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L’equipaggio del re José
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L’equipaggio del re José
E-book252 pagine3 ore

L’equipaggio del re José

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La novella L’equipaggio del re José, aprendo la seconda serie de Los Episodios Nacionales, illustra gli importanti episodi della fine della Guerra di Indipendenza e la restaurazione della sovranità spagnola nella penisola quali frutto del Trattato di Valencay del 1814, nel contesto sociale e politico della fine della contesa con l’esercito francese in ritirata dalla penisola iberica. Come la maggior parte degli episodi di questa seconda serie, l’avanzata convulsa dell’occupazione francese verso la desiderata monarchia viene vista e vissuta attraverso gli occhi delle avventure del giovane Salvador Monsalud, il quale sarà anche testimone in prima persona del teso clima politico e sociale che si respira e si vive in Spagna in seguito alla Restaurazione, dove liberali e assolutisti si affrontano nel dibatto politico istituzionale, e non solo, anche nello scenario della vita quotidiana e familiare, che è quello a cui Galdós presta più attenzione. L’iniziale condizione di infrancesato del protagonista, ma anche il suo successivo passaggio dalla parte dei liberali in opposizione al sistema assolutista stabilito nel trattato di Valencay, introducono tale personaggio in una serie senza fine di situazioni ed avventure che descrivono in modo storicamente rigoroso, ma anche efficace ed ameno, questo periodo storico così importante per la storia della Spagna segnato dalla fine dell’Antico Regime.

LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2015
ISBN9788868151058
L’equipaggio del re José
Autore

Benito Perez Galdos

Benito Pérez Galdós nasce a Las Palmas de Gran Canaria il 10 maggio 1843 da famiglia numerosa; ultimo di dieci figli, si sposta giovanissimo a Madrid per intraprendere la carriera degli studi, e da lì vi rimane tutta la vita. Ben presto lascia gli studi giuridici per dedicarsi all’attività della scrittura letteraria.Diventa autore e profondo conoscitore degli ambienti intellettuali madrileni e non solo; è anche personaggio metropolitano del suo tempo: spinto anche dal suo spirito liberale, intraprende moltissimi viaggi in giro per l’Europa, girovagando per Inghilterra, Francia, Germania e Italia, conoscendo le opere di Balzac e di Charles Dickens di cui fu anche traduttore in castigliano (I quaderni postumi del Circolo Pickwick); grazie alla sua instancabile sete di conoscenza e al contatto con i luoghi, la gente e i più ferventi contesti letterari europei della sua epoca, riesce a fare suo un linguaggio di rinnovamento attraverso il quale interpretare in modo critico e attento la realtà spagnola, che fa da spunto alla sua letteratura.Galdós è letterato, novellista, romanziere, drammaturgo ed autore teatrale, e rappresenta una delle figure più importanti della letteratura spagnola.

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    L’equipaggio del re José - Benito Perez Galdos

    L’equipaggio del re José

    novella

    Benito Pérez Galdós

    Published by Meligrana Editore on Smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2015

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868151058

    Titolo originale: El equipaje del rey José, Madrid, 1875

    Traduzione dallo spagnolo a cura di di Eleonora Demarzo

    Copyright - Tutti i diritti riservati

    Quest’opera è stata pubblicata grazie alla sovvenzione

    del Ministerio de Educación, Cultura y Deporte de España.

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Benito Pérez Galdós

    Copertina

    Nota del traduttore

    L’equipaggio del re José

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Benito Pérez Galdós

    Benito Pérez Galdós nasce a Las Palmas de Gran Canaria il 10 maggio 1843 da famiglia numerosa; ultimo di dieci figli, si sposta giovanissimo a Madrid per intraprendere la carriera degli studi, e da lì vi rimane tutta la vita. Ben presto lascia gli studi giuridici per dedicarsi all’attività della scrittura letteraria.

    Diventa autore e profondo conoscitore degli ambienti intellettuali madrileni e non solo; è anche personaggio metropolitano del suo tempo: spinto anche dal suo spirito liberale, intraprende moltissimi viaggi in giro per l’Europa, girovagando per Inghilterra, Francia, Germania e Italia, conoscendo le opere di Balzac e di Charles Dickens di cui fu anche traduttore in castigliano (I quaderni postumi del Circolo Pickwick); grazie alla sua instancabile sete di conoscenza e al contatto con i luoghi, la gente e i più ferventi contesti letterari europei della sua epoca, riesce a fare suo un linguaggio di rinnovamento attraverso il quale interpretare in modo critico e attento la realtà spagnola, che fa da spunto alla sua letteratura.

    Galdós è letterato, novellista, romanziere, drammaturgo ed autore teatrale, e rappresenta una delle figure più importanti della letteratura spagnola.

    Nota del traduttore

    Ancora una volta nella trasposizione italiana di questo capolavoro della letteratura realista spagnola si è posta speciale attenzione alla fedeltà alla versione originale dell’o-pera, datata 1875.

    La costante interpretazione e comprensione di quel peculiare tessuto linguistico, specchio perfetto della cultura, del fervore e della realtà di quell’epoca, sono stati passi costanti e consapevoli del lavoro di traduzione, con un regolare affanno di intaccare il meno possibile la singolarità di Galdós, ma nel tentativo di svolgere un lavoro consapevole ed originale.

    In consenso con quanto affermava il pensatore spagnolo Josè Ortega y Gasset, contemporaneo e grande amico di Pérez Galdós, nella sua opera Miseria y esplendor de la traducciòn (1937) la traduzione è un genere letterario indipendente e a sé stante, con norme e finalità proprie; il testo tradotto non deve avere lo scopo di essere un duplicato dell’opera originale in un’altra lingua, ma un avvicinamento all’opera attraverso una creazione letteraria nuova in una differente cultura linguistica.

    Per tale motivo non si è semplicemente preteso di trasporre la originale opera castigliana in lingua italiana, se non di condurre quelle espressioni e quei vocaboli da una versione castigliana fino ad un loro accostamento ad una cultura linguistica differente come quella italiana, per potere svelare l’incanto e il realismo di Galdós nella nostra lingua.

    Eleonora Demarzo

    L’equipaggio del re José

    I

    Il 17 Marzo del 1813 alcune carrozze, al seguito di una numerosa scorta, uscirono da palazzo e, scendendo alla Porta di San Vicente da Caballerizas, presero la direzione della Puerta de Hierro.

    – Sua Maestà l’intruso si reca al Pardo – disse don Lino Paniagua in uno dei capannelli formatisi al passare dei carri e della truppa.

    – Non è ancora il tempo delle ghiande – replicò un altro, che si vantava di non aprire bocca se non per regalare al mondo un piccante e saporito frutticello dell’albero del suo ingegno.

    – Sua Maestà è convinto che in Spagna non si farà grasso e avanti per questa strada non si fermerà fino alla Francia – fece notare un terzo, un uomo forzuto e ordinario che rispondeva al nome di Mauro Requejo.

    – In Francia! Tutte le mattine la gente ci saluta con la tiritera che i francesi, stanchi e stufi, vanno via, ma di notte ce ne andiamo a letto con la certezza che i francesi né si stufano, né si stancano, né tantomeno se ne vanno.

    – Il signor don Lino Paniagua ha ragione! – esclamò un altro personaggio che si distingueva dal resto degli individui del gruppo per lo sfavillante verdone dei suoi occhialetti e uno strano modo di ridere, più propriamente paragonabile a versi da quadrumane che a smorfie di uno dotato di ragione –. Ha ragione! Sono cinque anni che non si sente altro che questo: «Vanno via non c’è altro da fare; ormai non possono reggere un giorno di più: entro il mese venturo il lord farà i conti con tutti loro...». E così passano gli anni e i mesi: la gente muore, il pane aumenta, le questioni si riducono ed i francesi non se ne vanno se non per tornare. Quattro le volte che abbiamo visto uscire il signor Pepe e quattro le volte che lo abbiamo visto rientrare con più energie. Vi ricordate della battaglia di Bailén? Ecco, tutti dicevano: «Grazie a Dio che è finita. Non è rimasto neanche un francese come semente per le rape». Ahi! Non passarono molti mesi, senza che li vedessimo un’altra volta mandati dall’Imperatore in persona. Dopo cinque anni la festa si è ripetuta. A Salamanca si diede una battaglia e qui dal mio becco d’oro: «È tutto finito...! Grazie a Dio...! Viva il lord...». I francesi escono da un lato e gli inglesi entrano dall’altro. E questo sembra lo scenario di un teatro: il lord se ne va da destra e José si intrufola da sinistra... Signori, non dimentichiamo le didascalie delle commedie, che dicono fa che se ne va e poi rimane... A me che sono un vecchio cane e sulla mia anima cristiana ci sono quattro dita di sudiciume di raggiri, non mi si incanta con queste entrate e uscite.

    – Il signor Lobo laureato – disse don Narciso Pluma che si trovava pure lì in quella occasione –, sta così bene nella sua scrivania da studio, che non vorrebbe essere disturbato dal rumore delle truppe, né dallo strepito della guerra. Dopotutto, i destini imposti da Murat non dovranno essere poi eterni.

    – Già vi vedo arrivare, imbroglioni; vi ho capiti commedianti; vi conosco rissosi – ribatté Lobo dissimulando la sua irritazione –. Volete farmi passare per infrancesato...? A quanto pare spirano venti anglicani e wellingtoniani...

    – Può darsi.

    – Signori, facciamo un giro per i Pozos de Nieve per vedere se dalla parte di Fuencarral o Alcobendas si fanno vedere casacche rosse.

    – Perché no? Sembra che l’esercito alleato avanzi verso qui. Ma signori, in definitiva, questa gente dov’è che va? Che tipo di giare attraggono con il loro odorino il nostro moscerino intruso?

    – Io dico che non va oltre il Pardo.

    – Ed io che smetterà di provarci piuttosto che togliersi la polvere dalle scarpe fin quando non arriva alla soglia della Francia.

    – Da quella parte viene il reverendo Salmón che ci dirà la verità, ecco, a questo frate della Merced piace spilluzzicare con tutti quanti, uso un vocabolo qua, pesco una sillaba là, lui è quello che sa tutto.

    – Sia benvenuto il padre Salmón – disse Requejo facendosi avanti per salutare il venerabile mercenario che nella nobile compagnia del marchese del Porreño apparteneva alla Virgen del Puerto.

    – Che notizie avete, signori miei? – chiese il buon frate ripulendo il sudore dal suo volto, poiché affaticandosi a salire la impennata costa di San Vicente, sembrava che lungo il tragitto stesse perdendo la metà delle sue robuste carni.

    – Se Paternità Vostra non ci dica qualcosa...

    – Il congegno di forza che il Re porta e la moltitudine di carrozze con cui lo accompagna tutta la sua servitù francese e spagnola – disse con gravità il marchese di Porreño – sono la prova che il viaggio sarà lungo.

    – Siamo al 17 di marzo... domani l’altro saranno i giorni di don Pepito – fece notare il frate sfregandosi le mani –. Intenderà celebrarlo all’Escorial.

    – A Marzo? Questo è parlare da buffone – disse Pluma indicando con picaresca malignità un anziano trasandato e taciturno che fino ad allora non aveva dispiegato le sue misteriose labbra –. Il signor Canencia qui presente le insegnerà a parlare in giacobino. Non si dice Marzo, ma Ventoso, vigilia di Germinal ed antivigilia di Floreal.

    Tutti risero a scapito dell’abbattuto don Bartolomé Canencia, il quale parlò in questa maniera:

    – Nella mia scuola si bada ai fatti non alle parole, factis non verbis.

    – Siamo a Marzo – affermò Lobo –, occupiamoci ora del nostro Re posticcio, si sa che è sempre a Vendimiario.

    – Vedo che sarà necessario cercare notizie da un’altra parte – disse con impazienza Paniagua –. Il Padre Salmón oggi non è in vena di raccontare e don Bartolomé, che conosce tutti i passi dei francesi come i salti delle pulci dentro la sua camicia, non vuole dirci niente senza dubbio per non vendere i suoi amici.

    – Amici miei, i francesi! – esclamò Canencia turbandosi come un timido ragazzino al quale viene scoperto un segreto d’amore –. Sono forse un uomo che si entusiasma con le vittorie militari di Juan e di Pedro? Battaglie! Eserciti! Napoleone! Lord Wellington! Immondizia! Sono un sostenitore del genere umano, signori. Odio le guerre, distruttrici della convenzione sociale, e attendo il giorno della emancipazione dei popoli. So che mi calunniano; so che alcuni osano sostenere che a Salamanca fui in una società massonica... Fortunatamente questi miei venerabili capelli bianchi e questa pienezza filosofica che devo ai miei studi, sono appunto per rovinarmi in logge e pandemoni...? Ma basta che mi abbiano assegnato questa miserabile destinazioncina nell’amministrazione del Noveno perché mi si crede legato anima e corpo ai Bonaparte, signori, ai figli di donna Letizia, che oggi dominano il mondo con una spada... Come se la spada non fosse altra cosa che un pezzo d’acciaio, un brutale strumento, una lancetta inerte ed appuntita che serve solo a far sanguinare i popoli...! E intanto le idee... Rivolgete gli occhi da ogni parte e ditemi, dove sono le idee?

    Le risate impedirono a Canencia di proseguire col suo intrapreso discorso. Salmón gli tolse la parola di bocca, per dire:

    – Dio mi dia una brutta pasqua e che sia la prima, se a questo don Bartolomé non gli cambiano presto il suo posto nell’amministrazione del Noveno con una gabbiola nel Nuncio di Toledo... Insomma non ci ha detto niente del viaggio del re. Quello che garantisco è che ieri a palazzo non se ne sapeva nulla di questo viaggio...

    – Ecco che viene da queste parti colui che ci toglierà ogni dubbio – disse Pluma facendo segno verso Caballerizas. Tutti quelli del gruppetto fissarono l’attenzione su di un giovane di bella apparenza, dal viso allegro e franco che scendeva precipitosamaente in direzione di San Gil. Indossava l’uniforme della guardia spagnola creata da José a Gennaio del 1809, alla quale appartenevano un buon numero di nostri compatrioti insieme a tutti o a quasi tutti gli svizzeri e ai valloni degli antichi corpi stranieri.

    – Eh, Salvatoruccio Monsalud, Salvatoruccio Monsalud! – gridò Lobo il laureato, chiamando il giovane dell’uniforme.

    – È il nipote di Andrés Monsalud, quello che è stato bastonato a Salamanca – fece notare con malizia Requejo –. Il signor Canencia può rendere notizia della battaglia di Arapiles e delle mazzate di Babilafuente.

    – Signori patrioti, buongiorno – disse la giovane guardia avvicinandosi al capannello e salutando tutti con una espressione di festa.

    – Che succede, buon amico, nonché giurato? – gli domandò Salmón posando il suo mantello sulla spalla del giovanotto –. Dove va lungo quelle strade l’Imperatore delle Botti?

    – A Valladolid – rispose il militare.

    – A Valladolid! – esclamarono tutti –. Io lo presumevo già!

    – Da quelle parti ci sono la Nava, Rueda, la Seca, Mojado ed il resto delle stirpi...

    – Dunque a Valladolid?

    – Non mancheranno le battaglie... – fece notare il giovane con enfasi – Napoleone ha inviato un messaggio a suo fratello, dicendogli che entri in guerra.

    – Un’ambasciatina?

    – Anche noi usciremo in campo... E con noi i ministri, e con i ministri gli impiegati, e con gli impiegati...

    – Con gli impiegati gli impieghi – aggiunse Lobo –. Sarà ottimo.

    – A palazzo stanno impacchettando di tutta fretta quadri e preziosità – proseguì Salvador con tripudio e orgoglio, propri della gioventù quando si vede portatrice di straordinarie notizie –. Ieri, insieme alla batteria da cucina abbiamo messo in baule una tavola imbrattata che chiamano il Pasmo de Sicilia... Persino i chiodi ci portiamo... In pochi giorni verranno sequestrate tutte le carrozze e i carri della villa, e ancora non basta.

    – Tutti i carri! Ma questa gente ci lascerà senza uno spillo per attaccarci i davantini.

    – Sono forse venuti per qualche altra cosa? Dunque – affermò Salmón –, credete che questa gente ha saputo cosa fosse il pane prima di venire in Spagna?

    – E adesso, signori – disse il militaretto –, fareste bene ad andarvene a due a due ognuno a casa sua, poiché alla polizia non piace vedere raduni nei dintorni del palazzo.

    Tale avvertenza produsse i suoi rapidi effetti: il gruppo si disciolse e gli insigni uomini, si allontanarono a coppie in diverse direzioni, andandosene chi al suo ufficio, chi alla sua bottega, questi alla scrivania, quello al convento, chi alla tertulia della farmacia, chi alle tribune delle dame e alle riunioni della gente in tono, tutti affannati a trasmettere le notizie ricevute, che di via in via, di sala in sala, e di bocca in bocca venivano man mano stravolte e gonfiate al punto tale che lo stesso che le aveva lanciate ai vai e vieni del mondo non le avrebbe riconosciute.

    Ed allora non c’erano i giornali!

    Giuseppe Bonaparte in effetti era partito per Valladolid, obbedendo al suo padrone e fratello che gli ordinava di mettersi in testa all’esercito, mentre lui, non scottato dalla disastrosa campagna di Moscowa, si preparava ad intraprenderne una nuova in Germania contro la sesta coalizione.

    Quando la carrozza, oltrepassato l’arco di San Vicente, svoltò a destra in direzione della Puerta de Hierro, Sua Maestà, che stava parlando con il generale Jourdan, lasciò questo con la parola in sospeso, e si sporse dalla porticella per contemplare il palazzo reale che gli rimaneva dietro, seduto ai bordi della villa, con un piede sopra e l’altro sotto, mettendo in risalto il suo enorme fisico bianco sulla rampa di mattoncini che gli facevano da trono e sopra il verde degli alberi che fungevano da tappeto. José Bonaparte diresse al palazzo uno sguardo nel quale difficilmente potrebbero conoscersi i sentimenti del suo cuore. Quell’alloggio abbandonato che sua Maestà vedeva dietro di sé, era un’amena dimora dalla quale non poteva allontanarsi senza amarezza, o al contrario, una terribile caverna nel cui recinto non vi era altro che cattività e tristezza? All’intruso era gradita l’idea del ritorno, oppure il suo animo si compiaceva al pensiero di perdere per sempre di vista la enorme casa bianca, le rosse muraglie e il giardino ricolmo in mezzo al cui fogliame si innalza l’ammaccato comignolo del suo tetto, eremo della Vergine del Puerto...?

    Napoleone il Piccolo, dopo una vista così triste, si sdraiò taciturno sul fondo della carrozza, i suoi cortigiani non udirono più nessun altro sospiro come quello che in un caso simile regalò alla storia Boabdil di Granada. La conversazione tra José e il maresciallo Jourdan venne riallacciata. Madrid e il suo palazzo, la sua polvere, il suo cielo chiaro e la sua aria fievole ormai per il fratello di Bonaparte non furono più che un ricordo.

    II

    Salvatoruccio Monsalud era un giovane di ventuno’anni, di media statura e con un fisico aggraziato ed agile. Il suo viso bruno somigliava un po’ a quella espressione convenzionale con cui i pittori raffigurano l’interessante figura di San Giovanni Evangelista, imberbe e un po’ febbricitante, con una singolare espressione di immensa ansietà e di insaziabile aspirazione nei grandi occhi neri. Una grave serietà sentimentale si sprigionava dalla sua persona, dalla sua voce e dal suo modo di fare; incantava tutti per la sua bontà, e le ragazze con le sue maniere cortesi e la sua aggraziata finezza non acquisita con l’educazione, essendo nato abbastanza umile di culla. Era come l’Evangelista, un tantino timido e molto circospetto, cosa che non risultava essere utile in questo secolo, tantomeno ai suoi inizi. Col suo abito di guardia spagnola, Monsalud era molto gagliardo; ma senza quel temibile aspetto marziale che è tipico dei militari per passione: la sua figura era quella di un soldato in fiore o di un campione immaturo che non si era ancora irrobustito al sole dei combattimenti, né fatto una corazza con la provocativa superbia e la millanteria di una lunga vita nelle caserme.

    Tale giovane aveva come zio Andrés Monsalud, il quale viveva nella Cava Baja, e come intimo amico e confidente un compatriota chiamato Juan Bragas, che da poco sarebbe venuto con lui da Puebla de Arganzón in cerca di fortuna. Salvador era emigrato per ragioni che si conosceranno nel corso di questa storia, ma che non erano certamente allegre. Indeciso prima di tutto sulla carriera a cui si sarebbe dedicato, e non sentendosi con la vocazione per il commercio né per la curia, né per la Chiesa, entrò di soppiatto per la porta del militarismo, larga e sempre aperta, e che ha un vantaggio su tutte le altre porte, compresa la Ottomana, quello di condurre rapidamente da ogni parte. Alla partenza la sua buona madre gli avrebbe dato una dote che nella contea del Treviño poteva sembrare considerevole, ma che a Madrid era di quelle che si disperdono ben presto nella immensità della vita, come un granello di sale in una giara di acqua. Il giovane, vedendosi dunque senza nulla di bianco né di giallo nelle sue arche, e non avendo altro tesoro che i saggi consigli del suo insigne zio don Anrdrés Monsalud, si decise ad avvalersi di questa fonte, che a tutte le ore gli si riversava negli orecchi, ora a mo’ di reprimenda, ora con tono di ammonizione. Non per entusiasmo, non per mancanza di patriottismo, non per fervore militare, ma per necessità, Salvatore entrò in uno dei reggimenti spagnoli che in malo modo prestavano servizio per José e che allora chiamavamo giurati. Molto presto gli diedero le spalline da sergente.

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