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Dove il sole va a dormire
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E-book217 pagine3 ore

Dove il sole va a dormire

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Info su questo ebook

Forse per questo si dice che la vita è meravigliosa: perché quando stai annaspando nelle sabbie mobili e fai l’ultimo respiro prima che la melma prenda il posto dell’aria, ti vola addosso una mano sconosciuta che ti strappa al tuo destino di morte. E tu non puoi far altro che esserle grato, ripulirti e riprendere il cammino.
Gaeta, 1995. Quando si risveglia in un letto di ospedale, Alice capisce che ha iniziato a crescere, nonostante tutto. L’incidente che ha ridotto sua madre in coma non le ha portato via soltanto la giovinezza, ma anche la gioiosità di bambina con cui guardava il mondo. E quando rudi mani scavano in lei, facendola rovinare in un mondo dove anche gli angeli hanno la faccia distorta, si rende conto che a qualcosa deve aggrapparsi, se non vuole cadere sempre di più.
Nuevacalle, 1995. Achille ha vissuto tutta l’infanzia in una bolla dorata: la comunità autonoma in cui sua madre l’ha portato quando era ancora in fasce gli ha precluso la visione di qual è il mondo reale, facendolo vivere in un sogno. Tuttavia Achille sa che dovrà andarsene: troppi i segreti che sua madre nasconde, troppe le domande che vuole porre al mondo.
Alice, Achille. Due vite diverse accomunate da un dolore diverso ma con lo stesso sapore: quello della speranza. Un viaggio che entrambi fanno dentro sé stessi, alla ricerca di un mondo che saprà accoglierli, finalmente. Perché il Paradiso, sì, esiste: è laddove il sole va a dormire.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita22 lug 2021
ISBN9788833669571
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    Anteprima del libro

    Dove il sole va a dormire - Emanuela Baldassari

    Alice

    LA SVEGLIA SUONA ALLE 7.00 COME SEMPRE, inesorabile. Forse non conosce il detto aprile dolce dormire, o è stata assemblata nei suoi ingranaggi più minuti per farti svegliare arrabbiato, ancor prima che accada qualcosa che giustifichi l’incazzatura. È uno di quei pezzi di altri tempi, in acciaio lucidissimo con due orecchie sulla sommità che vengono colpite a turno da un piccolo battente infame. Me l’ha regalata nonna Lucia quando avevo nove anni; l’avevamo vista insieme in un mercatino dell’usato.

    «Nì, hai visto come è bella, ti ci puoi specchiare come sull’argenteria che lustro io al sabato.»

    Al che avevo annuito curvando il lato destro delle labbra e producendo uno schiocco sonoro. Dopo esserci avvicinate al venditore, col suo solito fare accattivante e imbonitore, nonna aveva contrattato sul prezzo riuscendo a portare a casa quel modesto gioiello di brillante ferraglia per cinquemila lire.

    «Da oggi sarai padrona del tuo tempo, cara» aveva detto porgendomi delicatamente tra le mani, quasi fosse un cucciolo, il mio prezioso tesoro.

    Allora mi piaceva, mi faceva sentire autonoma: potevo alzarmi per conto mio, quando volevo io. Così, per le prime settimane, l’ho caricata ogni giorno a un orario diverso, facendo impazzire col suo suono i miei genitori.

    Ancora peggio del trillo in questione è la voce di mia madre, che tamburella i timpani come un tacco a spillo fiero e costante su una scalinata di marmo. Il suo invito a sollevarci dal letto e iniziare la giornata è un colpo preciso, assestato con fermezza a scadenze ripetute di venti secondi.

    «In piedi, famiglia! La vita non dorme!» è il ritornello che invade le mie orecchie da quando la memoria fa da scatola ai ricordi.

    Apro gli occhi e davanti a me i Take That, visibilmente sudaticci, mi sorridono da un poster attaccato sull’anta del mio armadio bianco latte. Non sono i soli: trentacinque Barbie, tutte agghindate a festa, mi danno il buongiorno dalle mensole rosa, appese sopra i miei centottanta centimetri di scrivania. Papà l’ha voluta bella grande, del resto la mia passione per i libri non ha tardato a manifestarsi. Una sera, avrò avuto quattro anni, ricordo di aver tormentato mia madre facendole leggere La bella addormentata nel bosco in continuazione, fino a quando non sono stata in grado di ripeterla da sola per filo e per segno.

    «Auguri, amore! Alzati! Forza, Alice, non hai sentito la sveglia?»

    Oggi è il mio quindicesimo genetliaco (termine nuovo imparato ieri dalla prof di italiano). Lo ricorderò per tutta la vita. Non mi è mai piaciuto il mio nome e ogni compleanno lo rinfaccio a mia madre. Mi fa pensare a quella cretinetta che si infila in un buco per rincorrere chissà quale coniglio e si trova a vivere nel paese delle meraviglie. Dico io, da un buco ci usciamo, perché dovremmo rientrarci? Oppure a quei pesciolini che nonna frigge sempre la Vigilia di Natale e la cui puzza ti ha saziato prima di assaggiarli. Una che ha il nome di un pesce che futuro può avere? Quello di finire in padella. Ma mia madre lo trova strepitoso, perché le ricorda quella cantante che ha vinto Sanremo nel 1981 con la canzone Per Elisa.

    «Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me, per Elisa…» canticchia mamma mentre mi viene incontro sull’uscio della mia camera. «Io non ti perderò mai, amore mio!» e mi stritola in uno dei suoi abbracci tentacolari.

    «Mammaaaaa!»

    «Che c’è? Non ti posso neanche più abbracciare adesso! Guarda che solo perché stai crescendo, non vuol dire che dovrò smettere di coccolarti. Ti proteggerò e ti amerò sempre e te lo dimostrerò in eterno! Non bisogna mai avere vergogna dei propri sentimenti.»

    La guardo, arrossisco per questa valanga d’amore e mi volto per non mostrarle il mio imbarazzo. Ormai non sono più una pupetta, ma lei è così espansiva, che non riesce proprio a trattenere quello che sente. Io somiglio più a papà: siamo introversi, aggrovigliati nelle emozioni come i ricci che si accavallano sulla nostra testa; non manifestiamo, ma mamma è una forza e io l’adoro, anche se non glielo dico. E mi piace perché sorride sempre, quando è felice e quando non lo è; lo fa per non incupire me e mio fratello Diego, che ha sette anni. «La vita ha bisogno di gioia e la gioia si manifesta con il sorriso, quindi sorridete, figli miei, e la felicità vi contagerà» dice sempre. Alcune volte mi chiedo come faccia a stare bene con un uomo come papà, così serio e freddo, ma quando loro non se ne accorgono e mamma è in piedi in cucina a lavare i piatti, vedo lui che va sempre dietro di lei, la stringe e le poggia la testa sulla spalla. Allora capisco che le vuole bene anche se non le parla molto e sta spesso sulle sue. Il loro è un amore silenzioso, in cui i piccoli gesti sono parole mute. Come potrebbe non amarla! Lei, quando tutte le sue amiche sventolavano il contratto di assunzione come la bandiera della libertà femminile, ha lasciato il suo lavoro di segretaria in uno studio odontoiatrico per prendersi cura della famiglia. Lo stesso in cui si erano conosciuti, quando papà era andato dal padre del suo ex-compagno del liceo, un tale Luca Lorenzetti, a farsi fare una pulizia dei denti, qualche giorno prima di discutere la tesi in medicina. «Non appena l’ha vista se ne è innamorato» racconta nonna Silvia quando le chiedo di dirmi come era papà da giovane. E continua: «Tornato dall’appuntamento con il dentista, Gerardo non ha neppure cenato, tanto era rimasto turbato da Elena.»

    Non credo abbia fatto un grande sforzo, lei è bella anche adesso, a quarant’anni, con quegli occhi glauchi come il fondo del mare quando l’estate a Gaeta, il paese in cui vivo, prendiamo il pattino e con la maschera infilo la testa sott’acqua, per sbirciare di nascosto quel mondo protetto. Chissà perché le cose migliori sono sempre celate! I capelli biondi accarezzano un viso delicato, dai lineamenti appena accennati, quasi fosse una bambola di porcellana. Quando ha fatto la mia mamma, Dio ha usato proprio il pennello e l’ha intinto nell’acqua santa.

    E non basta. Tra tante grazie, le ha dato pure altezza e snellezza, per fortuna ereditate sapientemente dal mio DNA. Quando da piccola alzavo la testa per guardarla, prima di arrivare al sorriso dovevo percorrere l’autostrada delle sue gambe. Ora la distanza si è azzerata, ma mamma era e continua a essere proprio una meraviglia, una di quelle che non ti stanchi mai di guardare, perché a ogni occhiata ti regala qualcosa di nuovo. Le volte in cui ascolta questi racconti tra me e la nonna, papà serra le labbra per nascondere un risolino e diventa tutto buffo con quella bocca raggrinzita che ricorda il muso di un tapiro. Si vergogna, ma non capisco di cosa, visto che da quando ne ho memoria lui mi dice: «Non devi imbarazzarti di fronte a niente, Alice, se è l’intelligenza a guidare le tue parole».

    Perché per lui non vale ciò che predica? A capirli questi adulti… secondo me non è poi così esaltante crescere. Ci si complica la vita, facendo finta di essere migliori e più forti, ma alla fine ti caghi sotto come quando sei piccolo, con la sfortuna di non poterlo far vedere, e il pannolino te lo devi cambiare da solo. Sai che consumo industriale di pasta all’ossido di zinco!

    «Allora, chicca, hai fatto colazione? Dai che facciamo tardi!»

    «Che palle, mamma! Anche il giorno del mio compleanno devo fare tutto di corsa e andare in quella scuola merdosa!»

    «Che modi sono di esprimersi, Alice! È vergognoso! Ti mando anche all’azione cattolica! Figuriamoci se ti permettessi di passare il tempo nei centri sociali! Senti qualcuno in questa casa usare questa terminologia?»

    «No, non sento nessuno, ma io parlo come mi pare.»

    «Cerco di tollerare questo comportamento solo perché sei nel pieno dell’adolescenza e tenti di affermarti indipendentemente da noi» sentenzia con la voce bassa, mentre prova a domare un ciuffo che, impertinente, scappa dalla stretta dell’elastico spesso un paio di centimetri, che ha il duro compito di tenere a bada il mio nero cespuglio di ricci.

    Mamma come me legge sempre, di tutto. Ora si è fissata con quei libri di psicologia sulla crescita dei figli e sembra il guru della tolleranza. Però ha ragione, io non ho mai detto le parolacce, lo faccio più per farla arrabbiare e scuotere un po’ papà dal suo torpore. Infatti fuori non le dico quasi mai, anche se tra le mie compagne sono la sola. Ma non importa, perché io so come devo comportarmi.

    Lo sostiene sempre anche don Massimo, che sono una ragazza perbene e so stare al mio posto. Il parroco della mia chiesa ha quarant’anni, potrebbe essere mio padre, ma non è serio come lui. È uno che capisce i ragazzi della mia età. Da quando è arrivato, circa due anni fa, la chiesa è sempre piena di giovani. Organizziamo feste in parrocchia, suoniamo la chitarra e la tastiera e cantiamo, non solo canzoni liturgiche. Ligabue, Jovanotti, 883 fanno danzare con la loro voce le statue delle navate. Sant’Erasmo e San Marciano (i patroni della mia città) aiutano la Madonna col bambinello tra le braccia a scendere in pista, mentre San Francesco scosta i banchi per creare uno spazio in cui aprire le danze. Vado volentieri lì, mi sento a casa e mamma e papà sono tranquilli perché sono in un posto sicuro.

    Finisco di bere in fretta il mio latte e Nesquik (i miei dicono che per il cappuccino sono ancora piccola e il caffè mi blocca lo sviluppo cerebrale, come se non corressi lo stesso rischio durante l’ora di religione con quella retrograda, bisbetica della Sorbucci che, ironia della sorte, si chiama pure Caterina, come la protagonista shakespeariana) e metto di corsa i miei vestiti preferiti: un paio di jeans scoloriti e una felpa con Topolino sorridente sul davanti e Minnie sul retro, che strizza l’occhio al suo amato.

    «Hai lavato i denti, Alice?»

    «Sì, mamma.»

    «Guarda che poi ti annuso e me ne accorgo se hai detto una bugia.»

    Che barba, mi tratta ancora come una mocciosa. I denti non li lavo, così impara. Tiro fuori dalla tasca un chewing-gum alla menta e lo infilo in bocca alla velocità con cui un formichiere giustizia la sua vittima. Prima che io possa nascondere il reato ingoiando la prova, il tenente Colombo in gonnella esordisce: «Ti ho vista! O sei diventata una mucca e stai ruminando la colazione, o hai una gomma da masticare in bocca.»

    Iniziamo una rincorsa sino all’auto, una lucidissima Y10 blu notte prima di un acquazzone estivo, parcheggiata nel vialetto di casa, e mentre ridiamo entrambe sotto i baffi (mia madre simbolicamente, io realmente perché non sopporto neanche solo l’idea di strapparmi qualcosa che la natura mi ha coscienziosamente donato), prendiamo posto e ci allacciamo le cinture di sicurezza. Inizia il mio viaggio della speranza: quella di non essere interrogata in matematica.

    «Ti vedo un po’ tesa, c’è qualcosa che vuoi raccontarmi?»

    «No, mamma» le rispondo con tono seccato.

    «Il tuo atteggiamento mi fa pensare il contrario. Hai fatto tutti i compiti, vero? Non dovrò certo controllarti come faccio con Diego!»

    «Sì! Non farmi le paranoie, mica devo sempre ridere e scherzare.»

    «Hai ragione, l’importante è che tu sappia che puoi parlarmi di ogni cosa, okay?»

    «Recepito. Passo e chiudo.»

    E come faccio a dirle che ieri anziché arrovellarci sugli esercizi di algebra, io e Chiara non abbiamo fatto altro che guardare Amal, un giovane indiano che fa il benzinaio nel distributore Esso perfettamente visibile dalla finestra della mia cameretta? Lui ha diciassette anni e frequenta la seconda B, la classe accanto alla mia nel liceo linguistico Enrico Fermi. È indietro perché, a causa della malattia di sua madre, per un paio d’anni non ha preso parte alle lezioni, impegnato a occuparsi dei fratelli minori. Il pomeriggio va ad aiutare i suoi al lavoro. È diverso dagli altri ragazzi della sua età: lui non è un bullo che terrorizza le matricole, sta sempre in disparte, forse perché non parla ancora bene l’italiano. Capisco che è buono, però, non tanto dalle azioni che compie ma da quelle che non fa. Non ti guarda facendoti sentire un verme solo perché sei più piccolo, non ti obbliga a lasciargli il posto sui sedili posteriori dell’autobus quando si va in gita, non ti costringe a dargli la tua merenda se è più appetitosa della sua. Si muove sempre con attenzione, come se non volesse disturbare, anche quando sposta la pompa del carburante. La maneggia in modo delicato, districandone le annodature quando suo padre la aggroviglia inavvertitamente. Agita le lunghe dita quasi accarezzasse i tasti di un pianoforte, ma la musica che suona la sento solo io. La prima volta che mamma ha visto Amal al distributore ha esclamato: «Com’è garbato e distinto questo ragazzo, mi ricorda Kabir Bedi, l’attore che interpreta il ruolo di Sandokan alla tv.»

    Io sono esplosa in una risata. «Tutte tu, mamma! Le spari più grosse di un cannone. La tigre della Malesia! Stai attenta, perché al posto della pompa della benzina ora potrebbe tirare fuori una sciabola!»

    «A me lo ricorda. E poi quell’attore è pieno di fascino. Comunque sghignazzi tanto, signorina… se non la pianti di prendermi in giro dopo cena ti toccano tutti i piatti da lavare!»

    «Ma mamma, questo è un abuso di potere. Non posso più scherzare adesso?»

    «Ah… abuso di potere! Sento con estremo piacere che quando vuoi sai tirar fuori dal cilindro espressioni di un certo calibro. Questa sì che è magia! Brava, continua così, streghetta.»

    «Grazie, sono figlia d’arte.»

    La maturità classica ha segnato mia madre irreversibilmente. Fissata con le parole, che secondo lei racchiudono appieno il senso delle cose che indicano, mi ripete spesso: «Un termine non è solo forma, è già esso stesso contenuto e soprattutto la dice lunga su chi lo pronuncia. Quindi, cara Alice, bada sempre a ciò che dici.»

    «Se non conducesse in quella prigione, la strada che percorriamo per andare a scuola sarebbe veramente piacevole.»

    «Hai ragione, streghetta. I cipressi su entrambi i bordi le conferiscono un aspetto fiabesco, facendo filtrare i dardi del sole solo a tratti, quanto basta però a rendere sfavillante il rosso dei gerani che abitano i balconi delle villette adiacenti. Quando siamo in ritardo e faccio insistentemente piedino all’acceleratore, il verde e il vermiglio sembrano quasi cedersi il testimone nella nostra staffetta sregolata, il cui unico obbiettivo è arrivare prima della campanella.»

    *

    Apro gli occhi a fatica. Sembrano cuciti con il fil di ferro, lo stesso che usa mia nonna per creare il gambo di quegli orribili fiori di carta che prepara lei. Ogni tentativo di spalancarli viene vanificato dalla grossolana cerniera metallica che li strizza. Provo allora a muovere le labbra, ma un sottile strato di colla vinilica le serra. Dico sottile, perché forzando riesco a creare una piccola fessura da cui vibra la parola mamma.

    «Stai tranquilla» mi risponde una voce sconosciuta. Una voce che non ha volto, né corpo. Non ha quello di mia madre, di mio padre, di mia nonna, di mio fratello. Una voce senza sesso.

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