Le libertà violate: Donne dietro le sbarre. Racconti di ordinaria inquietudine
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Info su questo ebook
Le libertà violate è un’opera importante perché il cardine sul quale poggia è la prospettiva del detenuto. Importante perché permette di capire cosa significhi vivere dietro le sbarre: il dramma della ripetitività senza alcun obiettivo all’orizzonte, la pesantezza del passato che affossa mente e sentimenti, la paura che pervade nel momento in cui si è a un passo dall’agognata libertà…
Questo e molto altro è Le libertà violate, un viaggio tra le mura di San Vittore ma anche la scoperta di come, per un caso beffardo o per una scelta impulsiva, ci si possa ritrovare con la vita drasticamente rivoluzionata. Sogni e prospettive vengono spezzati, certo, ma si può scovare un’umanità che permette di rifiorire.
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Anteprima del libro
Le libertà violate - Antonella Cavallo
http://creoebook.blogspot.com
Antonella Cavallo
LE LIBERTÀ VIOLATE
Donne dietro le sbarre
Racconti di ordinaria inquietudine
La metamorfosi sta accadendo…
Sta nascendo un’ala e grazie a essa le donne iniziano a volare.
Si elevano, si trasformano dopo aver passato del tempo nell’oscurità.
Sono alle porte dell’universo da scoprire,
stanno vivendo tra il cielo e la terra.
SUSANA KHABBAZ
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
Prefazione
Art. 17 Per un paio di ore in carcere
La prima volta che entrai in carcere fu per mia spontanea volontà, o meglio per un mio desiderio di mettere a disposizione della biblioteca qualche copia del mio ultimo romanzo. Ciò che ancora ignoravo era quanto il varcare il confine oltre le sbarre avrebbe cambiato l’ordine delle mie priorità. Dopo una serie di ricerche e di corrispondenze via mail ero riuscita a fissare un appuntamento col responsabile degli educatori che con mia grande sorpresa mi propose un incontro con le detenute. Fu così che ottenni un lasciapassare con cartellino di riconoscimento e grazie all’articolo 17 fui accreditata come volontaria al reparto femminile di San Vittore, reparto privilegiato, come viene definito dai più.
San Vittore non è un carcere detentivo, è una casa circondariale, una sorta di transito in attesa di appello, conferma di condanna o trasferimento. Gli ospiti, in questo caso le donne, in quel momento erano 113, ovvero quasi una ventina in più del numero ritenuto adeguato all’umana decenza. Erano perlopiù straniere che a mala pena masticavano in italiano qualche frase di senso compiuto. La presentazione della mia opera avrebbe avuto luogo nella biblioteca, con la prospettiva quindi di un pubblico di tre, massimo quattro persone; per me era uguale, ne avrei parlato anche con una sola.
Il giorno fissato per l’incontro era un martedì, l’ora le tredici e trenta in punto. L’eccitazione dell’opportunità che mi era stata offerta si tramutò quella mattina in una punta di ansia conficcata nello stomaco e ancorata alle viscere. Come mi sarei dovuta vestire? In quale modo, per non offendere le detenute e rispettare la decenza del luogo, così come mi era stato caldamente consigliato? Non sfarzoso, non troppo modesto, come? Evitai di chiedere ulteriori consigli e optai per jeans e camicia bianca: una divisa ordinata, neutra.
Arrivammo all’ingresso con qualche minuto di anticipo ignorando che in certi casi non è mai troppo presto.
Il primo passo fu la consegna dei documenti, l’esibizione del cartellino, la registrazione dell’ora di entrata, il deposito nella cassetta di cellulare e di ogni possibile dispositivo elettronico, auricolari inclusi, passaggio al metal detector e perquisizione.
Varcammo il primo cancello, poi un secondo, e ancora una porta, un campanello, due occhi che scrutavano da una fessura, il clangore della serratura, porte che si aprivano per poi richiudersi dietro l’ultimo tallone.
Ci chiesero se volevamo una guardia che ci scortasse fino al locale adibito a biblioteca. La psicologa che accompagnava me e la mia collega Sonja Radaelli scosse il capo; conosceva bene la strada, e ci condusse al nostro appuntamento attraverso un corridoio, un terzo cancello e un ennesimo portone in ferro verde. Salimmo un paio di rampe da cui si scorgeva l’ingresso del cortile: l’aria dove alcune detenute sostavano, passeggiavano, fumavano…
Al primo piano un banco con un’agente penitenziaria: domande, risposte, e poi finalmente la porta della biblioteca. Entrammo a passi leggeri nella sala arredata con scaffali colmi di volumi, due tavoli rotondi con delle sedie attorno e alcune file di sedute per le spettatrici. Che non c’erano. Riempivamo noi il locale, noi sette: io, Sonja, l’educatore, la psicologa e tre giovani universitari che avrebbero fatto da spalla alla nostra messa in scena. Sistemammo le nostre sedie a semicerchio di fronte alla supposta platea.
Poco più tardi entrarono cinque ragazze dell’Ecuador e si sedettero in silenzio. Entrò una donna coi capelli color del fieno raccolti in una coda di cavallo, portava una copia del libro di Sonja stretto tra le mani, ci salutò si presentò. Disse che ne aveva già letto una ventina di pagine con gran gusto. Dietro a lei seguì una seconda bionda più giovane, di alta statura. Mi salutò, parlava spagnolo, aveva letto il mio romanzo aiutata dalla compagna di cella, una italiana mora sottile come un giunco. A loro era piaciuto molto, si erano riconosciute nelle vicende di alcuni personaggi.
Si avvicinò poi una donna minuta, avvolta in un abbondante pullover in cachemire a coste blu, pantaloni a sigaretta e ballerine in vernice bianca col fiocchetto nero. Portava con sé un fascio di riviste, si accomodò in prima fila, accavallò le gambe, e prese a sfogliarle rivolgendoci un fugace sguardo in tralice. La riconobbi.
Seguirono altre e altre ancora erano in arrivo, aspettavano che un’agente andasse da loro ad aprire la cella.
Una giovane sedette accanto a noi, e fu allora che ritenemmo fosse bene iniziare.
Per quanto noi ignorassimo chi fossero, al contrario loro sapevano