Voodoo
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Anteprima del libro
Voodoo - Andrea Zanotti
Voodoo
"Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere dei mescitori che gliene versano quanta ne vuole, fino a ubriacarlo, allora accade che, se i governanti resistono alle richieste dei cittadini sempre più esigenti, sono denunciati come tiranni.
E avviene che chi si dimostra disciplinato è definito un uomo senza carattere; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come un suo pari e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui.
In questo clima di libertà e in nome della medesima non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia."
PLATONE
1. Risveglio
Un brusio di sottofondo mi tormenta le orecchie. Un pigolare ossessivo che pungola la mia mente, cercando di ridestarla.
Ho sonno e nessuna intenzione di alzarmi.
La sveglia non ha ancora suonato, lasciatemi stare, dannazione!
Le lagnanze però non cessano. Una nenia molesta e ripetitiva fatta di parole che non riesco a cogliere, perché solo bisbigliate. Un mantra che sa di preghiera petulante.
Non mi sarò mica addormentato durante la Santa Messa?
Cerco di aprire le palpebre, ma le sento pesanti come saracinesche rugginose. Paiono incollate. Combatto, le sollevo a forza e mi riscuoto, sentendo le gambe formicolare.
Cazzo, luci soffuse, candele, ombre e persone dai volti cupi. Devo proprio essere in chiesa, che figura di merda!
Una mano mi afferra la spalla e mi strattona, facendo traballare la sedia sulla quale intuisco di essere seduto. Chissà da quanto, a giudicare dal formicolio che mi rende le gambe due pilastri di cemento insensibili.
Ancora non riesco a mettere a fuoco, ma il naso mi funziona bene, purtroppo. Un’ondata di lezzo da cloaca mi investe, un misto di alcool di pessima qualità e letame. Un volto rugoso e sporco mi si para innanzi, sbraitando parole che surclassano e azzittiscono per qualche istante il vociare molesto. La voce è roca, incrinata da una sbronza tonante, e ogni sillaba mi perfora i timpani.
«Ben arrivato, ragazzo.»
Sputi viscidi e maleodoranti mi bagnano il viso. La bocca dell’uomo che rumina tabacco è orrida, una parata di denti marci e spazi vuoti. La barba è un inferno di filo spinato nero, bisunto; gli occhi folli nel loro reticolo di capillari scoppiati.
La paura mi scuote, cerco di alzarmi, di allontanarmi, ma il bruto mi strattona costringendomi a sedere. È alto, forte e muscoloso, nonostante l’enorme ventre. Dalla mia postazione a sedere mi pare un titano, un demone uscito da qualche abisso fetente.
«Dove credi di andare, anima candida?» dice sprezzante, infilandomi un laccio al collo.
Non capisco che diavolo stia facendo, cerco di fermarlo, ma ho le braccia deboli.
«Cazzo fai?»
Mi rifila un ceffone che per poco non mi stacca la testa.
Lo sconosciuto mi sovrasta, mi sento un Bambi appena nato in balia di un orso idrofobo. La canapa del lazo mi smeriglia le carni del collo, mentre mi guardo attorno terrorizzato, in cerca di aiuto.
Ora sono sveglio, l’adrenalina mi scorre a fiumi nelle vene. Osservo speranzoso: sagome tetre sono sedute ai tavoli di quella che sembra una taverna, un locale angusto e fumoso con finestrelle minuscole dalle quali non entra alcuna luce. Sono delle lampade a olio e un candeliere in un angolo a fornire la blanda illuminazione di quest’antro. La luce, assediata com’è dal fumo di mille sigari e pipe, potrebbe essere soffocata in qualsiasi istante, lasciandoci al buio più completo.
Nessuno pare interessarsi al ceffo che mi sta brutalizzando.
«Lasciami, bastardo! Qualcuno mi aiuti!» urlo con voce talmente effeminata da farmi ribrezzo.
Nessuno reagisce, nessuno alza neppure il capo nella mia direzione.
L’uomo ride, rifilando una scarpata alla mia sedia e facendomi volare all’indietro. Il cappio si stringe segandomi il collo e attutendo la caduta.
Boccheggio in cerca d’aria. La botta in testa l’ho sentita bene. Il pavimento di legno, duro come marmo, puzza di vomito e segatura. Il bruto mi è sopra e sorride compiaciuto.
Cerco di respirare, la gola sigillata in una stretta soffocante, quando una sfera brillante mi compare davanti agli occhi, dal nulla, sostituendosi al brutto muso. Tutta la mia attenzione viene catturata da quell’oggetto, facendomi dimenticare il pericolo: è magnifica. Non ho mai visto nulla del genere. Una luce calda pulsa al suo interno sotto forma di nebbia cristallina contenuta in un involucro traslucido. Danza nell’aria ed emette un brusio, parole che ora riesco a cogliere.
Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte…
Mi sento rinfrancato, ogni parola un balsamo capace di lenire lo stordimento che mi affligge. Quasi dimentico il mio aggressore, sennonché la mano callosa di questo si stringe sulla sfera e me la porta via. Mi pare di assistere a uno stupro, mentre osservo impotente.
Vedo la mano carezzare il globo lascivamente, la lingua dell’uomo, fessurata e chiazzata dal tabacco, spunta dalla barba per passare sulle labbra in un gesto osceno. Poi porta la sfera all’altezza del cuore e la schiaccia con forza contro il tessuto lordo del suo pastrano marrone. L’oggetto cantilenante sparisce fra le pieghe della veste, mentre l’uomo viene scosso da brividi di piacere.
«Ottima questa profferta, roba pura. Lo sapevo che saresti stato un buon investimento. Ora in piedi, però!»
Mi strattona come fossi un cane al guinzaglio. A fatica mi sollevo, le gambe che stentano a reggermi. Mi gira la testa e mi manca l’aria. Vertigini e stordimento sono concetti vaghi. Non ho idea di dove diavolo mi trovo, né di come ci sono finito.
Tutt’attorno gli astanti sono rimasti impassibili, i volti grigi e smorti che fissano il vuoto. Il barman sta servendo un altro cliente e finge di non aver neppure visto la scena, indifferente persino alla sedia mandata in frantumi dal gorilla. Non riesco a far altro che seguire l’energumeno verso l’uscita, sollecitato dai rudi strattoni del cappio.
Passiamo di fianco a un tavolo al quale stanno seduti tre uomini. Anzi, una è una donna, lo intuisco solo dai lunghi capelli e dalle spalle esili; per il resto hanno tutti volti scavati, occhiaie profonde e un colore della pelle malsano. Fissano il vuoto, inebetiti. Forse sono terrorizzati dall’energumeno quanto me e tentano di diventare invisibili, stando immobili.
All’improvviso innanzi alla donna compare un’altra sfera. È bella, luccica di un bagliore perlaceo e parla.
Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il…
Il mio carceriere l’agguanta prima che la mano della donna la raggiunga. Questa emette un verso incomprensibile, di stizza, si alza, forse vuole reclamare ciò che le appartiene, ma l’uomo estrae un coltellaccio e le apre il collo da parte a parte. Un gesto rapido, preciso e brutale.
Quasi svengo mentre la donna crolla al suolo. Anche l’assassino distoglie lo sguardo, ma non faccio in tempo a chiedermi se sia il rimorso a farlo muovere, che un lampo accecante mi brucia gli occhi. Fitte dolorose mi invadono la testa, quasi strali divini mi fossero passati attraverso i bulbi oculari, incenerendo tutto. Ne sarei quasi lieto.
Quando la vista si decide a tornarmi, il corpo della poveretta è svanito e il troglodita si sta comprimendo la sfera nelle carni. Gode.
«Giornata fortunata, ragazzo» grugnisce, strattonandomi avanti.
Incespicando lo seguo, mentre con mano tremante mi rovisto nelle tasche in cerca del cellulare. Il panico fa di me ciò che vuole.
Perché non ci ho pensato prima? Devo chiamare la polizia!
Concentrato nella mia cerca infruttuosa non mi accorgo che il bruto si è fermato e gli sbatto contro. Si volta e mi spinge indietro fino a tendere la corda; il cappio torna a mordermi le carni.
«Eh, campione, il ragazzo viene con me, liberalo.»
La voce proviene da un altro ceffo. Ritto al bancone, un uomo sulla quarantina, dai capelli lunghi e neri è intento a fumare una sigaretta e a bere da una bottiglia di birra con una flemma surreale. La sua voce è calma, cristallina. Porta un cappello a tesa larga e un poncho dalle varie tonalità del marrone. È la metà del bisonte che mi impicca a ogni passo, ma sembra sicuro di sé.
Per un istante credo di essere finito su un set di Cinecittà, ma il dolore a testa e collo, e la poveretta sgozzata, mi ricordano che c’è ben poco di finto in questa situazione assurda.
«Parli con me, ometto?»
Il gorilla ghigna, la mano che ripone il coltellaccio per calare rapida sulla fondina dove mi accorgo alloggia il calcio di una pistola. Ancor prima che arrivi a impugnarla, un tuono fa vibrare le pareti della bettola. Mi tappo le orecchie. Troppo tardi. Vedo il corpo massiccio del mio aguzzino volare all’indietro con una voragine aperta nel petto. Con fragore rovina al suolo prima che un nuovo lampo faccia sparire anche lui.
Rimango accecato per qualche istante, poi porto lo sguardo sul cowboy: ha un lembo del poncho sollevato sopra la spalla e il braccio scoperto impugna un fucile a canne mozze, fumante. Rovino sulle ginocchia sentendo lacrime scorrermi sulle guance.
Dove diavolo sono finito?
L’uomo si avvicina, ogni passo scandito dal tintinnare degli speroni. Le altre persone di questo saloon grottesco non battono ciglio, immobili e perse nei propri fottuti pensieri da mentecatti. Delicatamente il cowboy mi solleva e fa per spolverarmi le vesti. Solo ora mi accorgo di indossare quello che sembra un sacco di juta.
Che mi è successo?
«Ti capisco ragazzo, sei confuso, vero?»
Ragazzo? Avrà sì e no qualche anno più di me.
«Non temere, ora sei in buone mani.»
Lo fisso negli occhi vedendo solo un misto di determinazione e follia. Per lo meno non mi ha ancora aggredito.
«Vieni, prendiamo da bere, ti farà bene.»
Sono talmente fuori di me, spaventato e confuso, che l’idea di ingollare un po’ d’alcool mi pare la soluzione migliore. Ci accomodiamo al bancone e il tizio mi offre una sigaretta.
«Purtroppo il bastardo» dice indicando il posto dove sarebbe dovuto giacere il cadavere dell’energumeno, dissoltosi nel nulla, «ha fatto fuori il tuo canarino, altrimenti ti avrebbe spiegato tutto.»
Il mio canarino? Il mio canarino mi avrebbe spiegato tutto?
«Due, mister, per cortesia» dice l’uomo al barman non distogliendo lo sguardo dal mio volto. Devo ispirare compassione nello stato confusionale in cui verso, ma questo tizio pare abbia il volto intagliato nel basalto.
«Io sono Sparviero» si presenta, forse cercando di farmi coraggio, di farmi capire che è un amico, non ha cattive intenzioni, ma sono sotto shock e comunque non potrei rispondergli neppure se volessi: non ho idea di come mi chiamo.
Questa constatazione non fa che gettarmi ancor più nello sconforto. Sento il panico montare nell’addome risalendo i polmoni e bloccando le vie respiratorie. Boccheggio. Il tizio mi posa una mano sulla spalla, a confortarmi, poi un altro globo luminescente e cianciante mi appare innanzi. Mi ritraggo, certo che il pistolero mi faccia lo scalpo pur di impossessarsene. Il barman nel mentre ci ha portato due boccali di terracotta e fissa la sfera con cupidigia.
«Mettila via» mi consiglia Sparviero, «è tua.»
Trovo il coraggio per posare la mano sull’oggetto incantato. È magnifico, liscio, piacevolmente tiepido e la voce è una melodia soave.
Accoglilo e fagli trovare tante caramelle…
Sento una fitta al cuore, mentre il ricordo della mia piccola mi invade la mente. È la voce di Nicoletta, certo, la