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S-ciao
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E-book158 pagine2 ore

S-ciao

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Info su questo ebook

E’ un libro di quelli che si leggono d’un fiato questo “S-ciao”, raccolta di storie vicentine, come recita il sottotitolo, che raccontano com’era la vita una sessantina d’anni fa, in un mondo in cui ancora città e campagna si confondevano, in cui a dettare le regole erano la natura e il susseguirsi delle stagioni, in cui i bambini erano bambini, i genitori facevano i genitori, le autorità erano autorevoli e guai anche solo sognarsi di perdere messa o dire una parola sbagliata alla maestra.
I racconti più che di nostalgia - che, anzi, è quasi assente - sono intrisi di ironia e divertimento. Divertimento degli stessi personaggi nel vivere le avventure, ma soprattutto divertimento dell’autore nel raccontarle, in prima persona, pescando nei ricordi di bambino e restituendo la sincerità e l’acutezza tipiche dell’infanzia. In questo senso perfetti esempi sono “L’amico degli animali”, sulla famiglia riunita davanti alla tv a guardare uno dei primi programmi divulgativi della Rai, oppure “Allora saria tutto un s-ciafonamento”, sui dubbi del padre circa il detto “porgi l’altra guancia”. Non sono esattamente “bei tempi andati” quelli che descrive, quanto piuttosto una strana età dell’oro, in cui la vita era - o forse sembrava - più semplice, le necessità non diventavano pretese, il mondo fuori dal paese sembrava lontanissimo e anche una cosa semplice come andare al ristorante a Thiene (da Schio!) veniva vissuta come un’avventura epica.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2014
ISBN9788884497048
S-ciao

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    Anteprima del libro

    S-ciao - Mariano Castello

    Farm

    Nota dell'autore

    S-ciao o s-ciavo, come tutti sanno, nella nostra antica lingua significava schiavo. S-ciao fu anche un saluto, come a dire: Schiavo vostro che in origine conteneva un eccesso di deferenza verso l’interlocutore, alla stregua di Riverisco che è il titolo di un altro mio libretto. Dell’originario s-ciao, alla fine rimase solo ciao e si è persa così la memoria sull’origine di questo saluto. 

    S-ciao rimase però a galleggiare nella nostra lingua fino ad arrivare quasi ai nostri giorni, ma assumendo un significato diverso, anche se riconducibile in qualche modo a quello primitivo. S-ciao è sinonimo di pazienza, che ben si adatta all’indole della gente veneta: S-ciao che el se imbriaga, ma che dopo el pesta anca la mojere, no va mia ben. Di norma questa parola anticipava una frase avversativa, come nell’esempio. Ma si poteva usare anche in un significato diverso: Disi qualcosa, Toni, ma Toni andava via e s-ciao (cioè senza dire niente).

    Nel primo esempio s-ciao potrebbe essere tradotto anche con transea (dal latino transeat) che vorrebbe dire sia pure.

    Transea che el se imbriaga, ma che el pesta anca la mojere no va mia ben. Fino a qualche tempo fa infatti la citazione latina non era usata solo negli ambienti curiali, ma per imitazione, anche dal popolo che la corrompeva, rendendola però per questo parte della propria lingua.

    Probabilmente s-ciao nel suo traslato si è portato dietro anche qualche frammento del significato originario, come dire cosa di poco conto come doveva essere considerato lo schiavo.

    Comunque sia, la parola s-ciao oltre a contenere il saluto più diffuso nel mondo, rimane una parola dai significati plurimi, che oggi si è persa in via definitiva. Nell’usarla come titolo per questo libro, intendo fare il mio modesto elogio funebre a queste parole scomparse, che erano la fonte di una straordinaria ricchezza espressiva.

    Parte I

    Inventémoghe sù na bala

    Védare quanti cachi che magnava el mas-cio

    Mio padre lavorava fino a sabato a mezzogiorno e poi basta. Ancò dopopranso, sabo fassista diceva, anche se il fassismo era finito da qualche anno. 

    In questi sabi fassisti qualche volta mi conpagnava a Sarcedo a trovare i parenti. A Sarcedo aveva i cugini e ancora qualche zio. C’era Checco che una volta era piuttosto cativo, ma che, adesso che era vecchio, s’incoconava sempre più da piànsare anche per niente.

    Per fargli festa le cugine gli davano dei gran spintoni e delle gumià sulle coste. Gli parlavano come a dirgli sù e invece schersàvano.

    Fermeve a magnar qua stasera: ghe xe polastro col tocio e polenta diceva Checco.

    Magari podessimo, ma prima che fassa scuro bison ca sémo casa, se no so mama qua la n’in dise un sequerio.

    Ben vignì dentro che almanco ve tajemo zo quatro fete de salado e dopo se proprio proprio gavì da nare, vè diceva Checco. Lui si slevava il mas-cio e, quando era verso Natale, lo faceva sù. Venivano fuori di quei salami che erano una cosa speciale. Glieli domandavano anche dei signori di Thiene (e sì che là sono sempre stati in mezzo ai mas-ci), perché boni così non ne trovavano da nessuna parte. Ma lui diceva: Vuto che mi fassa la fadiga de slevare el mas-cio e de farlo sù par dopo darlo via? Spiegava che il mas-cio magnava come luri: minestroni, polenta e, al tempo dei cachi, cachi. Védare quanti cachi che magnava el mas-cio e come che si gustava! Par forsa diceva mio padre che i salami vien fora speciali e quasi dolse con quel ca ghe dasì da magnare al mas-cio. Tanti magari i ghe dà dei magnari boni da gninte e allora dopo i salami vien cativi.

    Ricordete ben diceva Checco con una certa solennità, come che fosse stato un prete che el mas-cio bisogna tratarlo come i cristiani, parché anca lu ga diritto de magnar ben come nialtri. Allora sì che i saladi vien fora boni. Mio padre faceva grandi elogi anche al vin crinto, che era viola e denso, ma dentro si sentiva il gusto dell’ua. Mentre al vin che vendevano in ostaria l’ua gliela facevano solo védare e per farlo usavano solo acqua, polvereta e palo par missiarlo .

    Prendeva sù due sporte di verdura. Gliene avrebbero data ancora ma lui diceva: Dove la metto? No go mia el camio, go solo la bicicletta. Secondo le cugine tanta verdura andava marsa perché ne impiantavano massa e, anche se quella in più la davano al mas-cio, quando era ora di cachi, il mas-cio non ne voleva più e la spuava fora. Siccome che el mas-cio no me la magna, te la dò a ti volentiera a gratis gli aveva detto Checco.

    Siamo partiti pieni di borsoni, che non so neanche come mio padre facesse a tenere in piedi la bicicletta. Osti diceva a sta ora qua dovarissimo za essar casa da un toco e partiva di scatto con una velocità da far paura, tanto che mi pareva di sentire l’aria fischiare nelle orecchie. Bisogna che ghe inventemo sù calcosa a to mama, magari na bala, parché se no gh’in sentimo quante che basta.

    Davanti veniva il nonno

    Una volta la gente si voleva più bene e non c’era mica tutto questo affare di delinquenza in giro. Se uno aveva bisogno, tutti correvano a jutarlo e, quando uno moriva, c’era tutto il paese che piangeva. Mai sentio mi che qualchedun saltasse dosso alle donne. Ora è tutto un saltar dosso e gli uomini sono tutti più mas-ci.  

    In famiglia c’era un rispetto che era una cosa neanche da credere: davanti a tutti veniva il nono che comandava e gli altri scoltavano. Le spose vivevano in casa e che contente che erano di star sotto alla suocera e come che si godevano di star tutte assieme a contàrsela tra lore. Adesso le spose vanno a stare più distante che possono, perché se no si caverebbero gli occhi. Mio padre diceva: Al giorno de ancò le spose gnanca se te le copi no le ‘ndaria in casa. E no zera mia belo na volta che se stava tutti insieme?

    Ben insoma diceva mia madre bisognaria provare par parlare, come ca go provà mi con to mama, par quelo.

    Parché, vorìssito dire che no te stavi mia ben con me pora mama?

    Gnanca un fià. Serto che na volta se sopportava de più, sperando almanco de ‘ndare in paradiso.

    Mia madre si ricordava di questa suocera, senpre con un minestro in man, che, prima che si girasse, faceva ora a venir sera. Quando parlava era come che si lamentasse: Nita le diceva no a far le robe de spessegon, che dopo te sbagli. Par far ben i mestieri bisogna ‘ndare dasieto.

    Va ben diceva lei, che a sentire questi discorsi le veniva il latte nei calcagni.

    Nita, stà tenta ca no te vada par sora el late. Quando che se ga el late sù, bisogna star lì a tèndarlo, parché el xe un attimo che el vada sù par sora. Con tutti i mestieri che doveva fare, aveva da star lì a guardare il latte ed era più el nervoso che mandava giù che non il magnare.

    Nita, pòrteme un minestro de acqua, ma no impienarlo fin a l’oro che dopo te spandi. Mia madre andava a prendere il minestro, ma pensava: La podaria anca tòrseo, mònega.

    A ghe go senpre fato tanto da serva a to mama, se xe solo par quelo, e go senpre tanto mandà zo sensa parlare. Ga da essare par quelo che desso go senpre mal de stòmego e gropo.

    Ma se tutti disea che la gera tanto bona e che qualche volta la fasea da rìdare?

    Mi in tanti ani no go mai ridù. Me saria vignù da piànsare più che da rìdare e qualche volta me ingropavo.

    Ghe sarà stà anca na volta qualcosetta che no ‘ndava concludeva mio padre ma le zera monade e el resto dele robe le andava tute benon. Desso che va ben no ghe xe quasi gninte e ghe saria solo da piànsare.

    Si incominciava dalle sotarole

    Mio padre mi diceva: Sta volta, quando ca ‘ndemo al mare, xe la volta bona che te insegno a noare.  

    Ma se no te sì bon gnanca ti, cossa vuto insegnarghe ai altri! Mia madre non la smetteva di contrariare, anche solo per il gusto di dir sù.

    Uno come mi che xe bon de fare le sotarole xe bon anca de noare. Diceva di aver imparato a farle a Ponte Canale e che da zòvane era come un pesse.

    Chissà che te lo neghi diceva mia madre pessimista.

    Macché negare! Lo tegno sù par soto e lu el move i brassi. E i venessiani come creditu che i gabia inparà a noare?

    Magari i ga inparà da qualchedun che zera bon. Allora a mio padre venivano sù i nervi e si sfregolava le mani. Comunque appena arrivati al mare cominciava subito a insegnare. Far le sotarole xe fàssile come camminare. Sito bon de camminare?

    .

    E allora te sì bon anca de far le sotarole. Se scumissia dale sotarole e dopo a inparar a noare xe come bévar sù ovi freschi. Mia madre ascoltava e scorlava la testa: No stà mia a farghe fare le sotarole al toso setu !

    Te mostro mi diceva mio padre come che se fà a farle e ti basta che te fassi conpagno. Se fusse che se butasse to mama diceva ridendo la se negaria de paca, ma noialtri sémo òmini e savemo come destrigarse fora. Metteva le braccia avanti: Uno, do e na tre. Contava e si buttava senza tanto andar drio. Si vedeva che sotto acqua cercava di darsi il colpo con i piedi. Si è tirato sù però un attimo dopo, tossendo e, quando cercava di respirare, burlava.

    Eccolo, Maria Santissima diceva mia madre "eccolo che el va, par fare el bravasso e correva in mezzo all’acqua per dargli pacche sulla schiena e vedere se era buona a farlo disgossare. Ma mio padre per un bel pezzo continuava a burlare e dopo per un altro po’ non riusciva neanche a parlare.

    Ma quanta acqua ghetu bevù?

    Na sboconà riusciva a dire con la voce bassa che continuava a andargli via. A sèsti faceva vedere che gli era andata sù per il naso, no per la bocca che aveva tenuta chiusa e mostrava come, rissolando i lavri. Sembrava un dialogo con un muto e ogni tanto gli venivano ancora colpi di tosse e sforzi di afano. Va ancora a far le sotarole gli diceva mia madre chissà che st’altra volta te ghe resti.

    Quando si è ripreso un po’ ha detto che non c’è niente di più cativo dell’acqua salà e che

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