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Forse non tutti sanno che in Friuli...
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E-book457 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di una regione tutta da scoprire

Un mosaico di storie mai ascoltate

Dai primi reperti preistorici ai villaggi fortificati dell’età del Bronzo. Dalla presenza dei Celti alle testimonianze dei Longobardi e degli Slavi nella pianura friulana. Ma non solo: storie inedite su Aquileia durante la lotta per le investiture, un affresco del Friuli medievale e della sua economia agro-silvo pastorale. E molte altre vicende ancora poco note sul Friuli, che queste pagine vanno a illuminare: i fatti che coinvolgono la famiglia dei Savorgnan, il passaggio dall’amministrazione francese agli Asburgo, la lunga dominazione viennese. Fino ad arrivare alle due grandi guerre, al rinnovamento della regione che ne seguì e all’episodio tragico del 6 maggio 1976: il distruttivo terremoto. Un libro che racconta il Friuli, dalle origini ai giorni nostri, attraverso vicende minori e mai ascoltate, che camminano parallelamente alla Storia ufficiale, arricchendola di aneddoti e curiosità.

Tra i temi trattati nel libro:

• Feminis: ritratti di donne friulane
• Strade di gusto e di sapori nel Friuli di collina
• La terra dell’orcolat: il Friuli, paese di terremoti e primule
• Novecento friulano. Gli ultimi 100 anni in Friuli come nessuno ve li ha mai raccontati
• La lunga storia di un popolo che non sta scritta sui libri di testo 
• Nel segno di Giona: un viaggio nelle terre del mito
• Aquileia. Uno stato patriarcale nel cuore dell’Europa medievale
Angelo Floramo
laureato in Filologia latina medievale e dottore in Storia medievale, insegna Lettere e Storia nella scuola media superiore. Ha collaborato con l’Archivio Storico italiano, è consulente scientifico della biblioteca Guarneriana Antica di San Daniele del Friuli e collabora con il GRIMM, Gruppo di Ricerca sul Mito e la Mitografia dell’Università di Trieste e con l’Archivio Storico Italiano di Firenze.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2017
ISBN9788822715234
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che in Friuli... - Angelo Floramo

    La lunga storia di un popolo che non sta scritta sui libri di testo

    immagineimmagine

    Constitutioni de la patria del Friuoli, incunabolo stampato a Udine nel 1484.

    Introduzione

    In una prospettiva storica e antropologico-culturale, secondo una visione che non tenga conto del quadro politico ma piuttosto di quello nazionale, di sostrato, la carta dell’Europa presenta una varietà e una colorazione straordinarie di popoli e di identità, tradizioni, lingue, culture: tutte imbrigliate, e magari non fosse così, dentro la rete degli stati che con la loro sovranità esercitata sul territorio di competenza spesso soffocano le specialità e le differenze, preferendo l’omologazione, molto più semplice da gestire, alla promozione della diversità. Il sovra stato europeo non fa altro che applicare l’identica direttiva in una prospettiva macroscopica, attraverso un sistema giuridico centralista e anche piuttosto cieco, che a parole si definisce sensibile alla differenza culturale ma poi nei fatti fa molto poco per promuoverla.

    Il concetto di autonomia passa dalle sue stesse radici etimologiche: autòs, nel senso di stesso, e nòmos, nel significato di legge: non c’è vera autonomia se non si prevede la possibilità, per un popolo, di emanare da se stesso, in piena libertà, il sistema di leggi che lo regolano, senza interferenze, evitando ovviamente ogni sottomissione a enti che non siano parte di esso o non siano da lui riconosciuti come estensione della sua stessa identità. La lotta politica e ideologica, nel senso nobile del significato, è dunque inevitabilmente figlia della consapevolezza di essere una nazione. E questo traguardo passa solo attraverso un percorso di autostima e di riconoscimento di una storia in cui il senso di appartenenza risulta più grande e più forte di quello derivante dagli ordinamenti e dalle strutture, che al contrario sono sempre etero-nomòs, e dunque inevitabilmente lontani da quella pasta che costituisce il legame di una civiltà.

    Il vero salto culturale dunque si deve fare superando il concetto politico di res publica per approdare a quello più forte e antico, in quanto profondamente etico prima che politico, di οἶκος. Se infatti la prima è una proiezione artificiale, studiata a tavolino e concordata, e si fonda su di un patto (pactum sociale), il secondo gode di un fondamento naturale, e nasce in una sincronia perfetta tra ambiente, economia, società, politica e cultura, laddove ognuno di questi elementi è il risultato dell’intersezione di tutti quegli altri. La res publica può essere terribilmente esclusiva, elitaria, oligarchica, fondata sul potere di minoranze culturali ed economiche capaci di ottenere la rappresentanza popolare, facilmente manipolabile quando il popolo scade nella massa, una folla priva di identità che preferisce sempre delegare piuttosto che impegnarsi; l’οἶκος invece è per sua stessa natura inclusivo, persiste solamente se tutti i suoi componenti sono permeati di una grande forza empatica; è per vocazione lontano da ogni gerarchia e il suo fondamento non è la res, la cosa, il bene materiale, ma un patrimonio condiviso di generazione in generazione, ovvero la cultura: sia essa materiale, operativa, simbolica, mitopoietica, ereditata dai padri e dalle madri nei secoli. Dunque se la res publica non è sempre patria, οἶκος viene investito di questo titolo in una forma quasi naturale. Anzi, guadagna anche qualcosa in più, dal momento che non è più soltanto patria ma anche matria, e si fonda su di un legame fortissimo fra uomini e donne che si considerano uniti in quanto fratelli, sorelle e figli di una comune e irrinunciabile appartenenza.

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    Stampatori all’opera, in un’antica incisione.

    Sarebbe troppo facile cominciare con la celebre raccolta delle Constitutiones Patriae voluta dal patriarca Marquardo von Randeck (1366), di cui si dirà, per evidenziare l’inizio di quella vocazione identitaria e autonomistica del Friuli partendo da un livello cronologico così basso. Bisogna invece pensare che tale documento, volgarizzato per la prima volta dal latino per mano di Pietro Edo (Pieri del Zochul), umanista friulano, e stampato a Udine da Gherardo di Fiandra nel 1484 – e fu il secondo libro stampato in Friuli: il primo tramandava le ricette di cucina del Platina, il cuoco del patriarca di Aquileia – va considerato come il fondamento, non il principio, di un percorso che parte da molto più lontano e delinea, secolo dopo secolo, il profilo di una nazione che ha vissuto una storia plurale, in cui il carattere schiettamente popolare della sua cultura è sempre stato tenuto in debito conto dalle strutture politiche e amministrative chiamate a reggerne il destino.

    I Longobardi

    Già in epoca longobarda, tra il secolo vi e il secolo ix, il Friuli godeva di una grande autonomia rispetto alla corona che reggeva gli ampi e frammentari territori del regno da Pavia. Anzi, tale autonomia fu così estesa ed esplicita che spesso si colorò di un deciso sentimento di indipendenza e di ribellione da parte dei duchi friulani, forti di una coscienza di quella specialità avvertita come propria, riconosciuta quasi come elemento contraddistintivo e unificante, talmente incorporato nel sistema amministrativo che ogni forma di centralismo veniva sostituita da una straordinaria responsabilizzazione politica della periferia. Così il duca del Friuli, che risiedeva a Cividale fin dai tempi della prima conquista longobarda a opera del re Alboino (569), aveva assegnato la regione della Carnia a un suo gwas (termine che verrà più tardi, in epoca franca, latinizzato come gwassallus - vassallus), un suo rappresentante diretto, chiamato anche sculdascio, che poteva esercitare un potere amministrativo e militare, affiancato dal vescovo di Zuglio (la cui sede, dopo la distruzione operata nel 705 dagli Avari venne spostata a col di Zucco, presso Invillino) che reggeva la rete di tutte le pievi e aveva competenza in ambito di Fede, depositario e garante di quella sapienza secolare che affondava nella liturgia aquileiese patriarchina. Fede, economia, politica si intersecano da sempre: nel 762 i tre fratelli longobardi Erfone, Marco e Anto, con la celebre donazione sextense, regalano alcune loro terre a una famiglia di monaci che in virtù della loro generosità potranno fondare l’abbazia di Sesto al Reghena e il monastero femminile di Salt (Saltus, ovvero bosco, terreno incolto) presso Povoletto: una comunità che fruiva diritto di pascolo su di una montagna da cui poteva trarre legno, fieno e latte. Il toponimo è assai curioso, e parla chiaro: si tratta di Pradumbli (prât das dumblas ovvero il prato delle signore, in questo caso delle monache), un villaggio della Val Pesarina, in Carnia. Come volevasi dimostrare dunque: una comunità che si basa sul rispetto dei più piccoli, considerati immagine speculare dei più grandi e quindi legittimati a godere di tutto il rispetto di cui sono degni.

    immagine

    Re longobardo con cortigiani, incisione del vii secolo d.C.

    Gli Slavi

    Anche le comunità slave che si insediarono entro i confini della Patria del Friuli a più riprese nel corso della storia medievale di queste terre portano con sé una organizzazione politica e sociale improntata prima di tutto al bene comune, consapevoli che la condivisione dei beni è un principio inalienabile: si chiamano significativamente zadruga, un termine che etimologicamente significa per gli altri (nelle lingue slave contemporanee indica ancora oggi una società cooperativa). Un concetto di grande valenza etica prima ancora che economica e politica. Da una prima fase di consolidamento e di controllo dei pascoli fra la Drava e la Sava (701-705) queste popolazioni si spingono nell’area del cividalese (720) proprio nel momento in cui, in terra carniolana (attuale Slovenia settentrionale) si stava affermando una Patria Sclavorum. In un secondo momento, tra i secoli ix e xi, gli Ottoni, imperatori sassoni del Sacro Romano Impero Germanico, decideranno di ripopolare le terre del Friuli, specialmente la pianura, con altre genti di ceppo slavo dopo la vastata hungarorum, ovvero quella terrificante devastazione operata dagli Ungari nel secolo x e che fu talmente tanto feroce da spopolare quasi del tutto le campagne friulane. Anche queste nuove comunità si organizzarono in forma di villaggio (hubna vas), fondata sulla stessa rete cooperativa di reciproca solidarietà. L’ultima fase di ripopolamento venne invece ordinata e pianificata dal patriarca, quando ormai la Patria del Friuli, formalmente costituitasi nel 1077, era già una realtà istituzionale riconosciuta in tutta Europa. Diverse vallate alpine vennero così colonizzate da interi clan slavi, che portarono con sé lingua, tradizioni, credenze e miti, oltre a tutta la sapienza tradizionalmente acquisita, da secoli, nella gestione della montagna, dei suoi boschi e dei suoi pascoli, allevando il bestiame e fondando la civiltà del miele, di cui erano da sempre profondi conoscitori.

    È in questi secoli che nelle valli, per le stesse ragioni, si insediano anche molteplici dorf (villaggi) di origine germanica: la terra friulana diventa così culturalmente ricca e plurale, attraversata da molteplici intersezioni linguistiche e antropologiche. Retta da un patriarcato in cui potere temporale e potere spirituale si fondono nelle mani di un principe che è anche vescovo e patriarca, essa si riconosce, fin dalle sue lontane origini, in una prospettiva territoriale, geografica e culturale di amplissimo respiro. Le sue radici affondano da sempre in una specialità che per le sue caratteristiche eterodosse venne sempre guardata con un certo sospetto, se non con diffidenza e aperta ostilità, da quella ecumene curiale romana che avrebbe preferito eliminare in sé ogni diversità a favore di una voce unica, sola e sovrana, che in effetti nei secoli avrebbe più volte tacciato di eresia tutti coloro che si opponevano a una visione così espressamente centralistica e autoritaria. Anche la Chiesa aquileiese cadde più volte nel suo mirino, fino alla definitiva soppressione del patriarcato avvenuta nel 1751. Non è un caso che Sant’Ermacora, protovescovo e martire aquileiese, secondo l’antica tradizione così ben rappresentata da un canto liturgico del secolo xii, riceve l’investitura episcopale direttamente dal popolo, prima che San Marco lo istruisca con la sua dottrina e San Pietro gliela confermi.

    I Franchi

    Anche l’età carolingia conferma la profonda vocazione identitaria del popolo friulano. Deposto Baldrico, l’ultimo duca longobardo (829), il territorio fu consegnato all’autorità del marchese Everardo (867), che saprà fare del contesto friulano un centro straordinario di cultura e di civiltà: le sue abbazie e le sue pievi, utilizzate anche come modello di gestione del territorio in cui la base, come si è visto, riveste un ruolo di grande importanza, seppero sempre riconoscere alla componente locale una grandissima rilevanza, valorizzandone le peculiarità. Unite in una rete europea estremamente vasta, aperta a tutti i territori dell’Impero carolingio, divennero i nodi per la diffusione e lo scambio di manoscritti, idee, nuove prospettive capaci di confermare in tutta la sua specialità il profilo di queste terre; una tendenza che andò incrementandosi nel corso del secolo ix in virtù delle scelte politiche e amministrative compiute dagli Ottoni, gli imperatori sassoni del Sacro Romano Impero Germanico. Furono loro a preparare le condizioni storiche, sociali e politiche per la fondazione di un principato ecclesiastico nel cuore dell’Europa che di lì a qualche anno prenderà il nome di Patria del Friuli.

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    Carlo Magno in un’antica incisione.

    L’età patriarcale

    L’epoca d’oro della storia friulana resta ovviamente quella patriarcale. La sua istituzione dopo l’atto fondativo, datato il 3 aprile del 1077, permette a una lunga sequela di patriarchi tedeschi di reggere il solio aquileiese per diversi secoli. Furono principi illuminati, legati per fedeltà alla corona imperiale ma al contempo consci di essere i rappresentanti di una terra del tutto particolare, che meritava di essere retta con un’attenzione rivolta alla sua specificità; ognuno di loro, perlomeno fino alla crisi istituzionale e politica del patriarcato (nella seconda metà del secolo xiv) porta avanti una sua missione specifica: Poppone (Treffen, 1019 - Aquileia, 1042) è la Fides (la fede); Bertrando da San Genesio (Guascogna, 1258 - San Giorgio della Richinvelda, 1350) è la Societas (la comunità); Niccolò di Lussemburgo (Praga, 1322 - Belluno, 1358) è la Sapientia (la sapienza) ; Marquardo von Randeck (Augusta, 1296 - Trieste, 1381) è la Lex (la legge), soltanto per citare i più famosi, i quali furono capaci di mettere mano a riforme che investirono i quattro elementi principali che fondano l’identità e l’autonomia di un popolo nonché la sua definitiva vocazione libertaria. Poco conosciuta e pochissimo studiata, anche in Friuli, l’opera dei vescovi di Bamberga, che reggevano, in contemporanea ai principi patriarchi, il territorio della Valcanale, da Pontafel (il villaggio gemello a Pontebba ma situato in terra imperiale) fino a Tarvisio e Raibl (Cave del Predil). Seppero interpretare il territorio, quasi completamente occupato dall’estesissima foresta di Tarvisio (ancora oggi una delle estensioni boschive più grandi e importanti d’Italia) come un’opportunità per stimolare negli abitanti dei villaggi soggetti alla loro amministrazione una vocazione all’economia agro-silvo-pastorale che in anni recentissimi torna ad assumere un ruolo di grande importanza per uno sviluppo armonico del territorio secondo i principi di un’economia sostenibile. Nella raccolta degli statuti della foresta, firmati in idioma Wendish (una forma di sloveno antico) dai vescovi a partire dal secolo xiv, si legge: «Noi per primi, che siamo i vescovi di Bamberga, vogliamo scrivere questa legge per proteggere il nostro bosco, dal momento che il legno utilizzato per far funzionare le miniere, le officine e far vivere i villaggi non venga a mancare e i nostri figli non restino senza legno e senza carbone. Così coloro che verranno dopo di noi potranno come noi godere del bosco». Certamente anche la sede patriarchina ha sempre avuto un’attenzione particolare per la montagna e le sue genti, dimostrando ancora una volta che un sistema fondato sulla specialità e che nasce da una visione politica autonomista sarà sempre attento a preservare e a mantenere quello stesso principio nei confronti di tutto il suo territorio, promuovendo una struttura organizzativa e amministrativa che privilegi sempre l’organizzazione di cellule coordinate fra di loro e al tempo stesso perfettamente funzionanti, senza interferenze da parte delle autorità superiori che ne soffochino la libertà di azione, ma che siano al contrario sempre pronte e disponibili a ricevere dalla base la propria legittimazione.

    La Carnia, in quest’ottica, venne divisa in quattro regioni, o meglio quartieri: la valle del But, che trovava il suo riferimento nella pieve di San Pietro di Zuglio; la valle del Degano, con la pieve di Gorto; l’alto e il basso Tagliamento, fino alla confluenza con il fiume Fella, territorio amministrato dalla pieve di Socchieve; la valle d’Incaroio, incardinata alla pieve di Tolmezzo. L’importanza strategica del sistema delle pievi è uno dei punti forti che contraddistinguono il profilo politico e amministrativo della Patria del Friuli: tutti si ricordano del sogno che fece il grande imperatore Costantino, il quale prima della battaglia decisiva combattuta nel 312 sul ponte Milvio ebbe la visione della croce e udì una voce che gli sussurrava "in hoc signo vinces": se apporrai questo simbolo sui tuoi scudi e sulle insegne dei tuoi legionari avrai la meglio sui tuoi avversari al seguito di Massenzio. Fede o malizia politica? Il popolo dei cristiani era ormai ben diffuso su tutto il territorio imperiale, anche se talvolta doveva agire con circospezione, in clandestinità. Da secoli ormai professava la sua fede in una rete di relazioni, i suoi fedeli si sostenevano vicendevolmente, formavano una comunità affiatata, solidale, ben organizzata. Averli dalla propria parte significava potersi giovare di una macchina logistica straordinaria, utile per sostentare l’esercito, indicare ai soldati i percorsi migliori, mettere in evidenza i pericoli di quei territori noti solamente a chi li abitava da secoli. E così, quando Costantino vince, nel grande Concilio di Nicea – che si tenne nel 325 – si proclama difensore della Fede di Cristo. Ma afferma che per poter adempiere al meglio a questo ruolo è necessario poter controllare l’intera rete organizzativa che il popolo dei cristiani si era dato. Così acquisirà uno strumento davvero unico per tenere unito l’Impero, dal Palazzo dell’Imperatore a Costantinopoli fino all’ultimo dei cristiani, nel più isolato e sperduto fra tutti i villaggi della Carnia.

    La civiltà delle pievi

    Pieve: il suo significato, che deriva dal latino plebs, sta a indicare propriamente il popolo dei credenti. La comunità, l’ecclesìa, per dirla in greco: uomini, donne, vecchi e bambini guidati da un pastore, il plebanus, nome che ancora oggi si usa nella lingua friulana, il plevan, per indicare il reggitore della parrocchia. Nell’organizzazione territoriale voluta dall’imperatore Costantino tutti i pievani avrebbero dovuto rendere conto al loro episcopus (etimologicamente colui che guarda dall’alto, che sovrintende), il vescovo; e tutti i vescovi dovevano obbedienza ai metropoliti, ovvero vescovi più prestigiosi in quanto le loro cattedre si trovavano nelle città più grandi dell’Impero: Roma, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Milano, Antiochia e ovviamente anche Aquileia. Infine tutti i metropoliti riconoscevano nell’imperatore il difensore della Fede e dunque ne seguivano le direttive, facendole poi rispettare per via gerarchica. Tale macchina, perfettamente funzionante, troverà più tardi un corrispettivo secolare nell’ambito della società feudale: Carlo Magno non fece altro, nella strutturazione del suo Sacro Romano Impero, che rispecchiare fedelmente la stessa piramide organizzativa nei ben noti vassalli, valvassori e valvassini. In quest’ottica la pieve risulta essere la tessera più importante: è lì che l’istituzione dialoga con il popolo, il quale non la riconosce estranea a se stesso. Nella Carnia tardo antica e alto medievale il pievano veniva spesso nominato dalla comunità dei fedeli, scelto in seno ai suoi esponenti più saggi e ragguardevoli. Diventava così espressione di una sensibilità che nel tempo si radicava in profondità nel tessuto sociale di appartenenza.

    Papa Gregorio Magno complicò ulteriormente il quadro suggerendo di erigere le pievi in quei luoghi in cui per secoli le genti, prima ancora dell’arrivo del Verbum cristiano, avevano adorato i loro dèi: fonti di acqua sorgiva, alberi millenari, grotte, tumuli diventano il cuore della nuova religione: l’antico si mescola al nuovo dando vita a una spiritualità gravida di mistero, ricca di quelli che gli antropologi amano chiamare sincretismi. Nel perimetro sacro della pieve i culti antichi, pagani, vengono riconvertiti nella devozione a qualche santo che per il nome che porta o per la tradizione che lo contraddistingue ne evoca gli incerti profili, ne suggerisce l’eco. Già qualcosa s’è detto a proposito della misteriosissima dedicazione a Sante Sabide, spia della sopravvivenza della religione ebraica in terra friulana: ma scavando sotto l’effigie di qualche San Cristoforo si ritrovano tracce del dio Beleno, quella straordinaria divinità panceltica sovrintendente il delicato avvicendarsi dei solstizi, signore delle acque e del fuoco, venerato con riti che ancora oggi sono evocati nelle tradizioni liturgiche epifaniche che si celebrano secondo l’antico rituale cristiano aquileiese; San Vito è la trasformazione di Svetovid, lo sfolgorante signore della luce per i protoslavi. Potremmo proseguire evidenziando una intera costellazione di riferimenti, pratiche, suggestioni che rendono la terra del Friuli un laboratorio interessantissimo per storici e antropologi e ci consegnano l’eredità del tempo che fu, anche per assaporare meglio, con maggiore consapevolezza, la quotidianità e la dignità del nostro essere contemporaneo. Ma di questo percorso tra i miti e le leggende ci si occuperà a tempo debito.

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    Papa Gregorio Magno detta i suoi canti a un monaco benedettino (miniatura conservata al Cleveland Museum of Art).

    La pieve era anche il luogo in cui il plebanus impartiva i sacramenti, dal battesimo alla confessione, dalla comunione alla somministrazione del crisma, il matrimonio, il funerale. E segnava tutto diligentemente nel libro delle anime, il celebre catapan, una vera e propria banca dati perfettamente e sollecitamente aggiornata, che per gli storici diventa una testimonianza eccezionale e preziosissima capace di restituirci tutto delle comunità antiche sorte in terra friulana, secolo dopo secolo. Nelle pergamene e sulle carte di questi enormi manoscritti si registravano gli eventi più importanti occorsi alla gente comune: terremoti, invasioni, il passaggio di qualche personaggio illustre, gli eventi miracolosi e i prodigi, le eclissi di sole, ma anche la particolare crudezza degli inverni, la carestia e la siccità. Sfogliando le carte di un catapan ci si apre davanti la vita quotidiana, con i suoi drammi, le sue speranze. È un viaggio di straordinario interesse, in quanto riusciamo quasi ad avvertire la presenza di quelle donne e di quegli uomini vissuti secoli fa, a cominciare dai nomi, i patronimici, le professioni. Leggendo gli estremi della loro vita ci accorgiamo di quanto fosse alta la mortalità, specie fra i bambini. Documenti preziosissimi dunque, oggi consultabili negli archivi antichi delle pievi stesse o più spesso trasferiti nelle sedi centrali atte alla conservazione di un patrimonio tanto rilevante.

    Dunque attorno alla pieve danzavano assieme la vita, la morte, l’allegria e il dolore. Rituali millenari segnavano il passaggio sacrale del tempo della festa quando l’uomo guarda con occhi gravidi di attesa e di rispetto una Natura potente, segno della mano divina che l’ha creata. Così si canta nel percorso lustrale antichissimo delle rogazioni, seguendo le linee incerte dei confini agresti, utilizzando formule e parole che sembrano quasi uscite dal grembo stesso dell’Eternità. Secondo una antica consuetudine chi moriva era destinato a riposare dentro il sacro recinto del cimitero della pieve, quella stessa in cui un giorno era stato battezzato, entrando a far parte della comunità dei cristiani, non lontano dal villaggio in cui probabilmente aveva trascorso buona parte di tutta la sua vita. Ma se quel cimitero era inghiottito nel cuore di una valle montana, nel lungo inverno, quando la terra si gela e si ricopre di neve, era necessario attendere gli aliti della primavera prima di procedere ai sacri riti. La notte invernale era la lunga notte dei morti, che riposavano sul cjast, la parte alta della casa friulana e carnica, dove tradizionalmente si riponeva il fieno, attendendo la prima luce della primavera: solo allora, da tutte le case che li custodivano, contrassegnate da una croce in ferro infissa sul muro, partiva una lenta processione dolorosa fino al luogo dell’ultimo ricovero, mentre il campanile del villaggio piangeva con voce di campana. I bambini che nascevano in qualche sperduta casera dovevano essere battezzati con l’acqua santa della pieve. Era così necessario aprirsi un sentiero nella neve e nel ghiaccio, con il piccolino deposto nella gerla, trasformata per l’occasione in una incubatrice primordiale: una pietra riscaldata nel forno, sopra la paglia, il piccolino e le coperte, a garantire il giusto tepore che lo preservasse dai rigori del tempo invernale. Casa dopo casa c’era sempre chi procurava lungo la strada una pietra appena riscaldata, perché nel frattempo quella precedente si era raffreddata, chi offriva al padre e al padrino, il santul, un sorso di grappa, una scodella di brodo caldo per la madre e la madrina, la santule. Si trattava di una meravigliosa dimostrazione di solidarietà collettiva e di umana sapienza, capace di mobilitare una rete intera di borghi e di villaggi, una catena spontanea per i bimbi appena nati che arrivavano nel mondo e per i morti che invece stavano per lasciare la comunità. Forse è questo il vero sogno dell’imperatore Costantino.

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    Il vescovo amministra il battesimo per immersione (da Le antichità di Aquileia di G.D. Bertoli).

    Parallelamente alle pievi anche il territorio laicale si strutturava in una maniera similare: ogni quartiere veniva organizzato da un coordinamento tra le comunità di villaggio, le cosiddette vicinie, le assemblee dei vicini, guidate da un meriga, ovvero un anziano individuato per la sua autorevolezza. Alla comunità spettava il compito di organizzare le risorse secondo una consuetudine ereditata dagli antenati comuni; le assemblee dei meriga, riunite in un consiglio, nominavano poi un capitano, il cui compito era propriamente quello di reggere e amministrare i quartieri; tutti e quattro i capitani infine venivano coordinati da un gastaldo che rendeva conto del suo operato solamente al principe patriarca. Si trattava dunque di un sistema complesso e dinamico fondato ancora una volta sull’importanza della base popolare: il locale aveva un ruolo fondamentale, la periferia promuoveva i suoi rappresentanti e nel principio assoluto del decentramento virtuoso, si trattasse di una pieve o di una vicinia, era il popolo che si impegnava a fare sistema nella gestione dell’ambiente, dell’economia e della società, quindi anche della politica, seguendo il principio cardine dello spirito autonomista in base al quale nella scala più piccola e dettagliata l’amministrazione coincideva perfettamente con una dimensione privata, famigliare, e il singolo si sentiva investito di un compito importante, quello di essere parte di un organismo vitale, organico, senza sentirsene subordinato, subalterno, in una parola suddito.

    Il processo di smantellamento di questo plurisecolare patrimonio sociale e culturale si verificherà progressivamente dal 1420 al 1751, rispettivamente l’anno della conquista veneziana e della dissoluzione del patriarcato, fatte salve alcune eccezioni: Aquileia, San Vito al Tagliamento e San Daniele del Friuli rimasero territori soggetti all’autorità del patriarca quantomeno fino alla travagliata età napoleonica. La figura dell’umanista Guarnerio d’Artegna e il suo sogno di una biblioteca e di una scuola pubbliche la dice lunga sulla necessità di contrapporsi, attraverso la democraticità della cultura, a una forza centripeta e globalizzante, che avrebbe portato a una progressiva perdita dei valori tradizionali e a una inevitabile quanto dannosa massificazione. Dando vita a San Daniele a una rete di officine librarie (scriptoria) e all’embrione di una scuola pubblica di grammatica, l’esperienza di Guarnerio si concluderà infatti con la donazione all’intera comunità di una collezione di manoscritti che ancora oggi preserva la storia millenaria del Friuli. Una piccola rivoluzione dovuta alla forza di resistenza di

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