei propri discendenti.

    Certo, era stato mosso da fini nobili, ma il risultato?

    Guerre per il potere, per estendere i propri domini e divisioni di usi, costumi, fede, nonché tradimenti e vessazioni.

    Malet non riusciva neanche a immaginare il tempo in cui gli uomini si muovevano sotto l'egida ed i vessilli di un unico Sovrano. Troppo sangue aveva dilavato quei ricordi che erano già sbiaditi nelle memorie dei suoi avi.

    Forse col tempo riuscirò ad apprezzare questa convivenza forzata.

    Il Rabdomastro indossò la palandrana blu che contraddistingueva gli appartenenti al suo ordine, e si incamminò verso l'uscita degli alloggiamenti.

    Percorse corridoi scavati nella pietra nera e illuminati da fiaccole la cui luce veniva inghiottita dalle pareti.

    Innanzi al portone della torre che costituiva la sua dimora, trovò ad attenderlo il comandante della guarnigione del Quarto dell'Acqua.

    «Rabdomastro Malet, buona sera.»

    «Comandante Allurian, non c'è nulla di buono nel fare la guardia di notte.» rispose senza astio, procedendo a ampie falcate verso il mastio centrale.

    Il plotone lo seguì in silenzio attraverso la coorte interna della Fortezza.

    Annottava e sulle murate guardie silenziose percorrevano una ronda perpetua, sempre identica a se stessa, da millenni.

    «Siete in ritardo, Malet.» esordì con sgarbo il giovane.

    Indossava una sottile veste turchese dai pregiati finimenti in argento che ricordavano la sua provenienza. Intarsi eccentrici e simboli mistici tipici delle bizzarre e selvagge genti del Quarto dell'Aria.

    Un cerchio del medesimo materiale gli teneva raccolti i lunghi capelli biondi e crespi.

    Un ragazzo. Poco più che un ragazzo per difendere il mondo, pensò fra sé Malet.

    «Comprendo il vostro timore per la guardia notturna, ma ora sono giunto in vostro soccorso.» rispose, muovendo al sorriso i soldati dell’Acqua.

    «Anziano, ma ancora capace di fare del sarcasmo. Questo vi fa onore, speriamo solo che non sia l'unica arte in vostro possesso.»

    «Non perdiamo tempo, Sommo Keter, abbiamo entrambi del lavoro da sbrigare. Io devo preservare il mondo dalla furia di Isyl e voi dovete andare a rifarvi l'acconciatura. Pare proprio che la lunga guardia vi abbia scompigliato la chioma.»

    I soldati del Quarto dell'Aria, al seguito del giovane Aeromante, si schierarono al suo fianco, con aria minacciosa.

    «Suvvia soldati, calma, il vecchio straparla. Alla sua età è del tutto normale. Buon divertimento Malet, a domani.»

    L'evocatore dell'Aria si allontanò lasciando il compito di sorvegliare l’Astronascente Isyl all'invocatore dell'Acqua.

    La veste nera ebbe un sussulto.

    Quando Malet se ne avvide, rimase inchiodato alla balaustra. Stava percorrendo la scala a chiocciola che bordava la torre del mastio centrale di Askeen, quando il suo sguardo fu attratto da quel movimento impercettibile.

    Dall’alto osservò le pareti trasparenti della prigione di cristallo che conteneva quel logoro staccio nero.

    La sua mente, trafitta da quella visione nefasta, impiegò minuti interi a cancellare l’idea che il trascorrere dei secoli aveva ingenerato in tutti loro; quella che era finita con l’essere considerata una semplice reliquia maledetta, nient’altro che un saio che per capriccio divino si manteneva in piedi, era ben altro: Isyl stesso, il flagello, si celava nella prigione di cristallo e quella era la veste che lo ancorava a questo mondo.

    Malet pensò a un’allucinazione, a uno scherzo dei propri vecchi occhi malandati. Troppe notti passate a leggere al chiaro di un lume di candela.

    La veste ebbe un altro tremito, ancor più vistoso.

    L’anziano si precipitò giù dalla rampa delle scale per portarsi a ridosso della gabbia incantata, due, tre gradini alla volta, le gambe rinsecchite che già gli dolevano.

    Ansimante giunse a toccare le pareti di cristallo: non vi erano dubbi, la tunica era scossa da un flebile movimento, come percorsa da una debole brezza.

    Il Rabdomante gridò l’allarme, a squarciagola.

    Interi millenni erano trascorsi nella staticità assoluta. Ora quel misero movimento era sufficiente a gettarlo nel panico.

    Il suono fesso di una campana segnalò che il grido era stato recepito.

    Si stupì che le guardie, nonostante l'inoperosa attesa durata secoli, fossero giunte così celermente.

    Con le insegne dei Quarti di appartenenza ben impresse sui pettorali di ferro, imbracciavano lance e scudi, come se quelle misere armi potessero qualcosa contro l'essere lì rinchiuso.

    «Che succede, Saggio Malet?» chiese il capitano delle guardie del Quarto dell'Acqua.

    Il Rabdomante indicò lo straccio nero e un’ondata di terrore percorse le schiere lì presenti. Occhi increduli rimasero ipnotizzati da quell’incanto del malaugurio.

    In breve arrivarono anche gli altri tre Guardiani.

    Prima la Piromante, poi l’Areomastro e infine il vecchio e claudicante Geomastro.

    Stretti in circolo osservarono ammutoliti la scena, maledicendo che quell’evento fosse accaduto durante la loro Guardia.

    «Dannazione, e dire che l'estrazione è avvenuta meno di due lune fa… che beffa…» imprecò il giovane Keter, la cui spocchia pareva essere stata sopraffatta dalla gravità della situazione.

    Il Geomastro Hokmah, il più anziano fra i Guardiani, lo guardò con disapprovazione.

    «Non si è mai assistito a un evento del genere. Credi forse che trovandoti altrove avresti potuto salvarti dall'ira di Isyl?»

    «Vecchio menagramo…»

    I soldati del Quarto della Terra si agitarono, mormorando con disapprovazione alle parole dell’Aeromante.

    I rudi e pragmatici uomini della Terra mal digerivano la libertà di parola concessa alle genti dell’Aria e non erano certo disposti a fare sconti, neppure in quelle circostanze.

    Fu Hokmah stesso con un cenno della mano a invitarli alla calma, a tollerare ciò che fuori dalle nere mura di Askeen non avrebbero sopportato.

    «Lasciamo le nostre futili dispute per tempi migliori.» interloquì con misura Malet «Le pareti della cella di cristallo non temono la potenza di Isyl, ma quel movimento deve significare qualcosa.»

    La sua voce era incrinata dall'ansia, ma pregna di buon senso.

    «L'Astronascente non ha la forza per liberarsi da solo, questo è scritto e non abbiamo motivo di dubitarne. I millenni hanno confermato la veridicità di tali assunti.» si intromise Binah, la Piromante. «Se c'è qualche pericolo, non può che venire dall’esterno.»

    «Concordo con la bella e focosa ragazza» si intromise Keter fissando l’occhio di Asul marchiato a fuoco sulla guancia destra della ragazza «e faremo meglio a mandare un po' di soldati sugli spalti, piuttosto che stare qui a rimirare quella pezza lercia.»

    Come a conferma di quella previsione, urla d'allarme giunsero dai bastioni esterni, rimbombando cupamente fra le mura della torre del mastio.

    I Guardiani stavano percorrendo la coorte interna della fortezza quando l’anziano Hokmah si accasciò a terra. Imprecando Keter, che gli era al fianco, lo sorresse per un braccio.

    «Così vecchio da non riuscire neppure a sopportare una corsetta? Siamo infine giunti a questo? Mettere la sicurezza del mondo sulle fragili spalle di un Geomastro ottuagenario? Un fardello eccessivo…»

    «Taci stolto. Possibile che tu non lo percepisca?» si intromise il Rabdomante avvicinandosi ai due.

    Keter l’osservò, incredulo, forse per l’offesa, forse perché infine anche lui era riuscito a cogliere i sussulti degli elementi.

    «Che ti succede Hokmah? La prima difesa vacilla… lo sento, chiaramente.» chiese Malet con ansia, ma non con sgarbo.

    L’anziano lo fissò a occhi sbarrati.

    «Siamo sotto assedio. Il Bosco di Pilastri è stato violato…»

    «Dannazione…» esclamarono all’unisono Keter e Binah, terrei in volto.

    4. Nuovo Quarto – Gli indigeni.

    Quelli che credevo ragazzini sono in realtà creature deformi.

    Gli indigeni, come li ha chiamati il Templare Bianco, che evidentemente sa bene dove diavolo siamo finiti, sono simulacri di uomini mal riusciti: bassi, con le gambe arcuate e sproporzionate rispetto ai toraci ampi e alle braccia da scimmioni.

    Si muovono con agilità sorprendente fra le frasche dando la caccia agli sciacalli che volevano nutrirsi di noi. Sono nudi e dalla carnagione olivastra, glabri e con accumuli di grasso che rendono il solo guardarli nauseabondo.

    Impugnano lunghi coltelli, le cui lame sembrano di selce levigata e lance altrettanto rozze.

    «Che razza di abomini sono quelli?» sento domandare Zitara con voce disgustata mentre tende l’arco in cerca della prossima vittima.

    «Mostri, che però ci stanno salvando da quelle orde fameliche.» le rispondo.

    La Cortina d’Acqua chiamata dal Duca Savio sta perdendo d’intensità, i turbini cristallini rallentano la loro furia.

    Il Templare sembra stanco, e non stento a crederlo. Evocare, o invocare, un elementale di quel livello non è certo impresa da poco. Ancorarlo al nostro mondo per così lungo tempo, ancor meno.

    «Guardate!» urla Fëanor Miratur cogliendo fra gli alberi una sagoma più imponente rispetto alle altre, agghindata con un copricapo di piume multicolori.

    «Deve essere il loro capo.»

    Il Maestro d’Ossa si volta, lo osserva, come se ne avesse percepita la presenza da tempo immemore.

    «Dice di diffidare di lui.»

    «Cosa, vecchio?» lo incalza Deifobo, scagliando l’ennesimo dardo verso gli sciacalli.

    «Il Santo, è chiaro, e non mente.»

    Shoggul, il Maestro d’Ossa, sostiene di vedere altri Mondi, di parlare con le anime dei morti, gli Spiriti. Tutto ciò grazie al Santo, quel sacco pieno di terra, sangue, sterco e liquami organici.

    La sua attenzione è focalizzata sull’indigeno capo. Forse ha riconosciuto in lui un proprio simile, dotato di Potere.

    A differenza di Deifobo, io gli credo.

    «Qualcuno aiuti il Templare.» tuona Rovers poco prima che Savio, pallido come la tunica che indossa sopra l’armatura, crolli al suolo.

    Nello stesso momento in cui Elyn lo prende fra le braccia, la Cortina d’Acqua sparisce, come mai fosse esistita, risucchiata dalla terra umida.

    Un pulviscolo di gocce permane nell’aria pochi istanti riverberando la luce solare.

    Percepisco la gioia dell’elementale nell’abbandonare questa landa, e la cosa mi spaventa. Altre potenze si aggirano in questi territori e non nutrono particolare benevolenza verso gli Elementali, questo è certo.

    «Quadrato, quadrato!»

    L’ordine di Rovers è perentorio e automaticamente ci stringiamo attorno alla guaritrice e al Duca.

    Sarebbe un peccato che il nostro committente crepasse subito, con la metà della paga promessa ancora da versarci.

    Dalla penombra delle frasche il capo degli indigeni gesticola e impreca in una lingua sconosciuta, dirigendo i guerrieri come marionette. Sottili fili neri scaturiscono dalle sue dita, in risposta ai quali quegli esseri paiono modificare obbiettivi e azioni.

    Non capisco se sono il solo a vederli, ma non ho il tempo per accertarmene.

    Le urla sovrastano i miei pensieri.

    Osservo una freccia di Fëanor conficcarsi in un tronco di fianco all’ometto dal copricapo variopinto.

    Nuove scariche partono dalla mano di questo in direzione dei propri guerrieri.

    In risposta gli esseri deformi, che avevamo creduto nostri salvatori, ci si lanciano addosso, brandendo armi rudimentali.

    Prima esitanti, poi sempre più risoluti, si fanno avanti, i volti distorti da un’ira ingiustificata.

    Il primo a raggiungerci viene accolto dalla roncola di Morte. La strana arma sibila nell’aria prima di conficcarsi nel cranio della creatura calva.

    Con uno strattone alla catena cui è collegata, il mio compagno tatuato la recupera, pronto a mietere altre vittime.

    Sangue e poltiglia cerebrale imbrattano la lama, confermandoci che deve esistere una sorta di lontana parentela fra noi e quegli esseri.

    Dietro di me Zitara scaglia una freccia dopo l’altra, imitata da Fëanor.

    Precise queste volano a conficcarsi nelle carni indifese dei nostri aggressori, affondando nell’adipe con rumori ovattati ma comunque disgustosi.

    Il capitano, abbandonata la balestra, ha imbracciato scudo e spada, pronto a respingere l’orda.

    «Dobbiamo trovare una via di fuga.» mi dice guardandosi attorno. «Sono in troppi per noi.»

    Dal marasma di fogliame spuntano dozzine di quegli ometti. Sono accomunati solo dalla bruttezza e dall’imperfezione, chi traborda lardo dal ventre, chi ne ha accumuli orridi su braccia o gambe.

    Ad ogni modo la loro ferocia non ne viene intaccata.

    Devio l’affondo che uno degli indigeni mi porta con la lancia dalla punta di pietra, riuscendo a sbilanciarlo e lo colpisco con la spada bastarda dritto al cuore.

    Con un gorgoglio mi lancia un ultimo sguardo carico d’odio e mi maledice nella sua lingua incomprensibile.

    «Ragazzo, ricordami di benedirti più tardi.»

    Il Maestro d’Ossa pare preoccupato mentre stringe il suo fagotto al petto, non staccando mai lo sguardo dall’indigeno con lo stravagante copricapo.

    «Riesci a trasportarlo?» sento Rovers domandare alla cerusica.

    «E’ debole, ma credo si stia riprendendo.»

    «D’accordo allora, muoviamoci verso nord. Forza Shoggul, renditi utile e aiutala. Andiamo!»

    Mentre il Maestro ritorna fra noi, Deifobo guarda il capitano, cessando per un istante di scagliare dardi.

    «Non vorrai lasciare qui questo tesoro?»

    Il guerriero indica la macchia di polvere duwan depositatasi al suolo dopo la sparizione dell’elementale dell’Acqua.

    Il capitano gli ringhia contro, indeciso sul da farsi, l’avidità che combatte l’istinto di sopravvivenza.

    Siqquara, ReCorvo, Morte e io riusciamo a tenere a bada gli ometti, menando fendenti.

    Zitara e Fëanor Miratur continuano a bersagliarli coi loro archi, ma non dureremo a lungo: sono troppi.

    «Dannazione» impreca il comandante «dobbiamo muoverci, torneremo a riprendercela.»

    Elyn, aiutata dal Maestro Shoggul, solleva il Templare. L’uomo fatica a reggersi sulle gambe.

    Una freccia colpisce ReCorvo al braccio strappandogli un barrito e facendolo infuriare ancor più.

    Per tutta risposta il colosso agguanta la lancia di uno degli indigeni e se lo trascina a portata. Lo solleva di peso e lo stritola fino a spezzargli la spina dorsale in uno schiocco agghiacciante.

    Il guerriero dell’Isola di Abuc è infuriato e riesce a far indietreggiare i mezz’uomini innanzi a noi. I suoi urli sono violenti come sassate.

    Sfruttiamo l’indecisione e ci gettiamo a capofitto nel pertugio.

    Facciamo poche decine di metri e siamo nuovamente impantanati in una mischia, gli ometti che arrivano da tutti i lati.

    Per fortuna le loro armi sono rozze e le nostre corazze resistenti.

    «Gli sciacalli!» grida Zitara, osservando strani movimenti dietro le fila nemiche.

    Un brusio convulso si innalza dagli uomini ammezzati mescolandosi al ringhio delle belve.

    Schivo l’ennesimo affondo dell’uomo deforme che mi fronteggia, e mi accorgo che i canidi li stanno aggredendo alle spalle.

    Continuo a difendermi, confuso, azzoppando un altro di quegli abomini con una stoccata.

    I vigliacchi indietreggiano, mentre una nuova salva di dardi ci piove addosso.

    Fortunatamente anche le frecce si dimostrano di scarsa fattura, rimbalzando su scudi e corazze.

    Vedo il loro capo gesticolare in modo convulso, i guerrieri attorno a lui intenti a respingere un grappolo di sciacalli col pelo rizzato.

    Un nuovo strale di Fëanor questa volta lo centra all’altezza della clavicola strappandogli un grido.

    Lo stregone, o quello che è, incassa duro, mentre tutt’attorno a lui impazza uno scontro assurdo fra i suoi guerrieri e gli sciacalli.

    «Che diavolo succede?» sbotta Deifobo osservando la scena che si presenta innanzi a noi.

    Urlando, un altro gruppo di mezzuomini ha fatto irruzione sulla scena. Alcuni procedono carponi, a quattro zampe, affiancati dagli sciacalli. Indossano pellicce, collane di denti di cane, brandelli di pelle di animale legati a braccia e gambe e ninnoli stravaganti, che li rendono parodie di belve.

    Anche se la loro conformazione fisica è uguale a quella degli altri, bassi e deformi, sembrano essere tutt’altro che in buoni rapporti.

    Invece di attaccarci si scagliano contro i loro simili.

    «Certo che da queste parti non ci si annoia.» ghigna Siqquara ripulendosi dal sangue che le ricopre gran parte delle pelle scura.

    Sangue di mezzuomini.

    Il suo sguardo eccitato, febbrile per la foga del combattimento, la rende stranamente desiderabile nonostante i lineamenti masculini del volto.

    «Togliamoci di mezzo.» tuona Rovers indicando la direzione da seguire, nel fitto della boscaglia.

    La Centuria si muove, ma io mi soffermo un istante a godermi la scena: uno sciacallo enorme corre verso il capo della Tribù che ci ha aggredito. Ha muscoli delle zampe possenti e la velocità gli concede di schivare le creature deformi che tentano di intercettarlo.

    L’ometto dal copricapo di piume variopinte brandisce un bordone istoriato in direzione del nostro esploratore, invece di preoccuparsi del mostro che lo sta per aggredire.

    Uno di quei raggi neri, con cui pare impartire ordini ai propri uomini, vola a centrare Fëanor Miratur.

    Questo assume prima un’espressione impaurita, poi di sollievo, quando si rende conto che quel raggio non gli ha causato danni.

    Riporto la mia attenzione sul capo dei nemici, ora intento a placare l’assalto della bestia che gli è a ridosso, ma questa, a meno di un metro da lui, muta di forma assumendo le sembianze di un guerriero tozzo che gli si avventa al collo.

    «Un mutaforma.» dice il Maestro al mio fianco e solo allora mi rendo conto che anche lui si è fermato, rapito dalla scena.

    Il guerriero-sciacallo ha estratto una lama d’ossidiana con la quale sta tranciando la testa del capo avversario, dopo avergli squarciato la gola.

    Altri guerrieri gli si sono affiancati e combattono duramente assieme ai loro fedeli sciacalli.

    A opera ultimata il mezzouomo-mezzoanimale innalza il trofeo grondante sangue e urla di selvaggia soddisfazione.

    I nemici fuggono.

    Tutti tranne un drappello che si accanisce su Fëanor.

    E’ il momento anche per noi di andarcene e raggiungere il resto della Centuria.

    «Sbarazziamoci di questi mostriciattoli e raggiungiamo gli altri, Maestro.»

    Il nostro battitore è circondato da mezza dozzina di guerrieri. Ne colpisco alle terga uno, ma questo, prima di morire, insiste nell’attacco a Fëanor; e così gli altri, indifferenti ai miei colpi, e a quelli di Shoggul, bersagliano il nostro scout.

    Quando infine riusciamo a rompere l’assedio, è troppo tardi. Lo scout perde sangue da numerose ferite, ma una, all’altezza dello stomaco, non lascia speranza.

    Neanche l’abilità di Elyn potrebbe salvargli la vita.

    La lancia è ancora incastonata nelle carni di Fëanor facendo scempio degli organi vitali a ogni suo movimento.

    Il volto di Minatur è pallido.

    «E’ stato maledetto.» mormora il Maestro d’Ossa osservandolo.

    «Andatevene…» riesce a dire l’esploratore, prima di crollare al suolo in una pozza di sangue.

    Il terreno assorbe avidamente la vita del mio compagno.

    Guardo il Maestro. Un breve cenno d’intesa, e così facciamo, lanciandoci nel fitto della vegetazione.

    Neanche trenta metri davanti a noi, la Centuria si è nuovamente fermata.

    Li raggiungiamo e comprendiamo cosa li abbia trattenuti.

    Un folto gruppo di indigeni ci sbarra la strada. Hanno le armi in pugno, ma non ci aggrediscono.

    Non abbiamo vie di scampo.

    Uno di loro indossa un copricapo ricavato dalla testa di uno sciacallo. E’ lui a farsi avanti, il volto scavato di rughe che mostra un’espressione indecifrabile.

    Un accenno di sorriso sghembo, forse.

    «Salve stranieri, io sono Kiquathu, capo del Clan dello Sciacallo.»

    La parlata ha un accento grottesco, tuttavia non vi sono dubbi sul fatto che utilizzi la nostra lingua.

    Guardo Rovers per fiutarne le intenzioni. Di sottecchi sta valutando il numero degli avversari e le possibili vie di fuga. Deifobo stringe in pugno un dardo duwan.

    Con quello potremo avere il giusto diversivo per fuggire.

    Il comandante fa cenno di temporeggiare.

    «Salve a voi, nobile Kiquathu, e grazie per averci aiutato.» azzarda Rovers balbettando quel nome impossibile da pronunciare.

    Alle nostre spalle compare un altro drappello di indigeni, capeggiati dal guerriero-sciacallo che porta ancora con sé il trofeo della testa mozzata allo stregone nemico.

    ReCorvo, in retroguardia, alza le asce gemelle con fare minaccioso, ottenendo in risposta urla selvagge dal gruppo appena giunto.

    «Calma, stranieri.» interviene il nostro interlocutore «quello è Tha-ho, il mio guerriero ombra, non avete nulla da temere.»

    Sarà, ma nessuno accenna ad abbassare le armi.

    «Cosa vi spinge nel nostro territorio?»

    Osservo gli sguardi lussuriosi di quelle creature immonde posarsi sui membri femminili della Centuria. Un misto di desiderio smodato e odio senza senso.

    I loro occhi porcini non smettono di fissarle, come ipnotizzati. Membri grotteschi si irrigidiscono spuntando dai brandelli di pellicce da cui sono coperti.

    Elyn è terrorizzata, mentre Zitara e Siqquara rispondono con aria di sfida.

    E’ il Templare a farsi avanti, strappandosi alla presa oramai senza forza della curatrice.

    «Chiediamo venia per aver varcato i confini del vostro regno senza chiedervene il permesso, ma il nostro viaggio è stato turbolento…»

    L’espressione di quello che si è presentato come il capo clan muta non appena vede l’abbigliamento del Duca.

    «Tu sei un maledetto vesti bianche. Un invasore!»

    Gli occhi dell’ometto sono colmi d’ira, mentre quelli del copricapo paiono emettere un bagliore, come se la bestia fosse ritornata in vita a reclamare le proprie spoglie mortali.

    Al suo fianco i guerrieri fanno un passo avanti e gli sciacalli riprendono a ringhiare, il pelo alto sulle schiene.

    «Avete frainteso» intervengo «come vi stava dicendo Savio, il nostro viaggio è stato movimentato… quelle vesti appartenevano a chi ci ha attaccato. Abbiamo dovuto combattere…»

    «Ma cosa…» accenna il Templare, ma vedendo le occhiatacce di Rovers e di Zitara, riesce a contenere la propria boria fuori luogo.

    Kiquathu soppesa le mie parole, anche se invero sembra stia ascoltando delle voci che solo lui riesce a sentire.

    I guerrieri fremono dal desiderio di saltarci addosso. Non oso immaginare cosa sarebbero capaci di farci. Soprattutto alle donne.

    «L’entità che ti parla è saggia, Divinatore.» afferma con sicurezza incrollabile il Maestro d’Ossa.

    Kiquathu si ridesta e gli pianta addosso le sue doppie coppie di occhi. Quelli dorati del copricapo brillano di una luce inquietante.

    «Riesci a percepire le parole di Sciacal, uomo dipinto?»

    Il teschio disegnato sul volto di Shoggul pare contrarsi in un ghigno diabolico.

    «Percepisco la sua empatia nei nostri confronti. Questo territorio è conteso, e noi non siamo suoi nemici.»

    Lo guardo pieno di ammirazione.

    Deifobo alza gli occhi al cielo borbottando qualche imprecazione. So cosa pensa: il Maestro d’Ossa è un pazzo e finirà col metterci nei guai.

    Il comandante è di tutt’altro avviso e con un cenno dà carta bianca a Shoggul.

    Kiquathu è immobile, forse scandaglia la mente del Maestro. Uno sciacallo gli si avvicina e questo gli mormora qualcosa all’orecchio. La bestia, docile e obbediente, trotterella verso di noi, si affianca a Shoggul e annusa con insistenza il Santo.

    Il silenzio avvolge l’intera zona. Tutti tratteniamo il respiro in attesa della sentenza. Un giudizio che potrebbe coincidere con la nostra condanna a morte.

    La Centuria ha già perso un componente oggi, non accadeva da anni…

    ReCorvo e Siqquara stringono le armi, irrequieti, poi, il canide emette un uggiolato per noi impossibile da interpretare.

    Il Maestro d’Ossa cala la mano scheletrica a carezzare la nuca dell’animale, dietro le orecchie, mentre il Divinatore e il suo guerriero ombra si scambiano un’occhiata d’intesa.

    Lo sciacallo si getta al suolo, pancia all’aria come un cucciolo di cane desideroso di coccole. Carezze che Shoggul non tarda a offrirgli.

    5. Cuore dei Quarti – Assedio ad Askeen.

    «Comandante Allurian, riuscite a vedere qualcosa?»

    La voce del Rabdomastro Malet era carica d’apprensione, mentre osservava l’ufficiale scrutare l’orizzonte col cannocchiale.

    In armatura completa, lucidata e oliata, il soldato gli trasmetteva una certa sicurezza, anche se l’invocatore sapeva che chiunque avesse avuto il coraggio di aggredire la fortezza doveva essere munito di doti che andavano ben oltre la semplice forza fisica. Oppure essere totalmente pazzo, e in entrambi i casi i pericoli erano quanto mai concreti.

    Gli elementi posti a difesa della fortezza erano invisibili, avvolti da una cappa di tenebra.

    Solo i riflessi dell’ultima cerchia di mura elementali, costituita dalla sottile membrana d’Aria di Zefiri e Geni abbracciati l’un l’altro, danzava appena visibile nell’oscurità a un centinaio di passi dalle nere mura di Askeen.

    «Nulla di rilevante, Rabdomastro.»

    «E come potrebbe essere altrimenti?» chiese stizzita Binah. «La Forgia di Fiamma è invalicabile!»

    «Non dare nulla per scontato ragazza. Non questa notte.» la rimproverò l’anziano Geomastro.

    Binah lo guardò con disprezzo.

    «Solo perché la vostra misera Foresta di Pilastri è stata violata, non vuol dire che il nostro nemico sia invincibile. Le altre difese sono ben più resistenti.»

    «Non è stata violata, ha solo deciso di non combattere.» rispose l’anziano invocatore, contrito.

    «Peggio ancora! Questo dimostra l’inutilità della vostra scuola di pensiero e ancor più i rischi che questa comporta per la difesa di Askeen.»

    La giovane era furiosa.

    La tensione del momento attizzava l’odio innato fra evocatori ed invocatori, che in lei era ancor più marcato.

    «Shui, la Foresta di Pilastri, non mi ha abbandonato. Anzi, tutt’altro! Mi ha avvisato sull’origine dei nostri aggressori. Un elementale evocato avrebbe forse combattuto, essendoci costretto, ma in caso di sconfitta non vi avrebbe certo reso un tale servigio, limitandosi a tornare nei propri Regni e disinteressandosi al vostro destino.»

    «E allora decidetevi a parlare!» sbottò Keter, l’Aeromante.

    Il vecchio lo scrutò con una luce assassina negli occhi intaccati dalla cataratta.

    «I Domatori di Demoni cercano di liberare il loro Signore.»

    Calò il silenzio per qualche istante.

    «Quegli invasati cercano il suicidio quindi?» concluse Binah, con sollievo, ben sapendo che in passato più di un Domatore era già stato respinto.

    «Questa volta non si tratta di un singolo individuo reso folle dalle sue ricerche scriteriate. Sono almeno una mezza dozzina e hanno truppe al loro seguito.

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