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Per soldi e per TV - La mia vita sul set
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Per soldi e per TV - La mia vita sul set
E-book267 pagine3 ore

Per soldi e per TV - La mia vita sul set

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Info su questo ebook

Rivelazioni divertenti, talvolta pungenti o scandalose di uno dei più prolifici autori televisivi italiani. Alessandro Ippolito racconta avventure, personaggi, successi e sconfitte, tecnologia e artigianato del mestiere tv, con sincerità disarmante. La crescita e l’affermazione di un professionista fra giornali, radio, cinema e tanta televisione. Una guida per chi vuole lavorare in tv o nei mass media, ma anche una gustosa dritta per l’esistenza.

Questo libro è stupendo! E’ un libro fatto di passione, di verità, di amore. L’ho letto in una sola notte. Mi ha completamente travolta. Alessandro ti seguo da anni con ammirazione. La storia della tua vita è veramente un romanzo. Ti faccio i miei complimenti più sinceri e affettuosi. E grazie!
Manuela Basso
docente

Leggere le innumerevoli peripezie di Alessandro, produttore, autore, sceneggiatore, regista, conduttore, e molto di più (la sua è una biografia da attore hollywoodiano) prima di tutto diverte e poi è (…) è un insegnamento per chi vuol far di mestiere intrattenimento e spettacolo, ma è a anche una bella dritta per l’esistenza. Un gran bel libro.
Erica Arosio
giornalista, scrittrice

Libro molto bello e coinvolgente. Non è una autobiografia ma il romanzo “vero” di una persona che rivela se stesso e il suo mondo con grande sincerità. E’ la prima volta che leggo del mondo della tv e dello spettacolo raccontato dal di dentro. E’ un libro che diverte, fa riflettere, sconcerta, appassiona pagina dopo pagina. C’è da sperare che non sia solo il primo di questo autore.
Carol Meschi
photographer

Un 'Giovane Holden' adattato alla televisione. Un'energia che arriva, che appassiona perché sincera e surreale al contempo. Il racconto di una vita coraggiosa, dettata dalla semplice, giovane, ingenua voglia di conoscere che è un esempio per i tanti che oggi troppo spesso aspettano e s'impigriscono nel tentativo di trovare la 'giusta direzione'.
Stefano Villa Santa
filmaker

Un libro da leggere assolutamente. E’ scritto bene, si legge d’un fiato, è interessante, divertente ma è soprattutto sincero in ogni sua pagina. Non è un’autobiografia ma un romanzo bello e ricco come dovrebbe essere la vita di ognuno di noi. Bravo Ippolito!
Mariella Cantani, Roma
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2015
ISBN9788892518650
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    Anteprima del libro

    Per soldi e per TV - La mia vita sul set - Alessandro Ippolito

    Alessandro Ippolito

    Per soldi e per TV - La mia vita sul set

    Grafica di copertina: Ilenia Cresceri

    Prima edizione on line: novembre 2015

    Questo libro è stato pubblicato con la consulenza editoriale di Emanuele Properzi (www.selfpublishingvincente.it)

    Copyright © 2015 Alessandro Ippolito

    All rights reserved.

    UUID: 2a119c5c-8c80-11e5-a150-119a1b5d0361

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    INDICE

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    Capitolo XXIV

    Capitolo XXV

    Capitolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    Capitolo XXX

    Capitolo XXXI

    Capitolo XXXII

    Capitolo XXXIII

    Capitolo XXXIV

    Capitolo XXXV

    Capitolo XXXVI

    Capitolo XXXVII

    Capitolo XXXVIII

    Capitolo XXXIX

    Capitolo XL

    Capitolo XLI

    Capitolo XLII

    Nota dell’autore

    Ripercorro in queste pagine quello che ricordo dei tanti anni vissuti dietro e davanti alle camere, sempre sul set e in montaggio. Non lo faccio per denunciare qualcuno o qualcosa, anche se il mondo nel quale ho vissuto è per alcuni versi corrotto e scandaloso. Probabilmente, qualcuno si sentirà anche offeso dalle mie omissioni o dalle mie osservazioni. Non me ne voglia. Scrivo solo sul filo della memoria e penso che forse le mie avventure e disavventure professionali possano anche essere un piccolo aiuto per chi guarda giornali, cinema, radio e televisione con occhi sognanti. Mi rivolgo soprattutto a quei giovani sulla cui passione il nostro Paese specula molto. Numeri, nomi e date non sono mai stati il mio forte. Per questo motivo questo libro non ha valore storico o cronachistico. Consideratelo piuttosto, dialoghi compresi, un romanzo che risponde solo a una domanda che nel corso degli anni mi è sempre stata posta da tutti: Come sei arrivato a fare il tuo mestiere?. La risposta è in queste pagine.

    Alessandro Ippolito

    Ogni riferimento a nomi, luoghi e fatti realmente accaduti era inevitabile. Ma i dialoghi sono frutto di fantasia elaborata sulla memoria. Essi hanno un valore puramente descrittivo degli stati d’animo del narratore. E non vogliono offendere nessuno.

    Questo libro non sarebbe mai nato senza le esortazioni di Valeria Boi, Giacomo Bolzani, Ilenia Cresceri, Luca Martera, Mauro Montis, David Rombi, Renato Salvetti, Zdenko Radman.

    Capitolo I

    Non starò a raccontarvi come sono finito da Napoli a Milano. Non avevo ancora vent’anni, la mia città mi stava stretta e mio padre, dopo diverse mie peripezie, mi lasciò andare a Milano da mio zio che aveva una agenzia investigativa. Volevo vivere, volevo fare tutto, provare tutto e volevo scrivere tutto quello che vedevo e sentivo. Mio zio Ludovico è stato il mio primo grande maestro. Era piccolo, con una grande faccia simpatica e aveva una voce straordinaria. Mi insegnò a usare il telefono. Quando si chiama qualcuno per ottenere qualcosa devi prepararti come se andassi in scena. Non devi avere nessuna titubanza, solo cose precise da dire e un tono sempre autorevole. Oggi non sarebbe più possibile, ma in quegli anni mio zio riusciva a ottenere da commissari e direttori di banca tutte le informazioni che voleva. Era un vero artista.

    Sono Tassoni della 23, mi passa Clericetti?.

    I cognomi che si inventava per sé finivano sempre in one, oni. Presagiva forse l’avvento di Berlusconi.  

    Clericetti, come va? Giornata piatta qui da noi. Dopo varie battute, dette tutte nel gergo dei bancari, entrava nel merito. Ho qui un’apertura di conto a nome, aspetti, ecco, Ilde…, con richiesta di credito, Dice che lo zio Tommaso ha un conto presso di voi. Le risulta?

    Allora non c’erano call-center, computer e database e certe cose, come ho detto, erano possibili. Mio zio con quella sua voce da generale delle forze armate parlava con portinaie, commissari, direttori generali di grandi aziende e si faceva dire tutto il possibile sulle persone su cui stava indagando. Era straordinario. Con una telefonata e i rilievi sui protesti faceva tutto.

    I primi tempi a Milano rimasi nella sua stanza a vederlo lavorare. Cambiava personaggio, ritmo delle battute, andava a soggetto, era un attore straordinario. Giorno dopo giorno, imparai le sue tecniche. Le prime telefonate le feci in sua presenza. Mi faceva sedere sulla sua poltrona di pelle. Così ti senti importante, mi diceva e mi ascoltava andando avanti e indietro nel suo studio, annuendo e muovendo le mani come un direttore d’orchestra. E mi bacchettava per una sola incertezza, per un tono sbagliato, per un silenzio non funzionale.

    Ma io volevo scrivere e non telefonare e dopo qualche mese, malgrado la stima e l’affetto che provavo per lui, stavo già meditando di andarmene.

    Un nostro investigatore, Vittorio, si ritrovò però in una storia che mi dissuase e mi coinvolse immediatamente. Vittorio era un vero, grande investigatore. Vent’anni dopo i fatti che ora vi racconto, lo avevo incontrato in un aeroporto. Vittorio!, gli avevo gridato. Si era voltato verso di me pronto a colpirmi con un pugno. Ci sono tante persone che mi vogliono morto - mi disse - devo stare sempre in guardia".

    Vittorio era davvero un personaggio da film. Pugliese, magro come un’acciuga eppure muscoloso, la faccia scavata da delinquente, gli occhi azzurri vivacissimi, sempre in movimento. Aveva risposto a un annuncio su un giornale. Cercasi persona libera e senza scrupoli per indagine delicatissima. Ottima retribuzione. Figuriamoci, per Vittorio un annuncio del genere era un invito a nozze. Si trattava di pedinare un uomo in una villa di Via Rovani a Milano. Giorno dopo giorno, conquistandosi la fiducia del suo datore di lavoro, Vittorio venne a sapere che si trattava di un industriale che aveva venduto la sua fabbrica di giocattoli, aveva comprato un furgone Fiat attrezzandolo con catene e aveva armi e risorse di ogni genere. Diceva che faceva parte di un’organizzazione internazionale che, per il bene dell’umanità, doveva rapire gli uomini più ricchi di Milano. Il primo era Giorgio Borletti, quello delle macchine per cucire, che viveva proprio in quella villa che anni dopo sarebbe stata il primo quartier generale di Berlusconi. Borletti era il primo della lista, poi sarebbero seguiti Moratti e altri nomi prestigiosi dell’epoca. A mio zio la cosa interessò subito. Bisognava però verificare se quello che diceva questo tizio corrispondesse al vero. Ci organizzammo in questo modo. Vittorio e questo pazzo pedinavano Borletti e mio zio ed io, d’accordo con Vittorio, li pedinavamo a nostra volta. Immaginatevi il mio divertimento: correre nelle notti nebbiose di Milano dietro questo tipo per vedere dove abitasse. Inseguimenti, appostamenti, pizze mangiate in macchina come nei telefilm. Il giorno in cui Borletti doveva essere rapito, avvertimmo la polizia e l’uomo fu arrestato. Sui giornali di Milano a piene pagine Anonima sequestri scoperta a Milano. Un successone per l’agenzia e per le mie tasche. Arrivarono clienti a volontà e io cominciai a guadagnare un bel po’ di soldi raccogliendo informazioni per telefono come faceva mio zio oppure pedinando coppie fedifraghe.

    Avevamo un sistema di cui oggi mi vergogno. Dopo averli scoperti, pedinavamo gli amanti e li seguivamo fino al motel in cui consumavano la loro passione. Davamo una lauta mancia al portiere per avere un passepartout e stavamo fuori della porta a origliare. Quando gli affanni della coppia arrivavano per così dire al momento più alto, aprivamo la porta e zac! scattavamo una bella foto dei due a letto. Poi via di corsa. Così si otteneva il divorzio per colpa.

    In quegli anni, la coscienza non mi diceva quasi niente. Mi sembrava un lavoro interessante e ne vedevo anche un aspetto molto divertente.

    Sicuramente, anni dopo, l’emozione di osservare le persone a loro insaputa, l’esperienza fatta con ore e ore di appostamenti sotto i portoni o davanti ai ristoranti mi è stata utile in trasmissioni che ho realizzato come Scherzi a parte o Telecamere a richiesta.

    Ma non durò molto, mi sentivo più un guardone che uno scrittore. E presto mi stancai anche di questo. Volevo scrivere. Nei miei rapporti raccontavo: "Mario Tal dei Tali questa mattina è uscito di casa col volto contratto in una smorfia. Ha attraversato la strada con passo deciso, diretto alla sua vettura. Sicuramente la sua mente era attraversata da molti pensieri non tutti piacevoli…"

    Ma che cacchio scrivi!, urlava mio zio. Che ce ne fotte del volto contratto, il passo deciso, i suoi cazzi di pensieri. Tu devi scrivere solo: Mario esce alle 8.15 e sale in macchina alle 8.17. Tutto il resto non ci interessa, hai capito?"

    Sì, capivo, ma avevo anche capito che quella roba non mi interessava più.

    Capitolo II

    Le foto, non quelle naturalmente degli orgasmi malandrini, mi avevano tuttavia conquistato. Mi piaceva inquadrare un soggetto, seguirlo, scattare. Lo scatto di una macchina fotografica per le mie orecchie è ancora un piacere. Altro che quello digitale dei cellulari. A un cellulare del resto puoi anche dirgli di stare zitto, ma prova a dirlo a una Nikon. Neanche ti ascolta. E’ la voce della sua meccanica. E’ un sipario che si apre e si chiude per un istante. Un suono così teatrale paragonabile forse solo a quello della ricarica di una pistola.

    Nelle mie scorribande notturne conobbi Roberto. Aveva più o meno la mia età e faceva un lavoro per me del tutto sconosciuto. Vendeva fotografie ai giornali. Foto di moda per lo più a settimanali e mensili di prestigio. Il denaro guadagnato con il lavoro di investigatore mi aveva permesso di affittare una mansarda in Viale Piceno e proprio in cortile c’era anche un loft (allora si chiamavano magazzini) libero. Non so dirvi come Roberto e io arrivammo a una decisione del genere. Quando si è giovani si è guidati da passione e entusiasmo. Avevamo lo stesso modo di vedere le cose e tanta voglia di essere liberi. In poche parole, prendemmo in affitto quello spazio, costituimmo nientemeno che la Press Service Distribution Center, allestimmo uno studio fotografico, una camera oscura e partimmo infischiandocene di avere concorrenti come l’Ansa o l’Agenzia Giornalistica Italia.

    Roberto coraggiosamente lasciò il suo lavoro sicuro, io lasciai perdere le investigazioni e con una sola, meravigliosa Rolleiflex ci mettemmo a lavorare.  

    Mentre io giravo la città a caccia di scoop, Roberto iniziò a mettere in piedi una rete di fotografi vendibili. Era abile, simpatico, ben voluto da tutti nell’ambiente e il suo lavoro iniziò a dare subito i primi frutti. Ma Roberto era anche un sognatore come me e mi lasciò credere che presto avrei iniziato a scrivere e a raccontare le mie storie anche con le foto. Pensavo che tutto quello che allora mi appassionava dovesse per forza interessare anche i giornali. Ma non fu così. Presto ci ritrovammo a vendere soltanto foto di cucina, sotto le quali dovevo scrivere solo una ricetta oppure servizi fotografici di moda bambini, completamente privi di didascalie. Imparai moltissimo in quel periodo. Le foto di cucina comportavano un lavoro immenso. Iniziai a scoprire che la rappresentazione della realtà comporta necessarie contraffazioni. Un piatto di pasta in fotografia non deve essere buono ma bello, appetitoso. E quindi le salse non sono proprio salse, i colori e i riflessi sono tutti artefatti. Insomma i bei piatti che fotografavamo se li avessimo assaggiati ci avrebbero avvelenati tanto erano pieni di olii, vernici e coloranti. Oggi questa mancanza di cura fotografica è evidente in tv: vengono preparati piatti appetitosi ma fotograficamente insignificanti. Le luci diffuse degli studi non esaltano un bel niente mentre noi per due spaghetti al pomodoro a volte accendevamo anche 10 kW.

    Grazie a Roberto conobbi anche Gianpaolo Barbieri uno dei più grandi fotografi di moda che abbiamo in Italia. Gianpaolo ci lasciava stare in studio quando fotografava e ci permetteva di stare anche in camera oscura quando lavorava.

    Di Gianpaolo ho un ricordo straordinario. Le sue sessioni fotografiche erano uno spettacolo. Le modelle più belle del mondo passavano davanti al suo obiettivo. Morbide, sinuose come se si muovessero nell’acqua, si abbandonavano completamente alla musica dello studio e alle parole di Gianpaolo. Avvolte in rotoli di stoffa o di carta, ricoperte di fiori o di veli, Gianpaolo le guidava come in una danza. Insieme sembrava che stessero in un mondo immaginario e segreto che si rivelava solo alla fine, alla luce rossa della camera oscura. Da una balconata dello studio, Roberto e io eravamo lì a guardare con gli occhi spalancati, affascinati, quasi senza fiato e ci sembrava di prendere parte a quella danza talvolta muovendoci anche noi come due scemi. Tu hai un soggetto, cominciai a capire, e con quel soggetto devi stabilire un contatto, devi avere un rapporto, devi trasmettere a quel soggetto quello che hai dentro. Con gli attori, più avanti negli anni, ho sempre lavorato in questo modo. Non saprei mai dire a un attore asciugami questa battuta oppure cerca di essere più incisivo. La battuta gliela dico io direttamente. Piango o rido o soffro io per portare l’attore a piangere, ridere o soffrire con me. Questo faceva Gianpaolo, faceva entrare nel suo mondo immaginario la modella che aveva davanti e insieme facevano quei ritratti che sono poi diventati famosi in tutto il mondo. 

    Ma a parte Gianpaolo Barbieri, le foto di cucina e di moda bambini mi avevano stancato.

    Dobbiamo fare qualcosa, dissi un giorno a Roberto. Così non possiamo continuare.

    Roberto era molto più serio di me. Era già un professionista e mi ascoltava sempre con pazienza ma anche dubbioso.

    Dopodomani - dissi - Walter Chiari esce di prigione. Prendiamo un paparazzo di quelli bravi lo mandiamo lì, facciamo il servizio e lo vendiamo. Insomma, facciamo uno scoop, dissi.

    Roberto scosse la testa, ma aveva le porte aperte di una testata scandalistica ed era anche allettato dall’idea.

    Scelse lui il fotografo, investimmo tutte le nostre (povere) risorse nel viaggio aereo, nella diaria del fotografo e aspettammo ansiosi il suo ritorno.

    Il povero Walter era stato processato e imprigionato per droga. Al momento della sua scarcerazione da non ricordo quale penitenziario, c’era una marea di fotografi ad aspettarlo. Il nostro scattò e tornò subito a Milano. Eravamo eccitatissimi, sicuri di essere stati i più veloci di tutti. Sviluppammo e stampammo quelle foto come se fossero già delle banconote. Roberto corse nella redazione del giornale.

    Guardi che abbiamo, disse alla direttrice mostrandole le foto.  

    La donna guardò le foto, aprì un cassetto e disse:

    Guardi che cosa ho già.

    Un servizio simile le era già stato consegnato ed era anche già impaginato. 

    Lasciai perdere quel lavoro. Roberto proseguì per la sua strada e divenne un affermato fotografo italiano. Io campai per un po’ giocando a dadi di notte all’Arena di Milano.

    Poi si aprì una nuova pagina della mia vita.

    Capitolo III

    L’amore mi portò a Lugano in Svizzera, dove mi sposai, divenni padre, giornalista, lettore, doppiatore, sceneggiatore, conduttore, regista. Mi ci vollero circa sette anni. E non bastarono certamente.

    Non credo che a voi lettori di questo libro interessi anche la mia vita privata per questo continuerò a raccontarvi tutta la fatica fatta per crescere professionalmente. Comincio dal permesso che dovetti ottenere per lavorare in Svizzera.

    Era il 1971. Il leader xenofobo James Schwarzenbach era riuscito a convincere centodiecimila suoi connazionali, in otto cantoni su 25, che noi Italiani eravamo un pericolo immenso per il Paese. C’erano, in quel periodo, contro quattro milioni e mezzo di Svizzeri quasi un milione di stranieri. E di questi circa seicentotrentamila erano Italiani. Schwarzenbach nella sua propaganda aveva una creatività molto macabra ma convincente: la Svizzera in una bara con tutti gli immigrati vivi e vegeti intorno, oppure Svizzeri che penzolavano impiccati dagli spaghetti italiani. Insomma, roba simile a quella che vediamo in questi giorni. L’aria che tirava era veramente fetida.

    Dovetti stare d’inverno in fila indiana a torso nudo a Mendrisio per superare la visita medica. Come gli immigrati che oggi arrivano da noi nei barconi. Un italiano, allora, evidentemente, poteva essere infetto.

    Apri la bocca, tira fuori la lingua, che malattie hai avuto?

    Era una sensazione molto strana. Milano dista solo 60 chilometri da Mendrisio e io venivo visitato, studiato con la stessa attenzione con cui si visita un animale che viene dall’Africa. Ero davvero tanto pulito e sano da poter meritare di vivere in Svizzera? Decisero di sì. Mi sentii stupidamente un privilegiato. Di Schwarzenbach non me ne fregava niente e, con quel permesso fra le mani, sembrò che mi si fossero aperte le porte del paradiso. Tanti anni dopo ho visto analoghi permessi stretti fra le dita di filippini, africani, sudamericani. Fogli di carta ricoperti da timbri preziosi, custoditi come tesori, frutto di chissà quanti sacrifici e umiliazioni. Ma da giovane tutte queste considerazioni non le facevo. In coda a Mendrisio guardavo solo se c’erano belle ragazze. Pensai che quella visita era una grande stronzata perché non approfondiva o stabiliva un bel niente. E tirai avanti allegramente, cercando di comportarmi da svizzero doc. Dovevo trovare un lavoro. Andava bene qualsiasi cosa perché mi servivano ancora un po’ di timbri per stare là. E visto che in Svizzera ci sono più banche che mucche, cercai lavoro proprio in una banca. Un tizio mi mise davanti alla macchina per scrivere e mi disse di battere sotto la sua dettatura. Ora io ero velocissimo perché la macchina per scrivere l’avevo usata tutti i giorni per redigere quei miei rapporti sulle corna. Ma scrivevo con solo due, al massimo tre dita. Il funzionario appena iniziai a battere sui tasti sgranò gli occhi e mi disse che non andavo bene perché bisognava scrivere con tutte le dieci dita della mano.

    Ma non ha visto quanto sono veloce, scusi - gli dissi - Mi faccia fare una gara.

    Mi dispiace, se non scrive con dieci dita non possiamo assumerla.

    Cazzo, volevo strangolarlo quello stronzo ma dovetti andarmene. E la mia carriera bancaria non ebbe mai inizio. Trovai un posto in una società di assicurazioni. Quando andai al colloquio di lavoro mi ritrovai davanti a un ometto rigido e serio come quello della banca. Non

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