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L'enigma dell'abate nero
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E-book287 pagine3 ore

L'enigma dell'abate nero

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Info su questo ebook

L’autore italiano di thriller storici N°1 in Italia e più letto nel mondo

Secretum Saga

Estate 1461, Mar Ligure. Angelo Bruni, diventato mercante navale e all’occorrenza contrabbandiere, abborda una nave proveniente da Avignone, intenzionato a saccheggiarla. A bordo di quell’imbarcazione, però, si nasconde una spia informata di un complotto ordito ai danni del noto cardinal Bessarione. Deciso a sfruttare a proprio vantaggio quell’informazione, Angelo pianifica di correre in soccorso del prelato, che si trova a Ravenna, per derubarlo delle sue ricchezze con l’aiuto del ladro Tigrinus. Ma l’avventura non andrà come previsto e Tigrinus raggiungerà Ravenna da solo. Qui, però, diventerà inaspettatamente il bersaglio di attacchi incrociati: quelli dei fedeli di Bessarione, convinti che il ladro fiorentino sia un sicario pericolosissimo, e quelli di Bianca de’ Brancacci, inviata a Ravenna da Cosimo de’ Medici. Inseguimenti, catture, fughe rocambolesche: Tigrinus dovrà fare appello a tutta la sua astuzia e al suo ingegno per salvarsi la vita e recuperare la Tavola di Smeraldo, il pericoloso libro che tutti vogliono. E mentre lotta per scampare alla morte scoprirà una verità sconvolgente che riguarda l’inquietante Abate Nero… 

L'autore vincitore del Premio Bancarella​
Oltre un milione e mezzo di copie

Un’avventura senza fine sulle tracce di un libro antico e pericoloso

«Come sempre Simoni coinvolge e cattura l’attenzione. Solo lui, tra i giallisti storici italiani, sa stupirci con innata maestria e assoluto rispetto del contesto epocale.»
Tuttolibri«Marcello Simoni è tra i romanzieri d’avventura più amati d’Italia.»
Il Giornale «Il cardinale Bessarione, realmente esistito, ispirò la simbolica rinascita di Ravenna, la ex capitale dell'Impero romano d'Oriente nella città dell'Adriatico. Marcello Simoni è riuscito a metterlo al centro del suo nuovo thriller.»
La Lettura

Marcello Simoni
È nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in venti Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni) e la Secretum Saga (L’eredità dell’abate nero, Il patto dell’abate nero e L’enigma dell’abate nero). Nel 2018 Marcello Simoni ha vinto il Premio Ilcorsaronero. Il segreto del mercante di libri è l’attesissimo seguito della Trilogia del mercante di libri, la saga che ha consacrato Marcello Simoni come autore culto di thriller storici.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2019
ISBN9788822732965
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    L'enigma dell'abate nero - Marcello Simoni

    Parte prima

    IL SEGRETO DELLA LANTERNA

    DIAVOLETTO.jpg

    1

    Firenze. Locanda dello Scudo Brunito

    20 maggio

    «Ve lo ripeto, è la verità», insistette Angelo Bruni, battendo i pugni paffuti sul desco di quercia.

    «Ah, la verità!», sospirò Tigrinus, mentre pensava a quante volte aveva affondato le mani nel fango perché sedotto da quella parola. Vuotò il bicchiere di vernaccia e scrutò l’uomo che gli sedeva di fronte. Messer Bruni era cambiato nell’ultimo anno. Dopo il colpo fortunato di Alghero, il corallo bianco rubato ai francesi, era diventato più grasso ma anche più sicuro di sé. Con l’odore del mare sempre attaccato alla pelle e la consapevolezza di essere il capitano di uno dei brigantini più veloci del Mar Ligure, somigliava per certi versi a quella carogna del suo defunto padre.

    «Veritas est foemina ambigua», declamò il nano Caco, terzo membro della compagnia.

    Accorgendosi che quest’ultimo non era più fra loro, Tigrinus si guardò alle spalle e lo ritrovò ai piedi di un tavolo vicino, intento a sbirciare fra le sottane di una meretrice caduta in deliquio per il troppo bere. «Torna subito qui», lo ammonì a voce bassa, curandosi di tenere il volto celato sotto il cappuccio. A differenza di messer Bruni, che si fregiava d’essere diventato un mercante di successo, lui era un ladro e doveva usare molta cautela nel mostrarsi in giro. Le spie di Cosimo de’ Medici e Niccolò Vitelli, il capo dei birri, gli davano la caccia da mesi, senza contare la taglia da venti fiorini d’oro che pendeva sulla sua testa. «E poi cosa sarebbe questa storia?», tornò a rivolgersi al minuscolo compare. «Da quand’è che sai di latino?»

    «Non è farina del mio sacco», confessò Caco, sfilando la testa dalla gonna della dormiente. «L’ho sentito dire da un prete».

    «Figurarsi», bofonchiò l’altro. «Un prete che parla di verità e di femmine…».

    «Non apertamente», ribatté il nano, arrampicandosi con l’agilità di una scimmia sul proprio trespolo. «Ma nell’intimità del confessionale…».

    «Insomma!», protestò Angelo. «Nessuno qui mi vuol dar retta?»

    «Al contrario», lo placò Tigrinus, quasi si rivolgesse a un bambino. «La vostra storia ci avvince».

    «Non prendetemi per i fondelli», si schermì l’uomo di mare.

    «Suvvia, mio caro messerone», lo dileggiò Caco. «Se non ci si punzecchia un po’ tra di noi poveri diavoli…», e allungò la mano sinistra verso il centro del tavolo, dov’era sistemata la caraffa. Con la destra, deforme e simile a una zampa di gallina, recuperava nel frattempo un bicchiere di peltro che era già stato riempito e svuotato per ben quattro volte.

    «Poveri diavoli sarete voi», rimbrottò Bruni.

    «Poveri un corno», lo rintuzzò Tigrinus con un sorriso più affilato di un coltello. «O vi siete già dimenticato di quando abbiamo spartito da bravi complici il ricavato del corallo rubato ad Alghero? E in quanto al definirci diavoli…».

    «Be’, quelli un po’ lo siamo», ammise il nano, sornione. «Altrimenti col piffero che il nostro florido marinaio si sarebbe rivolto a noi per una nuova impresa».

    E Bruni: «Sempre che non vi siate arrugginiti».

    «Siamo ancora nel giro», gli assicurò Tigrinus, mentre guardava con discrezione alla propria sinistra. Per un attimo, sotto le arcate ombrose della locanda, gli era parso di scorgere il volto lascivo di Bilia la guercia. Forse uno spettro delle sue paure, si disse. O forse l’istinto che gli suggeriva di tagliare la corda. «Ammesso», soggiunse, «che il gioco valga la candela».

    «Vale, vale», insistette Angelo.

    «E chi ce lo assicura?», s’insospettì Caco, che a dispetto della sua aria svagata non si era lasciato sfuggire una sillaba. «Forse il francese che avete ripescato dal mare una settimana fa?»

    «Tanto per cominciare è un greco», lo corresse Bruni. «Francese era la nave su cui l’ho trovato. Si trattava di una galea salpata dalle Acque Morte, in Provenza, e scampata per puro miracolo a una procella. Dopo averla avvistata, mi sono avvicinato per soccorrerla e…».

    «Ah, il nostro buon samaritano!», applaudì il nano.

    «Cosa cerchi d’insinuare, mostriciattolo?», avvampò Angelo. «Io non sono un pirata!».

    «Veritas e contrario deducitur», commentò Tigrinus con un’alzata di sopracciglia. «La verità si deduce dal suo contrario».

    «Questa è meglio della mia», si complimentò Caco. «Da chi l’hai udita? Anche tu da un prete?»

    «Da un vecchio amico», divagò il ladro, ripensando a fra’ Giovanni da Fiesole. Con la dipartita dell’antico precettore e della premurosa suor Assunta, Tigrinus aveva perduto ogni affetto legato alla sua infanzia. A tenergli compagnia, ora, erano soltanto il rischio costante di essere catturato e la curiosità di sapere chi fossero i suoi veri genitori.

    «Insomma…», tentò di riprendere il discorso Bruni.

    «Insomma», l’interruppe di nuovo Caco, «avete razziato la galea salpata dalla Provenza e vi siete portato appresso quel disgraziato d’un greco».

    Angelo era in preda all’esasperazione. «Non è un semplice viaggiatore greco», sbuffò mentre batteva l’indice sul tavolo, «bensì una spia».

    «Interessante», rimuginò Tigrinus.

    «Le spie non mi piacciono», obiettò il nano.

    «Smetti d’essere molesto», lo zittì il ladro, «e lascia una buona volta che il nostro amico ci racconti».

    Bruni gli rivolse un cenno di ringraziamento, dopodiché rivelò: «Il greco ha una missione. Mentre si trovava in Provenza, ad Avignone, è venuto a conoscenza di un piano per uccidere un uomo assai importante e intende intervenire prima che sia troppo tardi».

    «Il nome della vittima designata?»

    «Al momento posso rivelarvi soltanto che si tratta di una personalità di spicco della Chiesa, un alto prelato insediato in una città affacciata sull’Adriatico».

    Tigrinus abbozzò una smorfia perplessa. «Troppo vago».

    «E noi cosa c’entreremmo?», chiese Caco.

    «Be’», rispose Angelo, «è opinione comune che il prelato in questione sia molto… molto ricco».

    Il nano s’illuminò. «Mirate a una sua ricompensa?».

    Bruni scosse il capo. Quindi, abbassando il tono della voce, confidò: «Intendo derubarlo».

    «Con la complicità del greco?»

    «Il greco non sospetta nulla», assicurò. «A lui ho soltanto promesso che avrei reclutato della gente fidata per aiutarlo nella sua impresa. Gente accorta, che in gran segreto potrebbe avvicinarsi al prelato e, con la scusante di proteggerlo, spogliarlo delle sue ricchezze».

    Tigrinus lo scrutò in tralice. «Ma poc’anzi non era uscita dalla vostra bocca l’ammissione di non essere un pirata?»

    «Mica sarò io a commettere il furto», si schermì Angelo.

    «A questo penserà la gente fidata cui accennavate», chiosò Caco con un sorrisetto complice. «Ho ben inteso?».

    Bruni annuì, poi fissò entrambi i compari. «Cosa ne pensate?»

    «Ci devo riflettere sopra», dichiarò Tigrinus con aria vaga. «E quel che è certo, deciderò sul da farsi soltanto dopo aver parlato col vostro greco, chiunque egli sia. Riferitegli che se intende avvalersi dei nostri servigi, o come diavolo vi aggrada definirli, dovrà uscire allo scoperto e raccontarci la faccenda di persona, per filo e per segno, mentre lo guardo in faccia. Soltanto in seguito stabilirò… anzi», e si voltò verso Caco, «stabiliremo se il gioco vale la candela».

    Prima di ribattere, Bruni mormorò tra sé qualche parola. Per un attimo parve essere ritornato il ragazzone meschino e insicuro d’un tempo. «Sta bene», confermò poi, mentre recuperava il suo bastone per alzarsi dal trespolo. «L’appuntamento è domani notte, nello stesso luogo».

    «Dopodomani», rettificò il ladro.

    «Neanche per sogno!», si oppose Angelo. «Il tempo stringe».

    «E voi lasciate che stringa», replicò il ladro con una smorfia sardonica. «Io devo badare anche alla mia, di pelle. E a quella tengo più della vita di mille prelati. Perciò prima verificherò che i birri non mi stiano col fiato sul collo e poi, amico mio, vi concederò il privilegio di rivedere la mia faccia».

    2

    Congedati Tigrinus e l’odioso omuncolo che si portava appresso, Angelo Bruni attraversò l’ampia sala della locanda fino a raggiungere una gradinata diretta al piano superiore. Prima d’imboccarla, guardò con aria soddisfatta alle proprie spalle. Quello che una volta era stato il vestibolo di un fastoso palazzo sembrava ora il ricettacolo del degrado umano. Nell’ombra violata da un tenue baluginare di lanterne, pareti adorne di antichi arazzi e collane d’aglio accoglievano una fauna di ubriaconi, giocatori di dadi e meretrici. Certo, pensò Angelo, sarebbe stato nel suo interesse selezionare la clientela, dato che il locale gli apparteneva. Quel degrado però gli era tanto dolce quanto un dolore autoinflitto. Un dolore di cui non sapeva fare a meno.

    Salì quindi i gradini che, quasi l’avessero riconosciuto, iniziarono a gemere sotto il peso dei suoi passi. Accompagnato da quel suono, messer Bruni trascinò la sua mole di orso fino al ballatoio soprastante, e da lì all’unica stanza che non aveva messo a disposizione degli avventori. Perché l’aveva destinata a sé stesso.

    Vi si recava assai di rado, in realtà, trascorrendo la maggior parte del tempo in mare, nella confortevole sala nautica dell’amato brigantino. Fra quelle pareti, tuttavia, aveva radunato ogni cimelio di famiglia scampato alle tempeste del passato, a partire dalla grande lanterna turca che suo padre, in gioventù, aveva staccato dalla prua di una fusta ottomana. E poi c’erano i libri. Per buona parte testi contabili, relativi al periodo recente – ma che sembrava remoto – in cui i Bruni avevano gestito un banco a Firenze e investito grosse somme di denaro nelle assicurazioni navali da Cipro a Maiorca.

    I volumi a cui Angelo teneva di più erano però di altro genere. Si trattava di componimenti in latino e in volgare riguardanti le gesta di cavalieri, maghi e giganti. Buona parte li aveva dovuti vendere dopo il tracollo finanziario seguito al decesso di suo padre, l’arcigno messer Giannotto, quando i creditori, i banchieri e i vecchi soci in affari si erano presentati all’uscio per spolpare fino al midollo le ultime sostanze dei Bruni. Ma non appena Angelo era riuscito a tirar fuori la testa dal fango, quei libri li aveva ricomprati tutti, a uno a uno, e benché non avesse più tempo per leggerli li teneva in gran pregio, alla stregua dei portolani e delle mappe sulle rotte commerciali.

    Del resto, era fra quelle pagine di pergamena che aveva trascorso la sua giovinezza, rifugiandosi dal padre che non perdeva occasione di umiliarlo e di dargli dell’inetto.

    Ora sarete pago, pensò Angelo, infierendo sul ricordo del genitore. Sarete pago di fronte ai miei successi, che non devo né a voi né tantomeno ai vostri consigli, mentre quel che resta della vostra dimora va a catafascio fra le risa di quattro baldracche.

    Richiuso l’uscio alle sue spalle, infilò il bastone in un’anfora riposta accanto all’ingresso, tolse guarnacca, fusciacca, calzari e si lasciò cadere sul letto. Il letto più comodo del palazzo, a onor del vero. Fino a poco tempo prima era appartenuto a sua cugina Bianca e averlo tenuto per sé, insieme all’alcova in cui quella finta santerellina aveva dormito sin dall’infanzia, equivaleva per Angelo a profanare anche il suo, di ricordo.

    Al diavolo pure Bianca, rimuginò.

    Bianca la perspicace.

    Bianca la bella.

    Bianca l’assassina.

    Che il popolo e i magistrati di Firenze la pensassero come volevano. Lui la conosceva, la verità. Era stata Bianca a uccidere il suo ricco marito, messer Teofilo Capponi dell’Arte del Cambio. In un modo o nell’altro, quella vipera gli aveva conficcato un pugnale nel collo e aveva fatto passare per colpevole colui che l’aveva messa al mondo. E adesso era proprio quel babbeo del padre, messer Teodoro, a scontare la pena al posto della figlia.

    Un bussare sommesso richiamò la sua attenzione.

    «Chi è alla porta?», domandò, mentre sfilava uno stiletto da sotto il capezzale.

    «Sono io, baccàn», rispose una voce rude dall’altro lato del battente.

    «Buovo», lo riconobbe Angelo. «Vieni, fatti avanti».

    A quel comando la porta si aprì ed entrò un ligure allampanato, con due spalle appuntite che parevano forare il mantello appeso sopra di esse. I capelli erano grigi, arruffati, e il volto del colore brunito del cuoio. «Vi riverisco», chinò il capo con deferenza.

    Bruni si limitò a mettersi seduto contro lo schienale del letto. «Ebbene?», domandò mentre rigirava lo stiletto tra le dita. «Non dovevi attendermi a bordo?»

    «Avrei dovuto, sì», rispose Buovo, «ma il vostro ospite…».

    «Che c’è? Ha delle pretese?»

    «Non fa che sbraitare, baccàn», sospirò l’uomo, ripetendo con devozione quella parola – baccàn – che nel vernacolo genovese stava per patron. «Dice che non può più attendere, che partirà con o senza di voi».

    «Sciagurato d’un greco!», bofonchiò Angelo. «Invece attenderà, il nostro messer Troilo, gli piaccia oppure no. Chiudilo a chiave nel cassero, se proprio devi, e non farti impietosire se quello strilla o dà di matto. Sono io che te lo comando, e tu che sei il mio comito devi far valere la mia parola. Siamo intesi?»

    «Ma baccàn…», indugiò Buovo, che pur essendogli fedele pareva avere un suo codice morale.

    «Niente remore», lo zittì l’altro. Provava piacere nell’imporre la propria volontà a quel vecchio lupo di mare. E Buovo, dal canto suo, non osava mai contraddirlo. Non che fosse un vigliacco – anzi, si raccontavano storie terribili su di lui – ma dal primo momento in cui aveva messo piede sull’assito di una tolda si era sempre comportato con riverenza verso coloro che comandavano le navi su cui era imbarcato.

    «Niente remore», ripeté il comito, arretrando verso l’uscita.

    «E tienimelo pronto, quel disgraziato», aggiunse Angelo con una risatina che somigliava a un grugnito. «Perché fra due giorni, sul far della sera, dovrai portarlo qui da me».

    Buovo annuì, restando in attesa sulla soglia finché Bruni, dopo averlo fissato con aria interrogativa, non indovinò cosa stesse aspettando e lo congedò con un cenno dello stiletto.

    Uno stiletto che doveva essere appartenuto a Bianca, rammentò d’un tratto Angelo, mentre lo riponeva con cura sotto il capezzale.

    Forse lo stesso con cui la cugina aveva ucciso il marito.

    3

    Palazzo della Signoria

    Bianca de’ Brancacci non si sentiva affatto a suo agio in quella stanza ombrosa. Si era aspettata d’incontrare Cosimo de’ Medici in un ambiente più consono, come la sontuosa sala di rappresentanza dove l’uomo più potente di Firenze era solito ricevere gli ospiti di riguardo. Invece sua signoria aveva scelto per lei quella strana cantina arredata con scaffali zeppi di ampolle e di tomi polverosi. Una cantina in cui, a parte loro due, non c’era nessun altro.

    Meglio così, si consolò la donna, mentre cercava d’ignorare i cupi rintocchi della Vacca¹ che batteva la mezzanotte. Per lo meno avrebbe potuto sfogare il suo livore senza dar spettacolo davanti a terzi. Se fin dall’infanzia era sempre stata insensibile alle critiche, da un anno a quella parte iniziava ad averne abbastanza delle occhiate sospettose e degli immancabili brusii che risuonavano per strada al suo passaggio. Che fosse stata lei o suo padre a uccidere lo spregevole Teofilo Capponi, poco importava: il peso dell’infamia gravava comunque sui Brancacci.

    «Sono oltremodo grata», esordì con sussiego, «per essere stata ammessa alla presenza della signoria vostra».

    Cosimo de’ Medici la degnò di una rapida occhiata. Aveva appena concluso di consultare un tomo decorato con superbe illuminature e ora lo stava riponendo con cura su un’alta scansia, allungando il suo corpo lungo e secco fasciato da un lucco color porpora. «Non avrei mai potuto negarvi un’udienza, madonna», commentò. «Vostro marito era un amico, e così pure vostro zio, messer Giannotto Bruni».

    Bianca si morse la lingua. In realtà non era stato affatto semplice ottenere quell’incontro, che le era stato concesso al prezzo di umilianti settimane d’insistenze e di lungaggini burocratiche. «Due dolorose perdite», dichiarò, manifestando un cordoglio che provava soltanto nei confronti dello zio. «E tuttavia…», fece per aggiungere.

    In quel preciso istante sua signoria puntò gli occhi su di lei. Occhi ermetici, di un colore indefinito che sembrava fondersi con le ombre della stanza. Bianca si ritrovò a fissarli, dimentica per un attimo di quel che doveva dire, finché non rammentò il motivo per cui si trovava in quel luogo. «Mio padre…», aggiunse.

    «Vostro padre», le fece eco il Medici, «è segregato in una cella delle Stinche, a scontare la colpa di cui, disgraziatamente, si è macchiato uccidendo vostro marito».

    Quelle parole erano state pronunciate con tatto, eppure madonna de’ Brancacci ne colse la sottile provocazione. «Non è stato lui», obiettò a denti stretti.

    «So bene a cosa alludete», l’assecondò Cosimo in un crescendo di affabilità. «Ne avete già fatto menzione agli Otto di Balìa, mi pare».

    «Vi pare?», s’infiammò la donna. «Sono mesi che mi batto per essere ascoltata da quel collegio di magistrati e finora nessuno di loro ha espresso il benché minimo interesse per la condizione di mio padre».

    «La giustizia ha i suoi tempi», tentò di placarla.

    Ma Bianca ne aveva abbastanza di stare zitta. «È stato Tigrinus!», sibilò, infischiandosene di mancare di rispetto al signore di Firenze. «È stato quell’infame a uccidere mio marito. E mentre voi tentate di rabbonirmi, un innocente paga per un delitto che non ha commesso».

    «Davvero?», la scrutò in tralice il Medici. «Eppure, se non m’inganno, fu proprio vostro padre a dichiararsi colpevole».

    «Lo fece per difendermi», spiegò lei, mentre ritrovava il suo contegno.

    «Difendervi da cosa?»

    «Dall’accusa di aver ucciso mio marito».

    Cosimo parve quasi divertito. «Dunque messer Teodoro de’ Brancacci si sarebbe fatto carico delle accuse che pendevano su di voi?»

    «Accuse infondate», precisò Bianca. «Perché, come stavo giusto spiegando…».

    «Sì, sì», perse interesse sua signoria. «Sarebbe stato quel… Come lo chiama il volgo? Sì, sì, quel Tigrinus».

    «È stato Tigrinus!», s’impuntò la donna.

    Sul volto di Cosimo balenò un lampo d’irritazione. Come osi?, parve sul punto di sbottare. Invece sua signoria, con un’abilità nel mascherare i sentimenti degna di Proteo, abbozzò una smorfia conciliante. «Avete idea, madonna, di quanti crimini vengano attribuiti a quello scellerato?», sospirò. «Se si dovesse prestar fede a ogni voce di popolo, metà dei furti e delle rapine verificatisi negli ultimi mesi a Firenze sarebbero da imputarsi a Tigrinus. E non solo quelli, per giunta! Omicidi, truffe, misfatti d’ogni sorta… Tigrinus, sempre Tigrinus! Lo

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