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Te Dao
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E-book118 pagine1 ora

Te Dao

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La brillantissima penna di Mariano Castello regala una nuova serie di racconti di vita quotidiana degli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso in quel di Schio. Suddivisi in quattro capitoli tematici (“Davanti xe l’omo”, “Il Signore castigava”, “Io amo l’Italia e la bandiera” e “Più simioto che omo”), sono brevi aneddoti che descrivono un mondo in divenire, in cui tradizioni e abitudini ben radicate si trovano a fare i conti con il progresso, ai cui benefici peraltro si fa abbastanza presto ad adeguarsi. Ad impreziosire il libro, le riproduzioni a colori di una serie di acquerelli di Luciano Vighi, artista che usa pennelli e colori con la stessa lieve ironia con cui Castello usa le parole.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2017
ISBN9788884498182
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    Anteprima del libro

    Te Dao - Mariano Castello

    libertà.

    Luciano Vighy illustra Mariano Castello

    I dialetti possiedono una versatilità che la lingua cosiddetta colta non ha. È la ricchezza lessicale del vernacolo a fornire sfumature e varianti che talora all’italiano nazionale manca. Così una delle abilità di uno scrittore come Castello, che mescola nei suoi testi letterari - specie nei dialoghi - numerosi termini del vecchio dialetto scledense, consiste proprio nel mettere in rilievo la preziosità di lemmi desueti, poco utilizzati - specie dalla popolazione dei più giovani - di cui però viene comunque mantenuta nel tessuto sociale una certa qual conoscenza, magari, passiva.

    Ma Castello non compie un’operazione accademica di archeologia linguistica: pur non essendo più, o poco, adoperate nella lingua viva, grazie al dinamico e naturale andamento narrativo delle storie, queste parole dialettali riescono a far riaffiorare la memoria del proprio suono e, per effetto di trascinamento, anche quella di persone dalle cui bocche le sentivamo pronunciare. Voci, cadenze, musicalità di un tempo spesso legate anche a oggetti e abitudini ormai perse nel passaggio delle generazioni che, nelle pagine di Castello, si riconnettono al linguaggio corrente e assumono nuovamente un ruolo attivo nella discorsività asciutta che si dipana come una favola neo-realista. L’ossimoro tra ciò che è immaginario ed una dimensione quasi popolaresca risulta solo apparente e trova una sua giustificazione in quanto le vicende narrate, proprio per l’uso di un registro linguistico essenziale, che con brevi frasi porta chi legge immediatamente e direttamente dentro alle situazioni e ai dialoghi di una quotidianità assai semplice e plausibile, si rivelano poi del tutto surreali. Improbabili, pur nella loro perfetta riconducibilità al reale. La loro carica ironica - che è poi caratteristica della scrittura di Castello - genera non di rado ilarità per quel mettere in bocca a personaggi ingenui verità universali alte, degne di un teatro greco. La fede cieca nelle verità assolute e rassicuranti della Tradizione (o della Religione) è, ad esempio, ciò che preserva i personaggi di questo libro da (minimi) eventi calamitosi o possibili tali, mandati dal Destino e dal Cielo o da una Cattiveria Umana che sta, però, al di fuori della volontà degli uomini. Così quando comunque le disgrazie si verificano o le situazioni prendono pieghe sfavorevoli, peggio per loro.

    Non solo, ma tale radicata fiducia nelle Regole genera nei protagonisti una generalizzata tendenza a sentenziare su quasi tutto. Poco importa se, a fare da contrappunto a tetragoni certezze, sopravvenga talora qualcuno, la madre, il padre, un omo o un toso (in cui si adombra l’Autore stesso) a sollevare qualche perplessità circa l’ordine incontrovertibile delle norme e dei metodi tradizionali. Alla fine i vincitori e i vinti, quelli che hanno avuto ragione e quelli che hanno subito un quasi sempre involontario o addirittura immaginario sopruso, vengono omologati dal tran-tran escatologico un po’ naïf ma tranquillizzante della provincia.

    La scrittura icastica di Castello non poteva trovare miglior abbinamento figurale delle tavole ad acquerello di Luciano Vighy che ne impreziosiscono l’impaginato. Anche la pittura di Vighy è infatti estremamente espressionista, fino ed oltre i confini del caricaturale; e anch’essa è associata ad un realismo minimo che rende i personaggi intimamente riconducibili a tipi universalmente riconoscibili, che agiscono da attori comprimari in una dimensione fuori dal tempo.

    L’evanescenza del mezzo pittorico come l’acquerello, poi, trova compensazione in una vivacità cromatica attiva capace di assegnare i ruoli e perfino le gerarchie all’interno di scene complesse in cui si muovono diversi personaggi. Anche gli oggetti possono aspirare ad essere protagonisti, come la bicicletta su cui viaggia il bellissimo ombrello aperto che nasconde il torso di un ciclista e illustra il racconto Cami.

    Particolarmente vitale è la capacità di queste tavole nel rappresentare con la nitidezza di una parabola contenuti astratti o personaggi immaginari.

    Disquisizioni sulla natura del divino (la furbizia di Giobbe o Dove peta peta) incontrano in entrambi gli autori, Vighy e Castello, una definizione teatrale di grande appiglio: ben lontano dal manzoniano dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, questo domestico nume castellovighiano il cui spessore trascendente risulta un po’ esile, governa oggi la vita della gente con intenzioni non sempre chiaramente intelligibili e con atteggiamenti vagamente umorali e ciclotimici allo stesso modo in cui, a suo tempo, era avvenuto con Giobbe o nella vicenda del Titanic o in una semplice grandinata che distrugge e vanifica la fatica del contadino. Politica e società vengono tradotti nella visione domestica della vita quotidiana - spesso attraverso gli occhi di un bambino - in cui le contraddizioni trovano composizione e sintesi in molte divertenti pagine illustrate di una moderna Commedia Umana. Con qualche eccezione: quelli che andranno in paradiso, i buoni cioè quei che scolta e i rabiosi destinati all’inferno, ad esempio, non sempre sembrano seguire corridoi aerei definiti e distinti, e vagano sperduti nell’indefinitezza di un cielo assai contemporaneo che non sa fornire hub di volo.

    Giovanna Grossato

    Te dao

    Te dao era l’equivalente di te le ciapi. Il complemento oggetto in entrambi i casi era sottinteso e si riferiva, a seconda dei casi, a s-ciafe, sberle, papine, manroverse (compresi gli accrescitivi s-ciafoni, sberloni e papinoni).

    Tutto l’impianto educativo degli anni cinquanta (ai quali le vicende narrate in questo libro sono per la maggior parte legate) aveva la sua base nelle punizioni: bisognava insegnare ai bambini a vivere in ambienti ostili e cosa c’era di meglio, perché si abituassero, di qualche robusto papinone? Questa era convinzione radicata nelle famiglie, ma anche nella scuola e nelle attività ludiche, che di norma erano dirette e comandate dai preti.

    Soltanto in epoca relativamente recente la pedagogia ha escluso in maniera categorica le punizioni corporali, ma questo è in controtendenza rispetto ad una tradizione millenaria, che prescriveva abbondanza di s-ciafoni per i bambini, quando anche non erano frustate o cinghiate (in uso queste ultime ancora ai miei tempi).

    Sarebbe comunque un errore non contestualizzare e condannare in maniera acritica i comportamenti passati, quando tutta la cultura del tempo spingeva verso quelle soluzioni sbrigative e violente.

    Te dao: l’annuncio della punizione toglieva comunque un po’ di credibilità alla stessa, che il più delle volte restava a livello di semplice minaccia. Di norma, se papinone doveva essere, arrivava improvviso e violento, anche se non sempre inatteso, senza alcun annuncio preventivo. E quindi, quando si diceva te dao, si mirava il più delle volte a educare senza ricorrere alle vie di fatto, ma semplicemente minacciandole. Già un passo avanti verso una visione più evoluta.

    m. c.

    Davanti xe l’omo...

    In pie sula carega

    L’omo doveva far l’omo se voleva comandare. Se no bisognava che lasciasse fare alla donna ed era quando le cose cominciavano a andar storte, perché la donna era manco dell’omo e con poco nervo.

    Quella volta che è entrata in cucina la moreja, mia madre è stata svelta a méttersi in pie su na carega. La xe ’ndà da drio ala credensa gridava. Mio padre porocan è arrivato con la scoa, ma diceva: Ciàpea ti quea lì. Desso bisogna che uno sposta la credensa e che un altro ghe daga na téga in testa, quando che la salta fora. Guardava sotto e da drio: ninte. Non c’è altro che la moreja che sa entrare nelle sfese. Ben diceva mia madre, stando sù alta mi no ca no vao a darghe la téga. Varda: go za tuta la pele de oca e me pare anca ca me vegna male.

    Vien zo dala carega, che te caschi e alora gavemo da vignerte drio a ti invense che ala moreja. Ma de cossa gheto paura? Che la te magna i dei dei pie? Dai nemo, osti! Vien qua a jutare, pitosto.

    Dighe al toso che el vegna lu.

    Anca a mi la me fa schifo.

    Bisogna ca te te fassi omo diceva mia madre stando sù in sima un doman te sarè ti davanti e alora come fetu a star davanti se te ghè paura de na morejeta?

    E ti alora che te sì in sima ala carega?

    "Ma mi son dona e no son mia davanti. Ricordete

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