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Decamerone delle donne: 100 novelle narrate da 10 donne da un reparto maternità sovietico
Decamerone delle donne: 100 novelle narrate da 10 donne da un reparto maternità sovietico
Decamerone delle donne: 100 novelle narrate da 10 donne da un reparto maternità sovietico
E-book459 pagine6 ore

Decamerone delle donne: 100 novelle narrate da 10 donne da un reparto maternità sovietico

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Info su questo ebook

Negli anni Ottanta, sul finire della Russia sovietica, 10 donne vengono rinchiuse in quarantena in un reparto maternità subito dopo il parto, e per 10 giorni raccontano una storia a testa su temi come lo stupro, la troiaggine, la gelosia, la vendetta, la seduzione e l'abbandono, sesso nelle situazioni ridicole, infedeltà, soldi, primo amore.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2019
ISBN9788898467976
Decamerone delle donne: 100 novelle narrate da 10 donne da un reparto maternità sovietico

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    Anteprima del libro

    Decamerone delle donne - Bruno Osimo

    Julija Voznesenskaja

    IL DECAMERONE DELLE DONNE

    traduzione di

    Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2019

    Titolo originale dell’opera: Женский Декамерон

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Per l’edizione tedesca © Julija Voznesenskaja 1985 by Lev Roitman Verlag

    Per l’edizione originale © Julija Voznesenskaja 1987

    Bruno Osimo è un autore che si autopubblica

    La prima edizione italiana è stata pubblicata da Rizzoli nel 1988

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788898467983 per l’edizione cartacea

    ISBN 9788898467976 per l’edizione elettronica

    Per mettersi in contatto con l’autore-editore:

    osimo@trad.it

    PERSONAGGI

    IRINA, detta Iriška, segretaria

    ZINAÌDA StepànOVNA IVÀNOVA, detta Zina la Barbona

    LARISA, biologa

    NATAŠA, ingegnera

    VALENTINA, detta anche Valja, dirigente del partito

    ALBINA, detta anche Albinočka, hostess dell'Aeroflot

    GALINA, detta anche Galja, militante nelle file del dissenso

    OL'GA, detta anche Olja, operaia nei cantieri dell'Ammiragliato

    NELJA, insegnante di musica

    EMMA, regista teatrale

    Per leggere i nomi russi:

    ë si pronuncia jo oppure o

    ž si pronuncia come j in francese

    z si pronuncia come la s in rosa

    ch si pronuncia come una h aspirata

    c si pronuncia come la z in mazzo

    č si pronuncia come la c in bacio

    š si pronuncia come sc in scena

    y ha un suono gutturale intermedio tra la i e la u

    Comincia il libro chiamato Decamerone delle donne, nel quale si narra di come dieci giovani donne, ricoverate nella stessa corsia di un reparto maternità, vengano a sapere che l'ospedale in cui si trovano è stato messo in quarantena e che dovranno passare altri dieci giorni tra quelle mura.

    La notizia, naturalmente, non le rallegra molto.

    Ma a una delle puerpere viene l'idea di ripetere l'esperienza di una vicenda riferita, o forse inventata, da uno scrittore fiorentino, tale Boccaccio.

    Propone quindi alle compagne di passare quei dieci giorni a raccontarsi a vicenda storie imperniate sulla vita, gli uomini, l'amore, insomma su tutti i problemi della donna moderna.

    La proposta viene accolta con entusiasmo, e in quei dieci giorni le giovani madri si raccontano cento NOVELLE.

    Sotto il titolo di ogni novella è posto un breve sommario perché il lettore possa scegliere se leggerla tutta o no.

    PRIMA GIORNATA

    del Decamerone delle donne, dove tutto comincia. È usanza diffusa che i libri comincino col primo capitolo, e anzi sfido chiunque a citarne uno che cominci con l'ultimo; stupefacente è piuttosto che queste donne decidano di raccontarsi per prima la novella sul PRIMO AMORE. Ed ecco dunque che tra breve, dopo un piccolo preambolo che consigliamo comunque di leggere, il libro avrà inizio con la prima novella sul primo amore.

    No, in mezzo a questo casino non ce la faccio pensò Emma. Si rivoltò a pancia in giù, mise il Decamerone al posto del guanciale, con cui si tappò le orecchie, e cercò di concentrarsi.

    Si immaginava già l'inizio dello spettacolo. Entrando in sala gli spettatori, al posto delle maschere, vedono frati coi cappucci tirati sugli occhi che controllano i biglietti e li conducono ai posti nella sala buia, facendosi luce con lanterne d'altri tempi (bisognava andare all'Ermitage a cercare una lanterna adatta per farne uno schizzo...). Il sipario è già alzato, la scena è illuminata solo da una luna bluastra di cartapesta. Sullo sfondo una piazza di Firenze con una fontana nell'ombra e il portale di una chiesa. Sul portale c'è la scritta: «Memento mori». Di tanto in tanto un gruppo di preti attraversa la scena trainando un carretto: sono i monatti. E una campana, bisogna che una campana batta in continuazione: per chi non è suonata la campana... È necessario che fin dall'inizio, prima ancora che cominci lo spettacolo, in sala aleggi un'aria di morte. È su questo sfondo che i dieci giovani raccontano le loro spensierate novelle.

    Certo che è ben difficile crederci: intorno regnano la pestilenza, la morte, il dolore, e nel bel mezzo un gruppo di gentiluomini e gentildonne si intrattengono allegramente raccontandosi novelle patetiche e oscene. Qui da noi non c'è nemmeno la peste, c'è solo un'infezione della pelle, di quelle che di tanto in tanto si diffondono nei reparti maternità, eppure guarda che pianti, che scene isteriche! Forse al giorno d'oggi siamo tutti rammolliti. Perché 'ste stupide non se ne stanno un po' tranquille? Che fretta hanno di mettersi a cambiar pannolini? Dio mio, solo a pensarci mi cadono le braccia: che piova o tiri vento, trenta fasce, trenta pannolini sottili, e altrettanti di flanella per l’inverno. E bisogna lavarli, bollirli e stirarli, prima da una parte, poi dall'altra. Roba da finire scema. È da un pezzo che in Occidente esistono i pannolini usa e getta e le mutandine impermeabili, e sembra che i nostri uomini pratichino talvolta lo spionaggio industriale. Ma allora perché una volta tanto non rubano un'idea utile, invece di badare solo all'elettronica?

    «Ragazze! Vi dispiacerebbe squittire una alla volta? Ne ho abbastanza di questi cicicì cicicì nelle orecchie. Se ci va a male il latte, poi sono cavoli nostri!» sbottò Zina, una vagabonda, o donna senza fissa dimora, come la chiamavano i medici quando la visitavano. Non l'andava a trovare nessuno, e lei non aveva certo fretta d'andarsene di lì.

    «Ci fosse almeno qualcosa per scacciare i brutti pensieri!» sospirò Irina, una donna pienotta; la chiamavano tutte Iriška per il carattere mite e l'indole casalinga.

    A Emma venne un'idea. Sollevò in alto il Decamerone perché tutte vedessero il tozzo libro e la sua allegra copertina.

    «Mammine carissime! Chi di voi ha letto questo libro?»

    Una metà, naturalmente, l'aveva letto.

    «Benone» continuò Emma «lo spiegherò in due parole per le altre: durante un'epidemia di peste, dieci giovani, uomini e donne, se ne vanno in campagna e si mettono in quarantena per una decina di giorni, proprio come sta capitando a noi. Ogni giorno a turno si raccontano novelle sulla vita, l'amore, le gesta degli amanti scaltri e le tragedie causate dall'amore. E allora, mi stavo domandando, perché non ripetiamo l'esperimento?»

    Sembrava che non aspettassero altro. Capirono subito che era assai più interessante che raccontarsi le solite barzellette o parlare dei problemi della vita casalinga.

    «Bisogna cominciare dall'inizio!» dichiarò Irìška. «Cominciamo dal primo amore. Io però voglio essere l'ultima, perché mi vergogno.»

    «Ma di cosa ti vergogni? Come se non fossimo tutte donne e non amassimo tutte allo stesso modo» disse Zina scoppiando a ridere.

    «Ma tu in che modo credi che si ami?» le domandò, strizzando l'occhio, Albina, un'attraente bionda dal nome straniero.

    «Col cuore, naturalmente» si intromise per ogni evenienza Valentina, che come risultò poi era una dirigente del partito.

    «Ah, col cuore...» disse Albina strascicando delusa le parole, e sbadigliò con indifferenza. Ma era chiaro che lo faceva solo per provocare Valentina, perché in realtà l'idea di raccontarsi a turno delle storie le piaceva, e le brillavano gli occhi.

    Ma Valentina non si diede per vinta.

    «Non riesco proprio a capire perché la parola amore a certe persone faccia venire pensieri malsani. Nel nostro paese l'amore è un affare di stato, perché è sull'amore che si fonda la famiglia, e la famiglia è il nucleo dello stato.»

    «Verissimo!» saltò su Ol'ga, operaia dei cantieri navali dell’Ammiragliato. «Il mio amore, anzi, è stato un affare di due stati: l'Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca, pensate un po'....»

    «Davvero? Raccontaci, dai, Ol'ga» urlarono le altre donne e si misero sedute sul letto ad ascoltare. Ol'ga non si fece pregare e cominciò a raccontare il suo primo amore.

    NOVELLA PRIMA

    di Ol'ga, operaia dei cantieri navali dell'Ammiragliato. Il suo amore internazionalista con un operaio della Repubblica Democratica Tedesca. Se ne interessano perfino le autorità dei due stati, ma la storia d'amore si conclude con un aborto

    Il mio primo amore, in un certo senso, è stato un amore del dissenso. Faccio la verniciatrice nel reparto arredamento dei cantieri dell'Ammiragliato. Guadagno bene, niente da dire, ma la direzione fa di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote. Una trasferta o una spintarella per ottenere l'assegnazione di una casa non la negano a nessuno, tranne che alla Zajceva. E sapete perché? Perché il mio fidanzato era tedesco. Un tedesco per modo di dire, della Germania dell'Est, ma comunque...

    Da quando ho avuto questa storia d'amore ormai è passata una decina d'anni. In fabbrica stavamo facendo una nave cisterna per i tedeschi. Era una coproduzione russo-tedesca, cioè, puah, sovietico-tedesca. I tedeschi costruivano lo scafo e i motori, in fabbrica noi li installavamo e curavamo le rifiniture. Col fatto che erano tutt'e due paesi socialisti, c'era una grande competitività, e finimmo per consegnare la cisterna con sei mesi d'anticipo. Poi però ci fu da lavorare per altri otto. O ci mandavano la nave con a bordo gli operai tedeschi, o la rimandavano a Rostock, il porto d'origine. Intanto noi eravamo a bordo a rifinire le parti lasciate per ultime, su e giù da Rostock a Leningrado. Nacquero amicizie, in molti si innamorarono. C’erano molti giovani.

    A me piaceva un meccanico di nome Peter, che noi russi chiamavamo Petja. Un tipo pulitino, simpatico e serio, e sapeva pure il russo. Aveva una sola pecca: era credente. Succede ancora, in RDT. Dopo tutto non è molto che lì da loro esiste il socialismo. Sarà stato forse per la religione, ma quando viene a sapere che sono incinta, di aborto non vuole neanche sentirne parlare. Corre subito dai suoi capi a chiedere il permesso di sposarmi: loro glielo danno, ma i miei, neanche a morire.

    Dalla nave mi mandano prima al comitato di partito, poi al comitato locale e non so a quale cazzo di comitato ancora. Mi vogliono far cambiare idea, non fanno che ripetere:

    «Ti conviene abortire, tanto il permesso non te lo diamo lo stesso. Se no, di' al tuo amico Fritz di trasferirsi lui da te».

    Ma figuratevi, Petja là a Rostock ha genitori, fratelli, sorelle, una casetta col giardino. E io sono orfana di padre e di madre, e vivo in un pensionato. Perché mai dovrei portarlo via dalla sua Germania democratica per fargli fare una vita così? Però gli dico:

    «Datemi almeno una camera, se proprio un appartamento non è possibile, un posto dove possiamo andare a stare, e proverò a convincerlo».

    «Ah, furba lei» rispondono quelli «se ti diamo l'appartamento, poi verranno qui tutte col fidanzato straniero...»

    E me ne fanno passare tante, ma tante, che mi viene male solo ad andare in direzione, e così al quinto mese abortisco. Dopo però ho paura di scrivere a Petja, e se non mi vuole più sposare? Lui è ancora lì che lotta per avermi, scrive lettere da tutte le parti, in Germania e in URSS. Ma non ne cava niente neanche lui. Evidentemente i nostri padroni si sono messi d'accordo.

    E dopo i nove mesi, Petja mi manda una pelliccia di lontra, e per il bimbo un corredino così bello che tutte le ragazze del pensionato corrono a guardarlo: sintetico al cento per cento! E io giù a piangere sul corredino, la vita mi sembra distrutta...

    Dopo mi scrive che tra noi tutto è finito per via del mio inganno. Chi gli ha scritto del bimbo non lo so. O che le ragazze hanno tirato giù l'indirizzo dalla lettera e gli hanno detto tutto, oppure sarà stata la direzione.

    Dopo, niente di speciale. Mi sono sposata con un bel ragazzo che lavora lì giù in fabbrica. Peccato che beve un po' troppo, ma per il resto è davvero un bravo ragazzo. Col mio Peten'ka non c'è paragone, è chiaro. Quello era tedesco, era istruito e sapeva come si trattano le donne. Di lui m'è rimasta soltanto la pelliccia, che porto ancora e non si consuma mai. Ogni tanto mi viene da piangerci sopra: e allora, bastarda, quand'è che ti rompi, che ti consumi, che mi lasci dimenticare? Ma venderla è peccato, dopo tutto è un ricordo...»

    «Già, la lontra naturale non si consuma...» disse pensierosa Nelja, una timida morettina, insegnante di musica «mia mamma con una pelliccia di lontra ha fatto tutta la guerra, e poi ne è rimasto ancora un collo per me...»

    «Via che c'è di così strano?» sorrise Ol'ga. «Quattro anni per una pelliccia non sono poi tanti, la mia è ancora come nuova».

    «Ma non avete idea di dove l'ha portata mia madre: quella pelliccia è stata in un nascondiglio sotterraneo, poi in un campo di concentramento tedesco è servita da coperta da mettere sul tavolaccio, e mia madre l'ha usata perfino per nascondermi dai nazisti...»

    «Perché non ce lo racconti?» chiese Emma.

    Ma Nelja aveva gli occhi pieni di lacrime e scosse la testa:

    «È lo stesso se ve lo racconto dopo? Ora, non so perché, non me la sento... più tardi!»

    Allora si sollevò sul letto Larisa:

    «Se vi va, ve la racconto io la storia del mio primo amore».

    «Certo che ci va!» gridarono tutte. Già da un po' l'indipendenza e l'indole tranquilla di Larisa destavano l'interesse delle compagne di stanza.

    Durante la degenza erano venute a trovarla solo compagne di lavoro, e anche quelle molto di rado, un paio di volte in tutto. Ma lei non sembrava affatto dispiaciuta. E naturalmente tutte le compagne di stanza erano curiose di sapere qual era stato il primo amore di Larisa, ammesso che ne avesse avuti, e come mai era così indipendente e orgogliosa.

    Larisa non disse nulla, ci pensò un po' su, e cominciò a raccontare.

    NOVELLA SECONDA

    della biologa Larisa. Si innamora appassionatamente e per sempre di un ragazzo che non l'ama, poi riesce a farsi amare. Si libera dell'odiata rivale. Attende il ritorno dell'innamorato dato per disperso, ma lo perde per sempre; lo aspetta a lungo, perde ogni speranza e poi viene a sapere che è morto. Cerca allora qualcuno che assomigli al primo amore, non lo trova, decide di fare un figlio da sola

    Quando mi sono innamorata per la prima volta avevo cinque anni... Non ridete, state a sentire la mia storia.

    È stato durante la guerra. Mio padre era comandante di un aeroporto militare, mia madre era ufficiale medico. Prestavano servizio in un reparto operativo, e avevano una tale paura di perdermi nel caos della guerra che, non fidandosi né dei loro genitori né dei nidi, mi portavano con loro. L'aeroporto veniva spostato di continuo, man mano che veniva modificata la linea del fronte, e io dietro. Quando ci fermavano per il controllo dei lasciapassare dovevo stare immobile. Anche quando le autorità passavano in rivista il reparto mi dovevano nascondere.

    Un giorno arrivò un aviere che aveva appena finito la scuola di volo. Era più giovane degli altri, aveva appena diciott'anni, ma naturalmente a me sembrava grande, vecchio persino. Volodja era biondo, abbronzato e con gli occhi azzurri, molto allegro e coraggioso. Fu subito simpatico a tutti, lo chiamavano Volod'ka. In reparto c'erano delle ragazze che lavoravano alla stazione meteorologica e nel settore sanitario, e poi Ràečka, la radiotelegrafista. Si misero tutte quante a fare gli occhi dolci a Volod'ka, e questa Ràečka ebbe anche un discreto successo. Ma io glielo portai via. Ridete pure, ma andò proprio così.

    Non vi so dire perché quel ragazzo, ragazzo perlomeno ora per me che sono una quarantenne, si fosse affezionato a me, che ero la mascotte vezzeggiata da tutto il reggimento. Non potevamo stare lontani uno dall'altra nemmeno un giorno. Al mattino appena alzata correvo subito nel capannone degli avieri. Questi, quando mi vedevano dalla finestra, gridavano a Volod'ka:

    «Stamattina la tua fidanzata è un po' in anticipo, valle incontro!»

    Volod'ka usciva sulla porta, mi prendeva in braccio, e solo allora si andava insieme in mensa. Tutti i bocconcini prelibati del piatto di Volod'ka, compresa una specie di marmellata un po' liquida di frutta secca che era un lusso nei primi anni della guerra, andavano di diritto a me perché ero la sua fidanzata.

    Papà e mamma non volevano che mi viziasse così.

    Una volta mi proibirono per un giorno intero di andare a disturbare Volod'ka. Rimasi a casa e continuavo a piagnucolare.

    Immagino quale dev'essere stato lo stupore dei miei quando Volod'ka in persona si presento sulla soglia della nostra stanza, fece il saluto militare a mio padre e gli disse: «Compagno comandante! Chiedo l'autorizzazione a prelevare la mia fidanzata! È ora di andare a verificare la macchina».

    Naturalmente mi lasciarono andare, e corremmo felici sul campo di volo. Volod'ka doveva curare la manutenzione della sua macchina, un ricognitore U-2, che i compagni piloti di caccia prendevano in giro perché era un biplano, e lo chiamavano scaffale. Lui dava un'occhiata alla macchina, sistemava qualcosa, e intanto io con uno straccetto toglievo la polvere dalle ali.

    Dopo il lavoro Volod'ka mi portava in cabina e facevamo un giro o due sull'aeroporto, col permesso di mio padre. Poi andavamo a pranzare. In mensa gli avieri mi chiedevano: «Allora, Lorka, la macchina è in ordine?»

    «In ordine perfetto!» rispondevo io, orgogliosa.

    Una volta Volod'ka si batté per me con un altro aviere. Giocando ero passata dalla camerata perché avevo sete. I ragazzi stavano bevendo alcol di nascosto dai superiori. Ma di me non avevano paura: Volod'ka mi aveva educato alle rigide norme del cameratismo. Non mi sfuggiva niente di quel che succedeva nel nostro reparto, di sicuro ne sapevo anche più di mio padre. Entrai in camera, vidi che non c'era Volod'ka e allora chiesi al primo aviere che incontrai di darmi un po' d'acqua.

    Quel cretino, già ubriaco fradicio, invece dell'acqua mi porse il suo bicchiere con l'alcol. Ne inghiottii un gran sorso e subito mi sentii soffocare, e poi mi misi a urlare come una forsennata. Volod'ka si precipitò lì, capì subito cos'era successo, mi prese in braccio e mi fece mandar giù una grande quantità d'acqua. Io non capivo niente, urlavo e basta.

    Quando mi ripresi, Volod'ka mi mise su una branda, trascinò l'aviere per la camicia fuori in cortile e lo picchiò brutalmente, tanto che quello per una settimana andò in giro nero di lividi. Papà non lo venne mai a sapere. Da allora mi sono sempre sentita più protetta con Volod'ka che con mio padre.

    Ma un brutto giorno lui ebbe una storia con questa telegrafista Ràečka. Quella troia! Non ho ancora smesso di odiarla. Si incontravano di sera. Non so cosa ci fosse tra loro e quanto sia durato, ma una volta qualcuno mi disse per scherzo: «Ma lo sai che il tuo Volod'ka ti tradisce con Ràečka?»

    Care mie, che attacco di gelosia! Ribollivo tutta di odio e disperazione, ma ero fermamente decisa a cacciare via Ràečka da Volod'ka. E fu quello che feci. In che modo, vi domanderete.

    Ma io la mandavo via nel vero senso della parola: se vedevo che Ràečka gli si avvicinava, mi avventavo su di lei e giù botte: «Vattene via! Questo è il mio fidanzato, non il tuo!»

    Venivo rimproverata, cercavano di farmi cambiare idea, ma io sapevo una cosa sola: Ràečka a Volod'ka non l'avrei lasciata avvicinare. Infine mio padre perse la pazienza diede una strigliata, così forte che sul sedere mi rimasero le strisce rosse della cinghia. Ma la mia astuzia femminile non aveva limiti.

    Corsi subito da Volod'ka, mi tirai giù i pantaloncini davanti a tutti, mostrai il mio sedere e dissi:

    «Ecco, vedi, questo mi è toccato per colpa di quella stupida Ràečka. E il papà ha detto che mi toccherà ancora se tu andrai in giro con lei».

    S'intende che mio padre l'aveva messa giù in modo un po' diverso... E cosa pensate sia successo? Forse Volod'ka non ci teneva poi tanto alla mia rivale, forse lei non tollerava che tutti ironizzassero sul nostro triangolo dandola per perdente, ma la loro storia comunque finì presto. Dopo, incontrando la mia rivale battuta, non mancavo mai di girarmi con orgoglio dall'altra parte e non la salutavo mai. E per questo prendevo ogni volta uno scapaccione dal papà o dalla mamma.

    Vi domanderete in che cosa consistesse il nostro amore oltre a queste sciocchezze. Nell'amore più vero. Quando Volod'ka era libero dai voli, passeggiavamo per il bosco intorno all'aeroporto. Non ricordo di che cosa si parlasse, ma quando stavamo insieme era una lunga e ininterrotta conversazione.

    Difficile immaginarsi ora di che cosa potesse parlare per ore e giorni un ragazzo di diciott'anni con una bambina di cinque.

    Ricordo solo lo stato d'animo di serenità, calma e serietà delle nostre conversazioni. Parlavamo dei grilli di campo e della loro vita particolare, che non interessava a nessuno tranne a Volod'ka, parlavamo della guerra e della vita degli adulti.

    Questo grande bambino, anch'egli sconvolto dalla guerra, era l'unico che poteva restituirmi una vera infanzia: campi, boschi, storie. Tra l'altro, io e lui le storie le inventavamo insieme: quello che vedevamo, lo raccontavamo. E ricordo ancora il senso di assoluta protezione che non so perché non mi veniva da mio padre e mia madre, ma solo da Volod'ka.

    Spesso eravamo bombardati, l'aeroporto era nascosto sotto un boschetto ma i nazisti a volte riuscivano a identificarlo, e allora dovevamo trasferirci in un'altra base. Figlia della guerra, vedevo feriti e morti, le buche delle bombe e le case distrutte, gli aerei bruciati. Ricordo i funerali degli aviatori, sulle cui tombe invece della croce mettevano un'elica. Ma quando stavo con Volod'ka, ero sicura che mi avrebbe difeso dai Messerschmitt in cielo e dalle mine in terra.

    Quando Volod'ka veniva inviato in missione, e in volo di ricognizione doveva scattare sul suo U-2 fotografie aeree, aspettavo il suo ritorno come una giovane sposina. Non giocavo, me ne stavo seduta in un angolo e tendevo l'orecchio. Distinguevo il motore dell'aereo di Volod'ka da lontano. Allora correvo alla pista gridando: «Arriva Volod'ka!» e non mi sbagliavo mai.

    Una volta non tornò da un volo. A mio padre comunicarono di avere visto che Volod'ka era stato intercettato da un Viesser nazista e abbattuto, incendiandosi in volo. Lo vennero a sapere tutti nel reparto, e lo seppi anch'io. Lo compiansero gli amici, i miei genitori. Perfino Ràečka girava con gli occhi gonfi di pianto. Ma io non credetti alla sua morte, e avevo ragione.

    Avevo freddo e sentivo la mancanza del mio Volod'ka, mi rattristavo, ma a tutti quelli che mi consolavano rispondevo:

    «Mi manca Volod'ka. Tornerà presto».

    Passarono mesi, e un giorno d'inverno mia madre entrò in camera e mi disse:

    «Presto, corri, vai incontro a Volod'ka...»

    Non sapevo perché, mia madre non aveva un'aria molto allegra, ma io non ci feci caso. Così com'ero, senza mettere la pelliccia, corsi fuori verso il bunker dello stato maggiore. Là vidi Volod'ka e mi gettai verso di lui. Mentre correvo, qualcuno gridò:

    «Attenta!»

    Ma io gli ero già in braccio e sentii solo che stringendomi a sé barcollava, e che qualcuno lo sostenne. Volod'ka era tornato senza una gamba, con le stampelle. Ed ecco un'altra cosa stupefacente, da cui capirete che era proprio amore. Volod'ka in quel volo si era ustionato al punto che al suo ritorno in un primo tempo non lo avevano riconosciuto. Tutto il suo viso era ricoperto di una orribile pelle rossastra e sulle guance aveva alcuni profondi tagli chiari. Ma io non ebbi nemmeno bisogno di guardarlo per riconoscerlo, volai da lui e basta, col cuore avevo capito benissimo che era lui.

    E ricordo ancora quel senso di completa tranquillità, di amore e protezione quando tutti sedemmo intorno al tavolo, io in braccio a lui, e Volod'ka raccontò le sue avventure. Carezzavo col dito le ferite sul suo viso e gli domandavo:

    «Non ti faccio male? E così? E se ti bacio?»

    Per quel volo Volod'ka fu promosso capitano, e io gli diedi un nome nuovo, più importante: capitan Bruciatura. Da quel momento lo chiamarono tutti così. Dopo un mese gli mandarono una protesi e poté continuare a volare.

    Finì la guerra contro la Germania, venne il momento di separarci da capitan Bruciatura, dal mio Volod'ka. Noi tornavamo a Leningrado, e lui fu inviato in Estremo Oriente. Mentre si avvicinava il momento di separarci, Volod'ka mi promise:

    «La guerra col Giappone finirà, tu crescerai, diventerai una bella ragazza, allora ti troverò e tu sarai mia moglie».

    Io lo presi in parola, ma non sarei tanto sicura che Volod'ka stesse scherzando. Il giorno in cui ci separammo, non fece che parlare con me. Quando partimmo e mi portarono di forza sulla jeep mentre piangevo come un vitello, lui disse:

    «Addio, mio vero amore, aspettami».

    Passarono gli anni, Volod'ka non tornava, ma io non riuscivo a dimenticarlo. Crescevo, diventavo una ragazza fatta e mi vergognavo a chiedere di lui ai miei genitori. Facevo finta di nulla e aspettavo. Ma a sedici anni cominciai le ricerche. Il mio cuore mi diceva che Volod'ka non mi aveva dimenticato e mi stava cercando anche lui. Solo una cosa non capivo: come mai lui, così forte e intelligente, non era ancora riuscito a trovarmi? Chiesi di lui sia ai miei genitori sia agli aviatori che conoscevo: non c'era qualcuno che sapesse che fine aveva fatto? Nessuno sapeva nulla. Ma anche il mondo dell'aviazione è piccolo e io ero sicura che prima o poi avrei saputo qualcosa di lui. E infatti...

    Vi ricordate quanti segreti vennero a galla dopo il XX congresso? Vennero fuori molti genitori della cui esistenza i figli non sapevano nulla, anche a certe donne saltarono fuori mariti vivi o morti che erano finiti un tempo nel lager. Mia madre, scuotendo sempre mestamente la testa in risposta alle mie domande su Volod'ka, un giorno mi si sedette accanto e mi raccontò il suo tremendo destino.

    Per quello stesso volo eroico dal quale Volod'ka era uscito vivo per miracolo, prima lo avevano promosso di grado e lo avevano proposto per il conferimento della stella d'oro di Eroe dell'Unione Sovietica. Ma poi, dopo avere capito come stavano le cose, lo avevano spedito in un lager. Risultò che Volod'ka era atterrato tra le file tedesche e, dopo aver preso le fotografie, era tornato dai russi attraversando la linea del fronte, ustionato e con una gamba ferita. All'inizio ne avevano fatto un secondo Mares'ev[1], poi decisero che uno era più che sufficiente. E il mio fidanzato era scomparso a Kolyma.

    Ecco tutta la storia del mio primo amore. E un secondo non l'ho avuto. Ho guardato i ragazzi della mia età, poi gli uomini, quando sono diventata più vecchia, ma nessuno mi sembrava un vero uomo in confronto al mio Volod'ka. Non mi sono mai sposata, anche se ho fatto qualche tentativo... Ma quando arrivavo a dover decidere, mi dicevo sempre:

    «No, neanche questo è Volod'ka. Bisogna aspettare ancora».

    Ma non ho mai smesso di cercare. Ho preso il dottorato e ho deciso che era ora di mettere su una famiglia da sola, senza maschi. Ora ho fatto un figlio, Volod'ka, l'ho fatto e lo tirerò su. 

    «Ora capisco da dove ti viene tanta forza e sicurezza» disse Valentina, impiegata alla direzione culturale del comitato esecutivo della città di Leningrado.

    «Le altre aspettative che nutri nei confronti degli altri ti hanno indotta a creartene anche su di te, ti hanno aiutata a ottenere tutto con le tue forze. A crescere tuo figlio ti aiuterà lo Stato.»

    «Grazie tante» scoppiò a ridere Larisa «cinque rubli in più riesco a guadagnarmeli, in qualche modo!»

    «Cosa dici!» sorrise Zina la Barbona «con cinque rubli al massimo ti fai un mezzolitro, oppure tre piccole

    Per scherzo cominciarono a vedere che cosa si poteva comprare a un bambino con cinque rubli al mese: una scarpina, due chili di carne in negozio oppure un chilo al mercato nero, un chilo di mele al mercato nero o tre in negozio, un quarto di grembiulino per la scuola oppure una ruota di triciclo.

    L'unica a non ridere era Nataša, anche lei donna assai moderna, anche se non sicura di sé quanto Larisa.

    «E a me sembra, Larisa» disse «che tutta la tua forza stia nella tua insicurezza. Oggi accade a molte donne. Non è tanto che noi cerchiamo di essere forti, quanto che siamo costrette a esserlo per la debolezza degli uomini. Si stanno effeminando a tutta birra, ecco la verità. Un uomo in casa è sempre un bambino, solo un po' più ingordo.»

    Spettegolarono un po' sugli uomini, poi chiesero a Zina di raccontare, toccava a lei.

    NOVELLA TERZA

    di Zina la Barbona, denominata ufficialmente donna senza fissa dimora. Un coraggioso milite dell'esercito sovietico improvvisamente arde di sentimenti teneri verso Zina, ancora giovane. Le strappa un appuntamento durante il quale viene pienamente ricambiato da lei, agendo nel pieno spirito del regolamento del servizio sul campo. Poi gli innamorati si separano per cause indipendenti da Zina. Presto la madre, che cercava di recuperare l'onore della figlia attraverso i superiori diretti di Vasja o Kolja, le dice che il suo amato è stato smobilitato, in altre parole ha finito il servizio militare e se ne è partito per una destinazione ignota

    Anche il mio primo amore, care ragazze, è stato di tipo militare. Attaccato al mio paese c'era un reparto di un battaglione del genio militare. I soldati andavano al club e correvano dietro alle nostre ragazze. Una volta dopo il cine un soldato mi ha accompagnato, mi ha imboscato dietro un cespuglio e mi ha scopato. Era forte, quel fottuto. Di gridare mi vergognavo. Dopo una settimana ho preso il coraggio e l'ho detto a mammina. Quella s'è precipitata a lamentarsi dai superiori del soldato, ma lui se l'era già data, probabilmente in smobilito... Si chiamava Vasja. O Kolja? No, Vasja, mi pare. Ecco tutto il mio primo amore! Le donne scoppiarono a ridere:

    «Zina, ma che razza d'amore sarebbe?»

    «Come, che razza d'amore! Quello più naturale. Se Larisa aveva una decina d'anni di più, vuoi dire che Volod'ka non se la sarebbe scopata? Se aveva quindici anni altro che grilli nei cespugli, sarebbe andata in cerca di qualcosa di più corposo! Si vede che i vostri vecchi v'han sempre tenuto fuori da questa merda di mondo e che un fottutissimo galletto non ve l'ha mai schiaffato in culo: per quello che credete a tutte quelle balle sull'amore.»

    E Zina si girò dall'altra parte, infuriata. Nataša, quella degli uomini effeminati, disse con compassione:

    «Non te la prendere, Zina, né con noi né con la vita. È chiaro che un primo amore vero e proprio non capita a tutti. E quella a cui capita, spesso non lo sa conservare. Altrimenti tutte le famiglie nascerebbero dal primo amore, ma questo non succede da tempo, e forse non è mai successo. Ora tocca a me: vi racconterò la storia del mio primo amore, che ho tradito nel modo più stupido.

    NOVELLA QUARTA

    dell'ingegnera Nataša. È un primo amore classico: l'autrice si astiene dal farne un sommario. La cugina di Nataša esprime una perfidia davvero rara in una persona così giovane. Ma alla perfidia è stato dedicato un altro capitolo. Passo perciò la parola aNataša stessa

    A me il primo amore non è arrivato né troppo presto né troppo tardi, all'età più adatta, diciassette anni.

    Ho finito la nona classe a pieni voti e i miei genitori, per farmi riposare in previsione delle difficoltà della decima, mi mandarono per tutta l'estate a Suchumi, da nostri lontani parenti georgiani. Perché ci fosse qualcuno che mi tenesse d'occhio venne anche mia cugina Nàden'ka, più grande di me, che studiava all'istituto professionale di medicina.

    Eravamo tutt'e due ragazze casalinghe, studiose. Oltre allo studio ci occupavamo solo di musica, ma anche questo di rado, per nostro piacere. Eravamo due tipe obbedienti e ci facevamo persino le trecce, anche se a quei tempi quasi nessuno delle nostre coetanee le portava.

    E per prima cosa io e la mia Nàden'ka dalla stazione di Suchumi andammo direttamente dal parrucchiere e, eliminate le trecce, ci facemmo tagliare i capelli alla maschietta. Sentivamo proprio di essere libere.

    È vero che non ci spingemmo molto oltre. Non ci decidevamo mai ad andare a ballare o al cinema perché prestavamo attenzione alle voci che dicevano che i georgiani rapiscono le ragazze russe. E di giorno ci accompagnava in spiaggia la zia Eteri, che stava sul chi va là per evitare che facessimo conoscenze.

    Ma i ragazzi del luogo ci notarono subito. Non so adesso dopo il parto, ma allora, a diciassette anni, credetemi, ero proprio carina. E la mia cuginotta neppure peggio. Ed ecco che quando tutta la famiglia si sedeva sul terrazzo a bere il tè, me e Nade n'ka comprese, passeggiava avanti e indietro sotto casa nostra un'intera banda di ragazzi. Strimpellavano le chitarre, cantava no e talvolta, se a tavola non c'era la zia Eteri, ci invitavano quasi per scherzo a fare due passi.

    Io e Nàden'ka ci tormentavamo e annoiavamo, ma agli inviti dei ragazzi non volgevamo nemmeno lo sguardo. E questo piacque molto a nostra zia. Non facevamo altro che pensare a come sfuggire al piantonamento.

    Ci venne in aiuto un evento fortunato, meglio sarebbe dire una disgrazia. Una volta in mare si scatenò una tempesta. Fin dal mattino eravamo andate in spiaggia, ma la zia Eteri non ci aveva permesso di fare il bagno. Nàden'ka si era rassegnata, ma io cominciai a cercare di convincerla:

    «Cara zietta, lasciaci andare solo per un momento in acqua, non ci allontaneremo! Anche noi siamo nate in riva al mare, sappiamo nuotare da quando siamo piccole così, siamo due delfini!»

    Alla fine la zia si intenerì e ci lasciò: «Però mi raccomando: non allontanatevi!»

    Altro che lontano! Ci gettammo sotto le prime onde e poi alla marinara andammo al largo... nuotammo, ci tuffammo a piacere, facemmo capriole sulle onde, finché giunse il momento di tornare indietro. Ma ad andare verso la riva non riuscivamo! Se ci fossimo avvicinate e poi avessimo toccato il fondo con i piedi, un'onda ci avrebbe travolte e trascinate verso gli scogli.

    La zia, vedendo come stavano le cose, si precipitò verso l'acqua. Correva lungo la riva, agitava le mani, gridava come una gallina. Questo peggiorò le cose, perché la zietta trasmetteva il panico anche a noi. Guardai e vidi che Nàden'ka stava per mettersi a strillare. Allora dissi:

    «Forza, riportiamoci al largo, riposiamoci un momento e poi torniamo indietro».

    Ritornammo al largo, nuotammo un po', ma senza allontanarci come prima. Facemmo il morto per riposare e raccogliere le forze per un nuovo tentativo di raggiungere la riva. A quel punto vedemmo che si erano avvicinati alla zia due ragazzi, e lei spiegava loro qualcosa e indicava noi.

    Quelli si tolsero camicia e pantaloni e si lanciarono verso di noi. Ci spiegarono come bisognava fare: gettarsi ancora sotto le onde e poi, con l'acqua bassa, correre più che si poteva verso la riva prima di essere travolti da un'onda. Giungemmo sulla spiaggia tenendoci per mano. La zia ringraziò i ragazzi, mentre io e Nàden'ka non eravamo in grado di farlo, e non li degnammo nemmeno di uno sguardo.

    Per punizione la zia non ci lasciò andare in spiaggia per due giorni, ma il terzo ebbe compassione e ci portò. Non avevamo fatto in tempo a sistemarci sulla sabbia che arrivarono i nostri salvatori e si rivolsero alla zia:

    «Zia Eteri! Se desidera, possiamo badare alle sue nipotine mentre fanno il bagno!» disse uno.

    «E anche fuori!» aggiunse l'altro.

    La zia li guardò sospettosa, ma poi acconsentì, e ci lasciò andare a fare il bagno con loro. Dopo tutto ci avevano salvato! Dopo un po' ci lasciò anche andare insieme a passeggiare. Però la regola era questa: a passeggiare e a fare il bagno potevamo andare solo di giorno, e loro dovevano riaccompagnarci.

    Naturalmente noi ci svegliammo subito e ci innamorammo: Nàden'ka di Salva, io di Amiran. I primi tempi passeggiavamo tutti e quattro insieme, poi cominciammo a dividerci, mettendoci d'accordo su dove incontrarci poi per arrivare insieme a casa.

    Ma dopo un po', io e Nàden'ka imparammo a scendere dalla finestra della nostra camera aggrappate al grosso ramo di una vite vergine. La zia ci portava in palmo di mano:

    «Le mie ragazze non se ne vanno per la strada come le altre, vanno a letto con le galline!»

    Sarà stato anche vero che andavamo a letto con le galline, però poi ce la spassavamo fuori fino al primo canto del gallo. Ci arrampicavamo lungo il muro di casa quando cominciava ad albeggiare.

    All'inizio ci tenevamo solo per la mano e parlavamo; passeggiando di notte per le vie. Poi accadde che io e Amiran ci sedemmo sulla ghiaia in riva al mare, e lui mi prese e mi baciò sulla guancia. Io mi misi a strillare terrorizzata. Lui, povero, mi stava intorno e non sapeva come tranquillizzarmi. Entrò in acqua con scarpe e pantaloni e disse:

    «Non smetterò di bere acqua salata finché tu continuerai a versare lacrime salate».

    E cominciò a raccogliere acqua nel palmo delle mani e a bere, continuando a dire:

    «Che schifezza! Finirò per morire!»

    Mi spaventai e gridai:

    «Smettila subito, non sono più arrabbiata!»

    E lui, furbacchione, mi rispose:

    «Smetterò solo se sarai tu a baciarmi!»

    Dovetti cedere. Dopo un po' ci provai gusto e lo baciai quanto voleva lui. Ma niente di più! Ah, ragazze, sapeste che bella estate... Amiran mi portava in tutti i suoi posti preferiti che conosceva fin dall'infanzia. Noi coglievamo noccioline in collina, conchiglie sul mare, andavamo in barca a pescare, facevamo progetti per il futuro: dopo un anno anche lui avrebbe

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