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Riverisco
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E-book159 pagine2 ore

Riverisco

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“Riverisco” è una raccolta di racconti, la maggior parte dei quali Mariano Castello ha nel recente passato pubblicato a più riprese sul Giornale di Vicenza. Sono racconti di gioventù, di un passato che appare lontanissimo, tanto diversa era la vita che vi viene descritta rispetto a quella di oggi. Il linguaggio, un misto di italiano e dialetto, è però vicinissimo a quello che usiamo quotidianamente in famiglia e con gli amici, tanto che i racconti acquistano immediatamente vivezza e intensità. Il tono, sottilmente ironico e disincantato, ricorda quello di “Libera nos a Malo” di Luigi Meneghello, e le pagine scorrono veloci invogliando a continuare la lettura fino ad arrivare quasi con rammarico al finale.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2014
ISBN9788884497031
Riverisco

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    Anteprima del libro

    Riverisco - Mariano Castello

    LV

    Prefazione

    In controtendenza rispetto alla cultura odierna che è incline alla globalizzazione, alla compattazione anche dell’ieri con l’oggi, all’eliminazione delle differenze stilistiche che caratterizzarono (e ora non lo fanno più) non dico ere ma, quantomeno, generazioni, il libro di Castello colpisce per la sua capacità di isolare un piccolo mondo e di guardarlo e farlo guardare con la lente d’ingrandimento, di fare emergere quelle che sembrano epocali differenze, nella distanza che separa di solo una cinquantina d’anni una generazione dall’altra, in un piccolo contesto di provincia come Schio.  

    Malgrado una patina di definitiva obsolescenza veli i comportamenti e i principi di vita proposti dei personaggi delle novelle, tuttavia essi ci paiono estremamente familiari, con i loro tic, le loro assurde convinzioni, le norme che regolano una prassi quotidiana poco strutturata.

    Ciò dipende, a mio avviso, dal fatto che quei tipi rappresentano, al di là della loro buffonesca maschera letteraria, un’umanità piuttosto comune e riconoscibile; essi propongono vari aspetti di un animo umano che non muta quasi mai: invidia, saggezza, egoismo, amore, viltà sono costanti che, quando si manifestano, difficilmente riescono a mimetizzarsi, anche nelle mutate condizioni sociali determinate dal passare degli anni, dall’evolversi della tecnologia o dalla crescita culturale. Non vi è nulla, in sostanza, di nuovo sotto il sole, per ciò che concerne l’uomo. E tuttavia ciò che appare più vistosamente come un cambiamento profondo che va a costituire una differenziazione rispetto ai contenuti consueti, nel volgere dei secoli e anche dei millenni, è, come dicevo prima, lo stile...

    La possibilità di distinguere e di assaporare le differenze è, dunque, una delle qualità di questa operetta; tale non perché sia poca la sua sostanza o il significato che propone, ma perchè il taglio esiguo, ma per nulla banale, di cui l’autore si serve per descrivere la banalità quotidianità, riesce a sbalzare al vivo minuzzoli di una realtà vivace e icastica e a dare agli eventi narrati una sequenzialità breve e serrata.

    Le numerose, irridenti, ma sempre assolutamente razionali osservazioni che l’Autore porta all’interno delle sue storie per bocca dei protagonisti, - e spesso di se medesimo -, forniscono alla narrazione una fresca vena ironica.

    Ad esempio la considerazione - che troverebbe d’accordo non pochi studenti d’oggi - che il mondo della scuola e quello della vita interpretino un enorme, incolmabile gap, metafora dell’invisibile ma ineludibile muro che separa le modalità percettive degli adulti da quelle dei bambini: Nelle cose della scuola, afferma lo scolaro Castello, poteva darsi benissimo che gli occhi fossero nella coppa e che i capelli crescessero sulla faccia. Chi poteva saperlo?.

    Persino l’uso del verbo al passato, com’è consuetudine nelle fantasie ludiche (facciamo che tu eri il principe) non assolve solo la funzione di narrare fatti trascorsi, ma anche quella di mediare l’immaginario infantile con il mondo adulto.

    La leggerezza espositiva, totalmente priva di qualsiasi pretenziosità, viene applicata anche ai valori impegnativi e letterari, quale l’Onore, che richiama alla mente episodi dal sapore mitico, come di dipinti tiepoleschi sui soffitti delle ville o di tragedia greca. Essi vengono riassettati e scarnificati fino a farne emergere l’inconsistente esiguità; cosa può significare onore, nel contesto di un tran-tran quotidiano semplice, in un laborioso paese di provincia degli anni Cinquanta? Ciò che il vocabolario d’italiano definirebbe Integrità di costumi, costante rispetto e pratica dei principi morali propri di una comunità, su cui si fonda la pubblica stima, tradotto in pratica, è il cercare di mostrarsi agli altri secondo un’immagine positiva di sé nella quale ci si vorrebbe vedere identificati; tale condizione, nel racconto di Castello, viene spogliata da ogni pretenzione e si esprime con un minimalismo ridevole: attraverso la certezza della madre che l’onore si aveva quando la gente non aveva niente da dire di male. A ben rifletterci un obiettivo mica da poco, se si considera con quanta intensità e determinazione anche la persona più semplice e sprovveduta riesca a elaborare e a esprimere giudizi malevoli sul suo prossimo; persino sotto le mentite spoglie di carità cristiana. Dunque, celare il più possibile al mondo la propria intimità, se non proprio vestire una maschera, rappresenta una possibilità in più di sfuggire al giudizio, sicuramente malevolo, degli altri: Così scondendosi non si perdeva l’onore. E poco importa che la fatica vera consista nel non perdere ciò che, in realtà, non ci si è curati mai di perseguire.

    Identiche considerazioni valgono per le grandi fatiche educative dei genitori nei confronti dei figli, universali ed eterne cure, nel tentativo di trasmettere da una generazione all’altra non solo un bagaglio di conoscenze ma anche e soprattutto di regole. Qui, nella vita di gente comune della Schio di quegli anni, educazione significava soprattutto adattamento (tanto più rapido e radicato, tanto più vantaggioso) alle condizioni dettate dai più potenti: la maestra, il prete, il padrone della fabbrica. Si trattava di mettere in pratica, di affinare, quella facoltà intuitiva di sapersi adeguare alle situazioni e alle persone con la quale ci si può garantire un miglior livello di sopravvivenza. La regola fondamentale sembra consistere nella convinzione che ciò che non può essere cambiato deve essere accettato incondizionatamente. Il Riverisco ne sintetizza il Verbo e intride, come una qualità positiva e persino come garanzia di libertà, la vita di chi deve dipendere da altro e da altri.

    Non è difficile ammettere che ciò vale, in buona sostanza, per quasi tutti noi, salvo che per pochi fortunati: anche se a volte si riesce a trovare il coraggio di fare pitona, sberleffi, a chi ci comanda, bisogna però compiere l’atto con enorme discrezione e senso preciso della misura, tirando fuori pochissimo la lingua in modo da poter affermare, senza timore di smentita, di non averlo fatto.

    La capacità di sopravvivere in condizioni assai difficili deriva ai personaggi delle novelle di Castello anche da un supremo senso della fatalità: al di là della divina Provvidenza, al di là dei comportamenti che ottemperano alle regole dettate da generazioni di buon senso, al di là di tutto, alla fine, governa il Fato con il suo ineluttabile determinismo. Così persino la sapienza dei medici, i dottori, che è pur grande, nulla può di fronte all’indifferenza del destino: se l’omo moriva voleva dire che era la sua ora e allora anche i dotori non potevano fare niente. Non cause per risarcimento, non esposti contro la malsanità perché, persino quando qualcuno decideva di farla finita cristianamente buttandosi giù da S.Piero, voleva dire che era arrivata l’ora giusta per lui.

    Una tale olimpica rassegnazione tipica dei personaggi castelliani, non mai disgiunta, per contro, da una logica semplice ma serrata, intesa a risolvere qualsiasi tipo di avversità, se da un lato suscita ilarità per la paradossale esagerazione delle sue verità, dall’altra fa riflettere, ancora una volta, sull’esistenza di archetipi universali all’interno dei quali, al di là dell’immediatezza del coup de théatre, non è difficile riconoscersi.

    Questa è una delle fascinazioni del raccontare di Castello: il far intravedere al lettore, con una prosa colloquiale e attraverso dialoghi farciti di divertenti vernacolismi e di semplificazioni, la profonda complessità della vita.

    E un’altra è la persistente atmosfera da favola, pur quotidiana, dove convivono personaggi della famiglia, la madre, le sorelle e specialmente il padre - con il quale sembra esserci un filo d’intesa del tutto particolare -, i compagni di scuola, i preti, i ragazzi dell’oratorio, e gli altrettanto importanti protagonisti anonimi, l’omo del circo l’omo del callifugo, sulle azioni dei quali si avvalorano e divengono veritative le regole di vita e del destino.

    Per contro Toni Perin diviene per antonomasia l’amico o il signor Sette rappresenta il prototipo del maestro, sderenato e vanaglorioso, che può contare, per mettere in scena le proprie imprese, soltanto su un pubblico di ragazzini pronti a bersi qualsiasi racconto.

    Tutte queste minutaglie di umane condizioni che accomunano, molto più spesso di quanto sembri, la gente qualsiasi ai potenti della terra, escono dalla penna di Castello in una vitalissima, eterna commedia dell’arte in cui a far ridere davvero è necessario, come lui fa, mettere se stessi per primi alla berlina.

    Insomma questo libro, nel suo proporsi quasi minimalista, sia nei contenuti che nel registro linguistico, appare come il mucchietto dei rotismi di un prezioso orologio: non ha, non può avere alcuna pretesa di esattezza; tuttavia si viene fuori dalla lettura con l’impressione che i movimenti del meccanismo, una volta assemblati, funzioneranno perfettamente e scandiranno il tempo con cronometrica precisione.

    Giovanna Grossato

    Nota dell'autore

    I racconti di cui si compone questo libro sono apparsi per la maggior parte su Il Giornale di Vicenza dal 1998 al 2001. 

    Ho giudicato inopportuno attribuire a ciascuno un titolo, che avrebbe accentuato il carattere oggettivamente frammentario degli episodi, anche se il lavoro è supportato da una sostanziale unità di tempo e di spazio, rappresentata dal vivere quotidiano di una famiglia scledense negli anni cinquanta.

    m.c.

    I

    Fino all’inizio degli anni sessanta, quando si salutava la maestra o il prete, si diceva: Riverisco.

    Al prete si poteva anche dire: Sia lodato Gesù Cristo e il prete rispondeva: Sempre sia lodato.

    Una volta ho incontrato per strada la maestra Comin e mia madre ha incominciato: Cos’è che si dice alla signorina maestra qua?

    Io stavo con la testa talmente bassa che quasi quasi toccavo terra. Bongiorno ho detto alla fine tra i denti. No bongiorno, cos’è che si dice, riv... riv... rive... risco ho detto completando la parola.

    Dilla almeno tutta intiera la parola, Signore.

    Ben, ben, va là diceva la maestra che in quel momento voleva parere mite va ben anche così. Il toso è un po’ timido, ma si farà un doman. E magari a casa continua a ciacolare...

    Cosa? È tutto un continuo: ciacolare e petufarsi con sua sorella, ma quando che è fuori sembra che abbia perso la lingua.

    Fammi vedere se hai la lingueta diceva bonaria la maestra. Allora io tiravo fuori una lingua talmente lunga che non si capiva se era solo per mostrarla o anche per far pitona.

    La maestra restava per un attimo incerta e poi per tagliar l’aria diceva: Visto che lunga che l’ha....

    II

    La maestra diceva: Con ambedue fiuta l’aria e ripeteva con voce squillante per essere capita meglio: Con ambe-due fiuta l’aria. Si riferiva al cornistè che fiutava l’aria con le antenne secondo quanto diceva lo scritto che aveva in mano. Noi, che eravamo in seconda, dovevamo scrivere sotto dettatura. 

    Con ambe due pensavo io cioè con due ambe. Il cornistè aveva due ambe che non erano proprio gambe, ma molto di meno, in pratica due piedini quasi microscopici. Erano appunto le ambe del cornistè, che lo aiutavano poco perché le teneva da conto e più che

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