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Rock City: Il blocco degli artisti
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E-book273 pagine4 ore

Rock City: Il blocco degli artisti

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Info su questo ebook

Daniel D'Amico è un giovane aspirante scrittore trasferitosi da pochi mesi nella città che viene comunemente chiamata Rock City. In un momento della sua vita in cui la scrittura è diventata un macigno invalicabile, Daniel cerca di mantenersi lavorando in un agenzia di taxi per pagare l'affitto che divide con la coinquilina Sasha.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2018
ISBN9788833430133
Rock City: Il blocco degli artisti

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    Anteprima del libro

    Rock City - Mario Rotolo

    Mario Rotolo

    Rock City

    Il blocco degli artisti

    ISBN: 978-88-3343-013-3

    LFA Publisher di Lello Lucignano

    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Via A. Diaz n°17 80023 Caivano Napoli – Italy

    Tel. e Fax 08119244562

    www.lfaeditorenapoli.it - www.lfapublisher.com

    info@lfapublisher.com

    Partita IVA 06298711216

    Facebook, Instagram, Twitter & Youtube: LFA Publisher

    Impaginazione e grafica: Pietro Esposito

    Dedicato a tutti quelli come me

    1

    Casa dolce casa

    L’anima della Rock City si nutre dei sogni e delle speranze nelle anime di tutti noi. Siamo noi la Rock City.

    Otto di sera. Il turno di lavoro era ormai finito e stavo per aprire la porta di casa. Immaginavo che la mia dolce fidanzata mi sarebbe corsa incontro abbracciandomi e chiedendomi Amore, com’è andata la giornata? ed io avrei potuto risponderle Una meraviglia amore, ho avuto un aumento ed il mio posto da dirigente è confermato poi ci saremmo messi a tavola a mangiare l’ottima cena che aveva preparato con cura e avremmo passato la serata a guardare reality show. Invece no. Non è così. Quella porta mezza sfondata, incorniciata da quel muro crepato e lurido non mi avrebbe portato in quella vita. Non è la mia vita. Quella è la vita che ci hanno insegnato a desiderare, ma non è quello che vogliamo noi. Infilai la chiave nella serratura e aprii la porta.

    «Finalmente sei tornato, stronzo!». La mia dolce coinquilina mi dava il benvenuto alla vecchia maniera. Entrai in cucina e la salutai. Lei era alla finestra e stava dipingendo su una tela appoggiata al suo treppiedi in legno con tutt’intorno i suoi pennelli e colori di cui non conoscevo il nome. «Ti sei fatto licenziare?» mi chiese senza girarsi. I suoi capelli biondi risplendevano sotto le luci al neon della lampada. «Non ancora» le dissi aprendo il frigorifero. Vuoto, ovviamente. «Anche se questa situazione dei taxi è una vera rottura». Chiusi il frigo rassegnato e cercai di sbirciare cosa dipingesse. «Ma dai, hai la possibilità di incontrare un sacco di gente, magari arriva anche un po’ d’ispirazione e cominci a scrivere qualcosa». Si voltò, distogliendo lo sguardo dal suo dipinto, per usarlo per squadrarmi con i suoi enormi occhi blu. «Non sei qui per questo? Da quanto non scrivi?». «Si, ma non rompermi i coglioni. Scriverò quando ne avrò il tempo». «Va bene, ma rilassati». «See, piuttosto, che si fa stasera?». Era tornata con gli occhi sul suo lavoro. «Venerdì sera. Pub con gli altri». «Capito, vado a farmi una doccia, finiscila di disegnare teschi e alieni altrimenti non ne venderai mai nessuno di quei quadri». «Senti vaffanculo!». Si alzò dal suo sgabello e si avvicinò per darmi una sberla. Scattai all’indietro per schivare il colpo e andai a sbattere contro la credenza. Non mi fece troppo male. La mia coinquilina si chiamava Sasha ed era di origine russa, quindi menava forte. Sì, è un clichè, ma non era mai stato così vero. Non era troppo robusta, anzi, era anche attraente ma, per via dei traumi infantili subiti in orfanotrofio, era diventata leggermente sociopatica e a tratti violenta. Le volevamo bene comunque. Il suo sogno era quello di diventare una pittrice, ma intanto lavorava in un bar come cameriera. Io, invece, insieme a tantissimi altri giovani senza voglia di far nulla, volevo diventare scrittore, anche se, come aveva detto la mia coinquilina, non stavo scrivendo proprio un cazzo. Chiamatelo blocco dello scrittore o si scrive meglio a pancia piena ma, scrivere ormai mi era diventato quasi impossibile da quando mi ero trasferito in quella che i più chiamavano La città del successo o la Rock city. Andai in bagno a farmi una doccia e mi preparai. Mi fermai di fronte allo specchio. Cominciai a fissarmi. Dio, facevo proprio schifo. Non ero mai stato effettivamente magro, ma qualche anno prima compensavo con la muscolatura taurina. Ero deperito. Colpa del pessimo regime alimentare che ero costretto a seguire. Le occhiaie infossavano i miei occhi castano chiaro ed i capelli non trovavano pace. La barba bruna e ispida era tornata a mostrare qualche sfumatura di rosso come succedeva in qualche periodo dell’anno. Non sono quello che le riviste e i media in generale definiscono bello e ne sono più che consapevole. Eppure mi dicevano che ero affascinante. Bah. Un altro faticoso giorno di lavoro stava per lasciare il posto ad una serata con la gente più pazza che avessi mai conosciuto ed io mi sentivo pronto.Prendete una sedia, ordinate da bere e non badate al fumo passivo. Il mio nome è Daniel D’amico e tutte le cazzate che state per sentire sono successe veramente, o quasi.

    2

    Racconti, birra e pollo fritto

    Il venerdì sera. Il momento più bello della settimana. Tutti i lavoratori aspettano con ansia il venerdì. Una cosa che avevo sempre pensato degli scrittori di successo era che passavano la settimana a rielaborare e mettere su carta le avventure che avevano vissuto il venerdì sera. Che fosse una sbronza, un rapporto occasionale, un’avventura, una lite, un rapimento alieno o cose del genere. Mi riferisco, per lo meno, agli scrittori di successo meno raccomandati. Quella serata la stavo passando al pub con i miei poco raccomandabili amici. Il locale si chiamava Tav, abbreviazione di taverna immagino. Il pub non era molto grande ed era quasi pieno, ma aveva ottima birra alla spina e faceva il pollo fritto migliore della città. «Dai Daniel, raccontaci una storia!». Mi urlò Poh brindando con un’aletta fritta e aspirando dalla sua Winston rossa. Poh assomigliava vagamente a Kurt Cobain e voleva cantare come lui. Fisicamente era piccolo e magro, in contrasto con la testa che sembrava enorme, piena di lunghi dread. Era venuto nella Rock City, insieme alla ragazza, Fede, per seguire il suo sogno, come un po’ tutti noi. Quella richiesta non era poi così strana, per quanto potesse assomigliare a quel tipo di situazioni da boyscout intorno al fuoco. A me era sempre piaciuto raccontare storie e gli altri sembravano apprezzare. «Allora, stasera ho voglia di raccontarvi la storia della prima volta che mi hanno fatto un pompino. E’ abbastanza assurda e potete anche non crederci. Se me la raccontassero io stesso non ci crederei.» . Da parte dei ragazzi partì un boato, Fede e Giulia si misero il viso fra le mani. Elettra continuava a fissarmi. Non so se mi stesse ascoltando o avesse la testa fra le nuovole fantasticando su qualcos’altro. Aveva lo sguardo a metà tra il sognante e l’assente. Sasha restò impassibile a sorseggiare la sua birra. «Allora, ricordo che ero alla stazione della mia vecchia città. Ero un giovane sedicenne sfigatello che non aveva mai battuto chiodo. Avevo sbagliato a controllare l’orario dei treni ed ero arrivato con circa tre ore e mezza di anticipo. Che coglione eh?» mi scappò una risata, poi continuai. «Me ne stavo fuori dalla stazione, intorno a me c’erano secchiate di turisti che si ammassavano per attraversare, quando una macchina si accostò al marciapiede. Il finestrino si abbassò e ne uscì il viso di una donna. Una splendida donna. Era sulla quarantina e assomigliava vagamente a Audrey Hepburn. Mi fece segno di avvicinarmi. Lo feci. Con le mani di fronte alla bocca mi disse qualcosa che non capii subito. Cosa? le dissi. Lei ripeteva, ma non capivo. Poi decifrai il misterioso messaggio. Le andrebbe un pompino? mi diceva. Un pompino? ripetei a voce alta . Lei sobbalzò. Mise in moto e ripartì in meno di un secondo. All’inizio ci rimasi un po’. Passò il tempo. Stavo per entrare in stazione quando, un’oretta dopo, ripassò. Come la prima volta si fermò e mi fece di nuovo la richiesta. Senza parlare, presi e andai a sedermi sul sedile del passeggero. Mi portò in una stradina non molto lontano da lì. Isolata. Si fermò e cominciò a slacciarmi i pantaloni. Stavo vivendo il sogno di ogni adolescente». Mentre raccontavo, gli altri, ignorando il cibo nei loro piatti e le birre e le sigarette rimanevano imbambolati ad ascoltare. Sembravano incantati dalle mie parole. La sensazione che provavo dava assuefazione ed era quello il motivo per cui volevo scrivere. Risvegliare l’emozione negli occhi delle persone, anche quando ascoltano la storia di un pompino. «Ragazzi, che ve lo dico a fare? Fu qualcosa di biblico, quasi. Rasentava un’esperienza mistica trascendentale. Mi riportò alla stazione e non la vidi più». Sotto le risate dei ragazzi ed il disgusto delle ragazze, mi venne fatta la domanda fondamentale. «Perché non ci scrivi un libro con tutte queste storie?». Me lo chiese Sid. Era appassionato di free running e tirava a campare facendo consegne varie. Su questo era incredibilmente efficiente, anche se a volte arrivava a destinazione un po’ ammaccato. Bella domanda mi aveva fatto, forse perché sono un fottuto incompetente pigro e senza talento. La mia risposta si limitò ad un «eh» sospirato. Ciano, che mi conosceva da più tempo ed era a conoscenza della questione cercò di cambiare argomento. «Un altro giro?» urlò prima che si venisse a creare il famigerato silenzio imbarazzante. Un si generale riempì il pub. «Vado io» dissi. Mi alzai e andai al banco ad ordinare. Il bancone assomigliava a quelli che si vedono nei film americani. La barista che prese l’ordinazione era una prosperosa e svampita ragazzetta dai capelli castani. Non l’avevo mai vista, quindi pensai che doveva essere stata assunta da poco. Dietro la cassa se ne stava il vecchio proprietario. Aveva i capelli bianchi ed una folta barba dello stesso colore. Era mezzo addormentato e mi ricordava sempre Hemingway. «È vera la storia? Quella del pompino». Si avvicinò a me una ragazza dai capelli rossi con un vestito scuro a fiori bianchi. Aveva un naso abbastanza pronunciato e dei profondi occhi castani da cui non mi ero staccato per tutta la serata. Anche lei mi guardava mentre veniva stretta dal suo ragazzo, qualche tavolo più indietro rispetto al nostro. «Per qualcuno è vera». «Ma non per te». «Scrittori e poeti mentono sempre per dire la verità. Lo dicevano in un film eccezionale, se ti interessa». «Lo conosco quel film. Quindi tu saresti uno scrittore?». Mi fece sorridere sapere che lo conosceva, ma fu breve. «Uno scrittore scrive. Io no» cercai di simulare un sorriso per sembrare meno patetico possibile. A quanto pare sembrai ugualmente patetico. «Magari hai solo bisogno di una musa che ti ispiri. Io sono Diana» allungò la mano piccola ed esile che strinsi delicatamente «Daniel, e sembra che tu sia già la musa di qualcun altro». Allungai lo sguardo oltre le sue spalle e guardai, seduto al tavolo, un aggressivo esemplare di fidanzato che stava per cominciare a ringhiarmi contro. Lei fece spallucce, prese la sua birra e tornò al tavolo. Io presi il vassoio con le birre ordinate e tornai dai ragazzi . Finii di mangiare il mio pollo fritto e verso le due di notte lasciammo il pub. Diana se n’era andata circa un’ora prima ma, se me lo avessero chiesto, io non me n’ero accorto.

    La fortuna del nostro gruppo, se proprio ci teniamo a chiamarla così era che ci eravamo ritrovati a vivere tutti nello stesso lurido e fatiscente blocco di appartamenti, oltre al fatto che eravamo tutti dei sognatori incalliti. Era così che ci eravamo conosciuti, almeno per la maggior parte. Il blocco era di due piani. Tre appartamenti per piano. Io e Sasha abitavamo all’ultimo. Eravamo finiti insieme circa sei mesi prima quando mi ero trasferito lì. È stato grazie a Ciano che ero finito in quell'appartamento. I nostri vicini erano Poh e Fede ed il cagnolino di lei, Michael, un meticcio bianco a macchie nere di taglia piccola, nel primo appartamento, e nel secondo Giulia e Ciano. Loro erano una delle coppie più tranquille che avessi mai visto. Forse era l’unica coppia davvero equilibrata con cui avrei potuto confrontarmi fino a quel momento. Ovviamente litigavano come tutte le coppie, ma alla fine riuscivano sempre a fare pace. Con lui c’ero praticamente cresciuto insieme e fin da piccoli mi aveva sempre aiutato a risolvere i casini che combinavo. Ciano sognava di diventare un programmatore di videogiochi di successo, ma nel frattempo lavorava come grafico. Giulia, invece, studiava all’università per diventare medico. Tra di noi era sicuramente la più realista. Al primo piano c’era il resto della rock band di Poh. Occupavano un solo appartamento per evidente mancanza di fondi. Martina era la bassista del gruppo. A volte non usciva con noi per video-chattare col fidanzato, un soldato d’istanza in un’altra città. Quando la veniva a trovare spesso stavano con noi. Elettra era la batterista. Una punk rocker di prima categoria. Infine c’era Arom, un paffutello simpaticone che non perdeva mai l’occasione per una bestemmia artistica, e la chitarra accompagnatrice del gruppo. Gli altri due appartamenti erano affittati ad una famiglia di quattro persone, padre operaio, e ad una coppietta in pensione. Sid era riuscito ad accaparrarsi a pochissimo una stanzetta nel seminterrato. Ovviamente secondo i vicini eravamo un gruppo di tossici sbandati e per questo ci odiavano. Non importava quante volte li aiutassimo a portare su la spesa, saremmo rimasti sempre solo dei tossici sbandati.

    3

    Scopo-inquilina

    Eravamo appena tornati a casa. Avevamo salutato gli altri e Sasha tentava di far entrare la chiave nella toppa, con pochi risultati. Era un po’ brilla. La aiutai. Insieme, non senza qualche difficoltà, riuscimmo a far scattare la serratura arruginita e aprire la porta. Entrò in casa barcollando. Speravo fortemente che non cadesse. Non avevo voglia di raccoglierla da terra per portarla a letto. Forse l’avrei lasciata li. Al massimo, le avrei portato una coperta. Barcollava un po’ a destra e un po’ a sinistra. Sembrava quasi stesse facendo qualche strana danza tribale. Cercai l’interruttore per la luce. E’ quasi una legge scientifica. La sera tardi, gli interruttori in casa cambiano posizione. Quando si beve soprattutto. Vidi Sasha barcollare fino in camera sua e chiudere la porta. «Buonanotte eh» le dissi. Nessuna risposta se non un mugolio incomprensibile che sarà stato quasi sicuramente un insulto. Posai la giacca sulla sedia in cucina e mi svuotai le tasche sul tavolo. Andai in bagno. Effetti collaterali della troppa birra. Mi sciacquai la faccia e mi lavai i denti, appena finito tornai in camera. Nella mia stanza c’era la luce accesa. La porta era socchiusa. Sul letto c’era Sasha, distesa a pancia in su con la testa che penzolava dal materasso e mi fissava. Stava indossando solo biancheria intima, nera e semitrasparente. Rotolando sul materasso, sollevò il busto facendo forza sulle braccia senza staccare gli occhi da me. Era un po’ inquietante. L’avrei proposta come protagonista se avessero voluto fare il remake de L’esorcista. Scese dal letto e mosse qualche passo verso di me. Barcollava ancora. Mi allungò una mano dietro la nuca e l’attirò a se. Mi baciò. Era un bacio secco e quasi meccanico, ma impetuoso. «Questa è l’ultima volta» disse. «Come tutte le volte» risposi. «Zitto!». Riprese a baciarmi. Mi fece sfilare la maglietta. Si distese sul letto portando il mio corpo sopra di lei. Mentre le mie mani erano sul suo seno con le sue cominciò a spogliarmi. Scivolai giù. La scoprii e cominciai a baciare la sua pelle calda e umida. La lingua vagava mentre lei cominciava a gemere. Dopo poco mi fece risalire ed io mi accostai a lei fondendo i nostri bacini in una meccanica danza notturna. Immagino cosa stiate pensando. Il tipico stronzo che si approfitta di una ragazza ubriaca. Siamo chiari. Ultimamente voi donne siete quasi sempre ubriache e se ci finite tra le braccia in questo modo, noi non rifiutiamo per moderna galanteria. Il letto cigolava forte, sincronizzato con i miei affondi. I nostri sguardi erano lontani. Non le piaceva che le baciassi le labbra mentre lo facevamo, quindi mi agguantavo al suo collo in modo quasi vampiresco. Lei faceva lo stesso. I movimenti si facevano sempre più veloci. Il suo respiro divenne più rapido e leggere grida di piacere emergevano dalla sua bocca. Le unghie corte mi graffiavano la schiena. Mi strinse più forte. Non so se ebbe un orgasmo, ma non me lo avrebbe mai detto comunque. Non lo diceva mai. Le tempie mi pulsavano. Un momento prima che il mio piacere esplodesse mi staccai da lei e lo riversai tutto sul suo ventre e sul seno, un po’ arrivò quasi al collo, un po’ sul copriletto, con una intensa e abbondante eruzione bianca. L’arte del coito interrotto. Mi accasciai di fianco a lei nel mio letto impregnato di sudore. Mi diede un bacio a stampo e andò in bagno a darsi una rinfrescata. Andai a spegnere la luce e mi misi sotto le coperte. La sentii andare in camera sua. Era una cosa che succedeva almeno un paio di volte a settimana. Non c’era una storia. Non stavamo insieme e nulla di sentimentale si annidava dietro quelle settimanali scopate. Era cominciato qualche tempo dopo essermi trasferito da lei. I nostri compagni di sventura speravano nascesse qualcosa. Non sarebbe mai potuto accadere. Era la mia coinquilina e ci piaceva scopare. Era la mia scopo-inquilina. Si, lo so. Sono un insensibile e me ne approfitto, ma fatevi i cazzi vostri. Non dormivamo mai insieme, per questo motivo, e perché lei era sonnambula ed ero abbastanza sicuro che mi avrebbe strappato i testicoli nel sonno, se ne avesse avuto l’occasione. Sentii rumori provenienti dalla sua stanza. Stava spostando mobili. Lo faceva per non uscire dalla camera o fuori dalla finestra, durante la notte. Prima di addormentarmi, nel vagare della mia mente, pensai a Diana. La mia musa diceva. Voleva essere la musa di uno che racconta storie di pompini. Doveva essere matta. Sarà per quello che non facevo che pensarci? Dopo essermi rigirato svariate volte nel letto, riuscii ad addormentarmi.

    Dormii profondamente finché la voce graffiante di Poh che cantava Smells like teen spirit accompagnato da tutto il gruppo non mi riportò nel mondo dei vivi. L’orologio segnava le dieci e mezza. Mi alzai e misi un paio di jeans. Andai in cucina. Sul tavolo c’era il mio cellulare. Ovviamente scarico. Non si può pretendere che un telefono di ultima generazione possa resistere una notte senza essere caricato. Andai in camera e lo attaccai al carica-batteria. Intanto, la porta di casa si aprì. Sasha entrò con delle buste in mano. Era lei quella mattiniera tra i due. Io se non venivo svegliato da qualcosa o qualcuno potevo anche dormire per giorni. Il bello era che riuscivo anche a non dormire per giorni, se necessario. «Ho fatto la spesa!». «Con quali soldi?». «I tuoi». Posò la busta e mi lanciò il portafogli. Il portafogli che la sera prima avevo lasciato sul tavolo della cucina. Lo presi al volo e lo aprii. «Stronza, ma quanto hai speso? E quasi vuoto». «Ho speso il giusto. Non ti scaldare puttanella. Domani mi dovrebbero pagare e ti ridò la metà». «Certo, e io ci credo. Ironia». Sasha non riusciva a capire l’ironia, quindi quando la usavo dovevo farglielo notare. «Comunque, che hai comprato per la colazione? Caffè? Tè?». «Ho comprato qualche pacco di patatine, un paio di confezioni da sei di birra, tre pizze surgelate, delle lattine di bibite energetiche e due pacchetti di sigarette». «Cristo». Tornai in camera. Il telefono aveva ripreso vita. Sei messaggi. Dovrà presentarsi oggi, sabato 30 maggio, a lavoro entro le undici e mezza di mattina a causa di problemi con gli orari interni, se non si presenterà senza una ragione valida verrà preso in considerazione il licenziamento diceva il primo, gli altri li ignorai. Oh merda pensai. Erano le undici meno un quarto. Mi vestii più velocemente possibile. Presi lo zaino e agguantai una delle lattine di energy drink . Uscii di casa urlando a Sasha che mi avevano chiamato a lavoro. Svuotai la lattina mentre scendevo le scale. Era calda, ma avevo bisogno di energia. Faceva schifo lo stesso. Mi trovai di fronte Ciano e Giulia. Erano entrambi molto alti. Ciano era robusto e abbastanza muscoloso. Indossava una maglietta rossa con il simbolo di Flash e dei bermuda. La pelle olivastra ed i ricci scuri facevano contrasto con i colori chiari e la pelle quasi pallida di Giulia,

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