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Intelligente non praticante: Schegge bislacche di vita vissuta
Intelligente non praticante: Schegge bislacche di vita vissuta
Intelligente non praticante: Schegge bislacche di vita vissuta
E-book204 pagine2 ore

Intelligente non praticante: Schegge bislacche di vita vissuta

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Info su questo ebook

Le cose che mi piace fare sono le stesse di quando avevo otto anni: leggere, nuotare e scrivere. Non ho affrontato la fatica di trovare altre strade, che so, suonare la ghironda, lanciare il giavellotto o scolpire il legno.
Ho scritto abbastanza, nella vita. Durante gli anni scolastici la scrittura mi ha salvata da parecchi inconvenienti.
- Le tue traduzioni si discostano dall’originale, ma sono talmente piacevoli da leggere che non posso darti un brutto voto -  mi diceva la prof. di latino.
Ho scritto una tesi quasi infinita e durante la discussione ero io a fare le domande ai membri della commissione per assicurarmi che l’avessero letta tutta. Ho scritto progetti, report, ricerche, recensioni e articoli per il mio lavoro di formatrice. A volte scrivo su Facebook perché mi diverto e mi diverte quando gli altri si divertono se scrivo qualcosa di divertente.
Ho scritto questo libro perché qualcuno, dopo tanto tempo, è tornato nei miei pensieri a ricordarmi che era ora di farlo. Poco più che ventenne ho lavorato per due quadrimestri in una scuola media. Alcuni ragazzi rimanevano due ore in più per finire i compiti e io gli davo una mano. Il primo giorno nessuno ne voleva sapere, né di me né di studiare e abbiamo passato il pomeriggio tra l’ozio e la libera iniziativa. Il secondo giorno ho spiegato che potevo essere utile in italiano, storia e geografia, mentre per le questioni scientifiche era meglio cambiare aula e docente. Il terzo giorno un ragazzo mi ha fatto una domanda, un altro ha tirato fuori il quaderno di grammatica, un altro ancora il libro di storia e abbiamo iniziato a lavorare insieme.
Poi un ragazzo dall’aria vivace poggia sulla cattedra un foglio bianco con un titolo rosso e mi chiede:
- Racconta la tua idea di felicità. È difficile professore’, non so da dove cominciare.
- Pensa a un momento in cui sei stato felice – rispondo.
- Che me lo scrivi tu? – controbatte.
- Facciamo una cosa. Tu inizia a scrivere e nel frattempo scrivo qualcosa anch’io e se ci trovi qualche spunto interessante puoi aggiungerlo al tuo tema.  
Conclusa la stesura il ragazzo inizia a leggere il mio scritto ad alta voce. I suoi occhi si muovono veloci sul foglio e sorridono spesso, trasformandosi in due sottili mezzelune. Ogni tanto solleva la testa come per essere sicuro di avermi accanto a lui e centrandomi con uno sguardo nocciola, intenso e deciso, mi dice:
- Prof. è bellissimo, ma perché non scrive un libro?
Ed eccolo il libro, un collage di racconti, osservazioni e aneddoti, immagini di un pixel e affreschi di vita vissuta.
È strutturato in quattro segmenti tematici: Arance marce, una finestra sui paradossi dell’adolescenza; Amore stanotte t’ho sognato, un graffio sulla tela colorata della vita di coppia; Mamma, questa sei tu, sposta il focus sulla genitorialità e sulla comunicazione tra adulti e bambini; Intelligente non praticante, brandelli di vita quotidiana osservata e interpretata in chiave ironica. 
È un libro dalle trame multiformi, un flusso di coscienza frammentato ma reso armonico dalle voci dei personaggi che rivelano il mio modo di osservare e stare al mondo. L’ho scritto col sorriso e con il piacere di raccontare che non prendersi sul serio è tra le più belle forme di saggezza.
LinguaItaliano
Data di uscita2 gen 2019
ISBN9788829587537
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    Anteprima del libro

    Intelligente non praticante - VALENTINA VINOTTI

    Vinotti

    ARANCE MARCE

    - Ciao, io sono vegana

    - Io sono Valentina, tutto il resto è opinabile.

    Ricordi

    I ricordi sono cocci d'esperienza. Molti non li ritrovi più e ti accorgi della loro scomparsa quando qualcuno tira fuori un pezzo del tuo passato che non riesci a mettere a fuoco. I ricordi evocati e raccontati assolvono e addolciscono anche i fatti più controversi e dolorosi. E ti accorgi che finora la tua vita non è stata così male.

    Lo squalo

    Al mare, da piccola, vivevo attaccata agli scogli. Ore e ore a riempire il secchiello di qualunque forma di vita marina ci fosse in circolazione.

    Un’estate, avrò avuto più o meno sei anni, mia madre s’ammalò e chiamò la babysitter. Annamaria, il corpo sgraziato e in sovrappeso con qualche ciuffo di capelli ricci domati da mollette colorate. I lineamenti, fuori campo rispetto alla mia statura, era come non li avesse mai avuti e la sua figura corpulenta con la testa invisibile mi faceva pensare alle apparizioni antropomorfe dei cartoni di Tom e Jerry.

    Pensavo che anche senza mia madre avrei continuato indisturbata l’attività ittico venatoria ma la nuova babysitter, non proprio un genio, necessitò di qualche ragguaglio supplementare. Non appena mi avvicinai agli scogli mi intimò, fastidiosamente stridula, di tornare indietro. Gracchiava le solite cose: che non potevo, che era pericoloso, che il mare era mosso. La ignorai e raggiunsi serafica la mia postazione. Arrivò come un Panzer Tiger, agguantò il mio braccio e ci inabissò le unghie, affilate e orride propaggini di dita lardose e sudaticce, strattonandomi per qualche metro. Affondai tutti i denti a disposizione nel suo braccio. Non alla mordi e fuggi ma un’azzannata da fiera che difende la cucciolata. Non mollai la presa e scrollai la testa per procurarle il maggior dolore possibile. Ero una bambina a modo, mite, schiva e rispettosa con delle evidenti difficoltà relazionali con chi rompeva i coglioni senza spiegazioni scientificamente provate o giustificazioni moralmente ineccepibili.

    Annamaria urlava, perdeva sangue e tenendosi il braccio ferito corse a chiedere aiuto ai bagnini. Fu subito medicata ma continuava a sanguinare e poco dopo un’ambulanza smorzò le sirene e trovò parcheggio sul piazzale davanti allo stabilimento.

    Decisi di non perdere un secondo di quella scena meravigliosa e corsi fino in strada, resistendo al dolore del brecciolino e dell’asfalto bollente sui piccoli piedi scalzi. Nascosta dietro un bosco di gambe in infradito vidi due signori in camice bianco che sorreggevano la povera donna. Uno le prese il braccio, lo guardò bene e disse:

    - Ammazza oh… ‘a signo’ e chi l’ha mozzicata ‘no squalo?

    Uno squalo. Io che pescavo granchi, scorfani e gamberetti paragonata a uno squalo. Andata e ritorno dal regno dei cieli.

    Puntualità

    Scuola materna dalle suore. Ogni mattina ci disponevano in coppia su due file distanziate circa un metro l’una dall’altra.

    - Shhh, silenzio ora passa Gesù - diceva la suora con l’indice pigiato sulle labbra.

    Il lungo corridoio tra i bambini avrebbe dovuto accogliere il suo passaggio. Ogni mattina aspettavo, aspettavo ma non arrivava nessuno. Ogni santo giorno la stessa storia, finché quei lunghi minuti d’attesa si fecero così insopportabili da spingermi a ricercare, con infantile vigliaccheria, un segnale che stimolasse la cristiana attenzione. Cominciai a stringere la mano della mia compagna. Forte. Sempre più forte. Fino a farla piangere. Speravo che le urla di una bambina di cinque anni fossero una priorità da onorare porgendo le scuse più sentite. Macché. Niente. Né un refolo di vento, né una porta cigolante, né un bisbiglio in lontananza. Solo silenzio e attesa.

    In quel momento germinò il mio rispettoso disinteresse per le questioni di fede. Unitamente alla mania per la puntualità.

    Il bullo e la pupa

    La mia scuola elementare era collegata all’edificio della scuola secondaria da un lungo corridoio esterno e durante la ricreazione si stava tutti insieme, in un gran miscuglio anagrafico. È la scuola dove accompagno mio figlio ogni mattina, talmente identica a quella di quasi quarant’anni fa che c’è ancora la stessa monnezza: cartacce, lattine e bottigliette di aziende uscite da tempo dal mercato.

    A otto anni il mio comportamento con le persone meritevoli di disprezzo si basava su un granitico codice etico: se mi parli ti ignoro, se mi tocchi ti meno, se offendi o fai del male ad amici, conoscenti, familiari, parenti alla lontana o malcapitati passanti ti uccido, o quantomeno mi impegno a fondo nell’impresa. Credo che l’unica abilità dei bulli sia saper individuare il più debole in tempi più rapidi della media.

    C’era un bullo nella mia scuola - un caso limite, visto che ripeteva per la seconda volta la prima media - che capeggiava un branco di ragazzini. Ogni giorno trovava con gran perizia la persona da vessare e dopo essersi arreso quasi subito alla mia imperturbabilità, si rivolse alla mia amica del cuore. La prendeva in giro. Una, due, tre, quattro volte, fino a commettere l’imprudenza di farla piangere davanti a me. Spariscono i bambini, le maestre, il cortile, gli alberi, le vetrate, l’amica in lacrime. Buio e silenzio spezzati da un tunnel di intenzioni omicide che mi collegava solo a lui. Gli salto addosso, cade a terra, lo prendo a calci ripetutamente, senza pensare, senza provare piacere o compiacimento. Era una cosa che andava fatta, con la naturalezza di una rabbia giusta.

    Quando arrivarono le maestre (ricordo come fosse ieri la loro espressione incredula) il meschinetto aveva la faccia tutta impiastricciata di sangue. Mi immobilizzano, una a destra e una a sinistra, sgomito, sgattaiolo, ritorno sull’obbiettivo, ancora calci, poi mi agguantano con maggior fermezza e cedo alla calma.

    Non fu l’arrivo dell’ambulanza a darmi soddisfazione. Né che la cosa fu subito insabbiata e non ne subii alcuna conseguenza disciplinare (mi piace pensare che il motivo fosse che in fondo avevo fatto un piacere a tutti quanti). Neanche il fatto che il bullo non solo perse prestigio, carisma e credibilità ma divenne egli stesso oggetto di rudi e coloriti vilipendi perché malmenato da una bambina più piccola di lui. La soddisfazione arrivò anni dopo, quando anche mio fratello iniziò a frequentare quella scuola e il bullo riprese, col favore del tempo che monda le infamie, le sue consuete attività.

    - Se ti azzardi a toccarmi mia sorella ti spacca il culo - minacciava il fratellino.

    E lo spavaldo decaduto, come si dice a Roma, faceva pippa.

    No-No-Notorius

    La felicità del blitzkrieg in cartoleria per rinnovare il corredo scolastico, nei mesi estivi che a suon di cicale e profumo di libri nuovi annunciano il passaggio dalle medie alle superiori, raggiunse il culmine davanti alla cassa dove, risoluta e appagata, stringevo l’astuccio dei Duran Duran.

    - Ti piacciono i Duran Duran? - mi chiede una ragazza dai grandi occhi scuri, i lunghi capelli corvini e la pelle color luna che occupa il banco dietro al mio.

    - Sì - rispondo.

    Diventiamo amiche senza altri convenevoli. I mesi prima del concerto sono per noi molto impegnativi. Sentiamo il bisogno di distinguerci sfoggiando lo striscione allo stadio e per fare le cose con la massima accuratezza intere mattinate sono improrogabilmente dedicate alla tinteggiatura di ogni lettera del messaggio.

    - Oggi c’è l’interrogazione di greco - mi dice.

    - Ma stai scherzando? Dobbiamo finire le consonanti! - ribadisco riportandola alle sue responsabilità.

    Scriviamo su un lenzuolo a due piazze l’intero Coro dell’Adelchi, rischiando di perdere l’anno per numero di assenze.

    La nostra amicizia è anche messa a dura prova, grazie ai Duran Duran.

    Ai prof. di educazione fisica viene la brillante idea di far fare, a noi femminucce, un saggio di danza. Uno stacchetto in coppia con musica a piacere. Io sono già terrorizzata, ma la mia amica, che ancora non mi conosce dal punto di vista delle attività aerobiche coordinate, mi elegge subito a sua partner e sceglie pure il sottofondo musicale: Notorius.

    Il pomeriggio viene a casa mia e ci chiudiamo in salone per le prove.

    Ecco, io ho due deficit cognitivi. Il primo è che non memorizzo i movimenti corporei, non riesco a suddividerli in sequenze per poi assemblarli in un unicum armonico. Il movimento per me è fluido, non frammentabile. In sostanza, non apprendo nulla da chi tenta di insegnarmi a ballare. Il secondo è che per distinguere la destra dalla sinistra ci devo pensare. Questo, a parte qualche indicazione sbagliata e una ventina di stinchi sulla coscienza per un sirtaki a Paros, non mi ha mai creato grossi problemi. Ma per la sincronia di una coreografia mezzo secondo di pausa riflessiva è, ammetto, un’eternità.

    Dopo cinque ore la mia amica è incredula e sfinita. Fino a quel momento non l’ho mai sentita dire una parolaccia, arrabbiarsi o prendersela con qualcuno. È di un’educazione, di una delicatezza e di una temperanza veramente fuori dal comune.

    - A Valenti’ eccheccazzo però! - esclama con le braccia aperte tipo Cristo del Corcovado.

    La prego di sostituirmi immediatamente, ma non trova nessuno, le coppie sono fatte. Deve così rinunciare, lei che è brava e motivata, al balletto di Notorius.

    Che poi m’ha perdonato subito, l’ho capito dal sorriso dell’altra sera, sulle note di No-No-Notorius al concerto dei quasi anziani Duran Duran.

    Amiche

    Il bidone giallo della carta si riempie subito quando stai per cambiare casa. Butti via vecchi documenti, fatture, contratti, referti medici, appunti, scarabocchi. Ritrovi però anche tanti piccoli tesori che decidi di portare con te, le lettere d’amore con il per sempre che il tempo ha reso più realistico che retorico, i biglietti dei concerti, le cartoline e un profilo psico-attitudinale che la prof. del quarto ginnasio mi costrinse a fare perché convinta che non fossi normale. Uso il termine normale con estrema ignoranza e superficialità, perché ancora non ho ben capito cosa voglia dire e suppongo che mi porterò il dubbio nella tomba.

    Un pezzo di carta ingiallito ma attuale e attendibile uscito fuori da un vecchio diario. Il punteggio più alto al pensiero astratto che consente al soggetto di staccarsi dalla vita concreta e alla capacità di correlare, associare e valutare eventi e concetti diversi. Quello più basso, appena nella media, alle capacità di effettuare calcoli numerici.

    Avrei potuto campare inginocchiata su una colonna a comunicare con Dio e a collegare la prova della sua esistenza con lo schiudersi delle uova di passero tenute al caldo nelle mani giunte. Ma un bel liceo classico ci può pure stare, visto che ragioneria sarebbe stata una condanna a morte. Se non fosse che, il soggetto, si lascia distrarre da agenti esterni [e qui lo strizzacervelli m’avrebbe dovuto spiegare la differenza tra distrazione e curiosità, tra disattenzione come scelta consapevole o come disturbo neuropsichiatrico] ha un metodo di studio insoddisfacente perché non usa schemi e riassunti, ha un atteggiamento negativo nei confronti degli insegnanti perché non li ritiene imparziali e non condivide le finalità di formazione che la scuola gli fornisce. E qui sono dolori.

    Il perché fui invitata a fare quel test è una diretta conseguenza dei miei ultimi mesi di terza media. Ottimi voti nelle materie letterarie, mediocri in matematica e per di più buoni in geometria e scarsi in algebra. Allarme. Soggetto difettoso.

    L’insegnante di matematica prese la cosa come un affronto personale e reputò che il modo migliore per stimolare un’area del mio cervello non proprio brillante fosse quello di interrogarmi ogni giorno. Quando entravo in classe, per evitare di sentire il mio cognome con tono astioso e imperativo andavo direttamente alla lavagna. Un mese, due, tre. A poche settimane dall’esame non ne potevo più e glielo feci gentilmente presente.

    - Ah, non te ne frega niente della matematica? – tuonò minacciosa la prof.

    - No, non mi interessa – risposi, riluttante a spiegare alcunché.

    - Se non vieni subito alla lavagna ti faccio prendere sufficiente!

    - Va bene, basta che ‘sta storia finisce.

    - Ah, vuoi il sufficiente, allora?

    - Si, va benissimo.

    - Sufficiente hai chiesto e sufficiente avrai!

    Mantenne la promessa – d’altronde un’insegnante di sessant’anni non può non essere di parola con ragazzina di tredici, no? - e presi il diploma di terza media con il voto più basso della scuola, un voto adatto a finire dritti nell’autofficina del primo parente benevolo, non certo a iscriversi al liceo classico. Ammetto che con un nove in italiano e un giudizio complessivo di tutto rispetto mi rodeva un tantino, ma tre mesi di vacanze senza compiti stemperarono il prurito.

    La mia serenità terminò nei primi dieci minuti del primo giorno di scuola al liceo classico. Entra la prof. di greco, latino e italiano: il grande capo, al ginnasio. Orrenda, carnagione olivastra, pelle di rospo, rotoli di ciccia pure sui polsi, occhi malvagi, voce nasale. Aveva così fretta di redigere il suo catalogo che la sedia sulla quale ero seduta era ancora fredda.

    - Chi ha preso ottimo? – chiede.

    Un discreto numero di mani alzate.

    - Benissimo, complimenti.

    Segna i nomi su un taccuino.

    - Distinto?

    Altro cespuglio di mani.

    - Bene, bravi anche voi.

    Annota.

    - Buono?

    Altri palmi alzati.

    - Umm….

    Non aggiunge altro, appunta solo i nomi scuotendo la testa.

    - E sufficiente?

    Alzo la mano. Ci guardiamo a mo’ di duello spaghetti western. E lo sguardo lo abbassò prima lei per scrivere il mio nome. La prof. non mi piaceva ma ancora non la disprezzavo. Arrivai a farlo quando affermò che una nostra compagna, assente quel giorno, aveva avuto un bel coraggio a presentarsi al liceo classico visto che era figlia di una donna di servizio. Il mio unico rimpianto giovanile è di non averle strappato la lingua a morsi.

    Prima versione di latino, Cerere e Proserpina. Confermai la previsione dell’insigne docente con un quattro. Primo tema di italiano. Me lo consegna guardandomi come fossi stata una creatura appena evasa da un laboratorio di vivisezione. Dieci. Due voti così dissonanti mi resero un prodotto fuori catalogo. Abnormal. Chiamò l’azienda produttrice e chiese ai titolari di spedirmi da un consulente specializzato che fosse in grado di collocarmi nello scaffale giusto. All’epoca difficilmente le famiglie obiettavano sulle decisioni degli insegnanti e mi portarono a fare quel test, dal quale si evince, ma guarda un po’, che l’intelligenza non è equamente distribuita e che una persona può essere ben consapevole e alla lunga anche affezionarsi, alle proprie mediocrità cognitive.

    Questa storia però ha un lieto fine. Non dal punto di vista scolastico, presi un voto di merda anche al liceo perché ebbi un’accesa discussione con la presidente di commissione in sede d’esame. Insomma, ho dovuto aspettare l’Università per non avere più problemi coi

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