Granfati
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Anteprima del libro
Granfati - Mariano Castello
libertà.
Prefazione
Leggere Granfati
mi reca ancora una volta l’affettuosa ammirazione che ho provato di fronte ai numerosi raccontini che sostanziano i volumi già editi. Li chiamo raccontini per la loro modulare brevità e ripetitività di ambientazione. I posti in cui agiscono i personaggi sono quasi sempre gli stessi come succede spesso nei vicoli ebraici di Varsavia di Isac B. Singer, risuonanti di discorsi ijddish e anche negli ambienti rappresentati da Pietro Longhi, dove eleganti e arguti personaggi vivono la loro vita, esprimendosi con il sapido dialetto veneto.
Proprio la lingua rappresenta una via per interpretare la prosa di Castello e specialmente la prospettiva narrativa. Chi è l’«io narrante»? E’ il maturo e pensoso autore dei racconti o il bambino-ragazzino non più impastoiato dalla indifferenziata infanzia e non ancora assalito dalla tempesta dell’adolescenza? La chiarezza della visione del ragazzo fa pensare a un’ora mattutina, limpida che dà un tono chiaro e ironico all’osservazione delle vicende. A volte il giudizio del ragazzino, che adombra la figura del narratore, si esprime direttamente: A quel tempo io avevo l’impressione di non essere ricco, ma neanche tanto puareto
. E’ l’alternanza lingua-dialetto che dà movimento e velocità alla pagina e dà ricchezza alla descrizione.
I personaggi che animano i racconti sono quasi sempre gli stessi: la famiglia e il contorno di conoscenti che le vivono attorno. Importantissimo è il padre, ingenuo e acquiescente. Di lui traspare una vita di ufficio dove la personalità viene spesso sbiadita. La madre invece giganteggia, vera matriarca: regge e governa la famiglia con un sano scetticismo; trova un principio di giustizia nel patteggiare addirittura con il destino e ha momenti di rivolta e dileggio per i ricchi, rivolta che rientra in nome di una saggia considerazione della realtà. Poi il contorno di persone vecchie, deboli, ridicole o furbe. Ma ha parole sferzanti per le non poche incongruità dei preti, per la loro ostinata presenza e sicurezza.
Buona lettura!
Luciano Vighy
Granfati
Se mia madre fosse ancora qua e potesse leggere questo libretto, direbbe: Granfati che te gabi senpre da méttarme in mezo mi
. Lo direbbe con l’occhio severo di una che è arrabbiata, ma in realtà farebbe per finta: e infatti leggendo quello che scrivevo su di lei, il péjo che aveva sempre si allentava un po’ e cominciava moderatamente a ridere, senza smettere di minacciare con la man alta. E allora le pareva di averle dette sul serio quelle parole, anche se magari io me le ero solo immaginate. Ma avrebbe potuto anche averle dette esattamente così come io le ho scritte.
E infatti c’è un vero vero, un vero a metà e un vero finto che però qualche volta può essere più vero del vero.
m.c.
Aspiranti
Mio cugino era capo aspiranti ed era serio, senza mai nessuna voglia di far bàgolo. Una volta mia madre mi ha detto: Te podarissi ‘ndar dentro nei aspiranti minori, che ghe xe anca to cugin. Varda che xe belo, setu: i te dà el distintivo e anca un libreto par dir le orassion
. Mi no, diobon, ca no vao nei aspiranti, mejo morto
ho risposto. E poi basta, non ha detto più niente, però lei mi ha iscritto lo stesso e mi sono trovato con il distintivo già messo sù nella giacchetta. Varda che to cugin el se gode che mai a essare aspirante
diceva per paura che non volessi andare.
Alla conferenza parlava l’assistente, che era un prete. Diceva ad esempio che gli aspiranti prendono ordini solo dal papa e che devono essere sempre pronti per ogni evenienza. Eravamo come un corpo scelto di soldati e il papa contava molto su di noi: guai se non ci fossero stati gli aspiranti! E infatti ci facevano cantare la canzone che diceva: Bianco padre che da Roma\\ ci sei meta luce e guida\\ in ciascun di noi confida\\ su noi tutti puoi contar.\\ Siamo arditi della fede,\\ siamo araldi della croce,\\ al tuo cenno, alla tua voce,\\ un esercito all’altar
. Oppure l’altra: Aspirante tu canti vittoria,\\ il tuo nome legato è alla storia
. A me questi canti piacevano molto, anche se erano d’ispirazione un po’ fassistona: senza volerlo mi mettevo sull’attenti e tiravo in fuori il petto. Ma a quel tempo mi piacevano molto anche i canti fassisti veri e propri come Faccetta nera
anche se il fassismo era finito da un po’ di tempo.
Ho detto a mio padre: Nialtri aspiranti sémo sotto el papa, se el ne ciama dovemo ‘ndare subito
. E dove veu?
Dove che el ne dise lu. Se el ne dise: ‘tuti a Vicensa’, dovemo ‘ndare a Vicensa
. E cosa fasìu quando che si tuti a Vicensa?
Mah, non ci avevo neanche mai pensato. Quel che ne ordina i superiori
dicevo alla fine. Poi in realtà il papa non ci ha mai chiamati, ma noi eravamo sempre pronti a ‘ndare.
In poco tempo ero diventato serio e senza più voglia di bàgoli: giocavo ancora a calcio, ma davo meno nelle caecie e solo in caso di necessità, quando ad esempio l’omo mi scappava via. E infatti l’assistente spirituale ci aveva detto che la pelà nella caecia era sleale. Era sleale anche marcare forte l’omo, come mi aveva insegnato a fare mio padre e come faceva lui ai suoi tempi, quando giocava da terzino: più che marcare, smoltonava e l’avversario finiva spesso a terra.
C’era un decalogo dell’aspirante, che mio cugino sapeva a memoria e che l’assistente gli diceva qualche volta di dir sù. Lui si metteva sull’attenti e lo diceva davanti a tutti senza mai inbalbarsi. Io adesso, a distanza di sessant’anni, mi ricordo solo alcuni di questi comandamenti. L’aspirante è leale
ad esempio come ho già spiegato. L’aspirante è sempre lieto
. Quando diceva questo, Toni Perin faceva la faccia da sèmo e poi subito dopo sèsti da pajasso. Cosa stai facendo Perin?
gli domandava severamente il Prete. L’aspirante che è sempre lieto
rispondeva. Varda che essar sempre lieto e fare sempre il sèmo non è mica la stessa cosa
gli diceva piuttosto suto. Mi ricordo gli ultimi due comandamenti: L’aspirante ama il papa, l’aspirante ama la patria
.
Ai nostri tempi, come papa, c’era Pacelli, con il quale c’era poco da far bàgolo, ma insomma bisognava prendere quello che c’era e non criticare, perché era il vice di Gesù Cristo. Altro che bale!
Che l’aspirante dovesse amare anche la patria era una cosa sulla quale i preti a quel tempo non insistevano mica tanto. Al massimo dicevano: Noi siamo italiani e quindi dobbiamo amare anche l’Italia
, però prima di tutto bisognava amare il papa e poi anche la patria, ma manco.
Bicere, bicerin
Una volta se uno aveva raffreddore con incassamento doveva prendere latte, graspa e una pastiglia di rodina. Se aveva raffreddore solo, andava bene anche graspa senza latte e senza rodina. La graspa infatti era una specie di medicinale e mia madre ne comperava ogni tanto una bottiglia per tenerla da male. Era utile anche per il mal di denti e infatti mio nonno, al quale piaceva il bicchierino, ogni tanto diceva a sua moglie: Elvira, go tanto male a un dente, no te gavarissi mia un bicerin de graspa, che me lo tegno lì un fià sul dente a védar se me passa?
L’Elvira lo guardava con il suo occhio da carbiniere, per capire se diceva da bon o solo per bere graspa.
Latte e graspa facevano bene anche ai bambini piccoli: quando io avevo febbre e raffreddore, mia madre arrivava con una scodella di latte che, dall’odore, sembrava più graspa che latte. Insieme mi dava da mandar giù una rodina. Poi mi diceva di andar sotto anche con la testa e mi metteva sù coperte e paltò. Col sudore tante volte andavano fuori anche la febbre e l’incassamento. Se non passava bisognava insistere e fare tutto un’altra volta, finché il latte e la graspa non l’avevano vinta sul male, che andava tutto fuori e restava sulle lenzuola sotto forma di macchie di sudore. Mia madre diceva: "So anca mi che te stavi male, varda che