Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Caravaggio saga
Caravaggio saga
Caravaggio saga
E-book1.143 pagine15 ore

Caravaggio saga

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Bestseller mondiale

3 romanzi in 1
Caravaggio Enigma • Maledizione Caravaggio • Eredità Caravaggio

Il giovane Michelangelo Merisi da Caravaggio è cresciuto come un reietto. Quando arriva a Roma, solo e senza un soldo, scopre presto che l’accecante bellezza della città nasconde anche un aspetto pericoloso e sinistro. Sotto la protezione del potente cardinale del Monte, Caravaggio inizia la sua turbolenta ascesa, intrecciando una relazione con la musa Fillide, “la più famosa puttana di Roma”. Con la gloria cresce però anche la sua arroganza, e Caravaggio si troverà a un bivio dal quale non potrà più tornare indietro. Di nuovo nella polvere, di nuovo in fuga, con una taglia sulla testa. 
In Eredità Caravaggio seguiamo la vicenda di Artemisia Gentileschi, artista prodigiosa fin da giovanissima. Quando ha solo diciassette anni, però, proprio colui che avrebbe dovuto prendersi cura di lei, il suo maestro Agostino Tassi, la stupra. Tassi viene dichiarato colpevole, ma il papa lo perdona. E la reputazione di Artemisia è rovinata. Ma lei non dimentica Caravaggio, colui che ha creduto nel suo giovane talento. E così sfida i suoi detrattori. Geniale, ma osteggiata. Ferita, ma vittoriosa.

Dall’autrice del bestseller internazionale Cospirazione Caravaggio

N°1 in classifica in Italia

«Lirica, sensuale, appassionata, violenta: una grande trilogia.»
Matteo Strukul, autore della saga I Medici

Alex Connor
è autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte, tutti bestseller. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra. Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller ai primi posti delle classifiche italiane. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. Eredità Caravaggio è il terzo romanzo di una trilogia, iniziata con Caravaggio enigma e Maledizione Caravaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2019
ISBN9788822729965
Caravaggio saga

Correlato a Caravaggio saga

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Caravaggio saga

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Caravaggio saga - Alex Connor

    2211

    Copyright © 2019 Alex Connor

    Prima edizione ebook: marzo 2019

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2996-5

    www.newtoncompton.com

    Alex Connor

    Caravaggio Enigma

    Newton Compton editori

    Indice

    Caravaggio Enigma

    Prologo

    Infanzia

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Milano. la città del peccato

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Roma

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Successi privati

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Fillide, la sgualdrina

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Successi pubblici

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Lo scandalo

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

    Capitolo quarantuno

    Capitolo quarantadue

    La caduta in disgrazia

    Capitolo quarantatré

    Capitolo quarantaquattro

    Capitolo quarantacinque

    Capitolo quarantasei

    Capitolo quarantasette

    Capitolo quarantotto

    Capitolo quarantanove

    Capitolo cinquanta

    Capitolo cinquantuno

    Bibliografia e fonti

    Maledizione Caravaggio

    Prologo

    Preda

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Napoli

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Resurrezione

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Malta

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Il declino

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Quaranta

    Quarantuno

    Quarantadue

    Quarantatré

    Quarantaquattro

    Quarantacinque

    Quarantasei

    Quarantasette

    Quarantotto

    Quarantanove

    Epilogo

    Fonti

    Eredità Caravaggio

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Nota dell’autrice

    Nota del traduttore

    Bibliografia

    Prologo

    Silenzio…

    Non sento niente. Il colpo alla testa mi ha assordato. Passerà, lo so, ma per adesso riesco soltanto a sentire il battito del mio cuore… Aspetta… Guarda.

    Un movimento. Ne percepisco la vibrazione, la terra trema, e rotolo via mentre il cavallo si lancia alla carica. Uno zoccolo mi urta il piede, lacera il cuoio dello stivale e colpisce la caviglia. Non so se sto urlando, non riesco a sentirmi, barcollo per alzarmi, trascino la gamba mentre un altro cavallo galoppa verso di me, con il cavaliere che fa affondare la spada.

    E va a vuoto.

    Stavolta.

    Sto sanguinando, correndo, sanguinando. Nei vicoli, oltre la taverna del Turco, supero la fontana in cui si lavano le sgualdrine. Conosco queste strade, segni col gesso sulle pareti. Una lanterna rotta accanto alla bottega del barbiere… Corri, Caravaggio, corri…

    I suoni stanno tornando, assordanti, sanguina anche il braccio, e i piedi battono a ritmo con lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli.

    Quando sfilo il coltello dalla camicia, so che si può essere incarcerati per il possesso di un pugnale. Silenzio, i cavalli si sono fermati, uno si muove, l’altro si profila in fondo al vicolo, il cavaliere si guarda attorno dalla sella. Non sa in quale direzione siamo andati. Eravamo in tre, ma Orazio è stato messo all’angolo a piazza Navona, con la spada sollevata e gli occhi da cane randagio, mentre Longhi è fuggito. Il cavallo si sta spazientendo, sbuffa, si vuole divertire, e io sento un respiro.

    Non del cavallo, non del cavaliere.

    Sopra di me.

    C’è un uomo accovacciato sopra il portico.

    Si sporge, fa affondare la spada, ma gli afferro il braccio e lo strattono giù dal suo trespolo. Cade sulla schiena, senza fiato, il braccio armato che si dimena come la coda di un pesce catturato. E io, zoppicando sulla caviglia rotta, gli conficco il pugnale nella spalla.

    Si accende una luce, in strada non ci sono che colori smorzati.

    Potrei dipingere la scena.

    Sangue, vomito, l’uomo disteso sulla schiena sta urlando, e io mi volto con il sangue che mi cola sul viso, perché sento riavvicinarsi cavallo e cavaliere.

    «Fatti avanti, bastardo, sei in vantaggio. Guarda cosa mi ha fatto quel tuo maledetto cavallo». Mi indico la gamba, il cavaliere abbassa lo sguardo.

    Tutto in un istante.

    È semplice.

    Il milanese sa combattere.

    Schivo il cavallo alla carica, piroetto sui calcagni come un ballerino e sollevo la spada. Siamo foga e suono; urlanti, insanguinati, feriti, il cavaliere che cade, gli occhi del cavallo che mettono in mostra il bianco, in preda al terrore. Si impenna, svetta sopra di me, imponente, la pancia esposta, mentre il padrone scivola a terra dal fianco dell’animale.

    «Ssst…». Mi rivolgo al cavallo. «Ssst…».

    L’animale si calma, mi osserva mentre porto un dito davanti alla bocca.

    «Ssst…».

    Poi mi allontano, barcollo, zoppicando come un accattone fino al vicolo successivo.

    INFANZIA

    Caravaggio, Lombardia

    Comincerò da quando avevo cinque anni. Sì, cinque. Poco più di un bambino. A prescindere da tutto quello che è stato scritto su di me, da ciò che si pensa, a quei tempi facevo parte di una famiglia, con una madre, un padre, un nonno, fratelli e sorelle. Imparai presto a leggere e a scrivere; non eravamo contadini e godevamo della protezione del marchese Francesco i Sforza di Caravaggio, sposato a una donna della potente famiglia Colonna. Mio padre, Fermo Merisi, lavorava alle sue dipendenze. Come ho già detto, non eravamo contadini. Di umili origini, neanche tanto poi, ma con i contatti giusti. Facciamo chiarezza fin dal principio, non ero uno zotico di campagna, checché ne abbiano detto.

    Correvo insieme ai miei fratelli, mi prendevano in giro perché ero un tenero piccolo toro. Con la corporatura robusta, gli occhi neri, sempre a inseguire gli animali nei campi e a scalare il muro del panettiere. Quell’estate faceva caldissimo, i grilli chiacchieravano nell’erba alta. Vicino a casa nostra c’era uno stagno dove nuotavamo nudi, finché un pomeriggio non rimasi impigliato nei giunchi e rischiai di annegare. Mio fratello mi riportò a casa, inerme tra le sue braccia, e mi finsi morto per godermi le premure di mia madre. In quei pochi istanti ricevetti tutta la sua attenzione; si addolorò, pianse per il figlio perduto, e io tenni le palpebre chiuse mentre la sentivo gemere in preda allo sconforto. Quando aprii gli occhi e risi, non comprese l’umorismo del mio scherzo. Anzi, mi sgridò, e io corsi fuori di casa, nel campo.

    Ma lì mi fermai di colpo, perché era cambiato qualcosa. I grilli erano scomparsi, c’era un silenzio fitto e assoluto, e il cielo era diventato di un color porpora velenoso che oscurava il sole.

    Per il resto della mia vita, mia madre continuò a ripetere che quella morte infantile era stata una premonizione, facendomi gravare sulle spalle un senso di colpa che non mi ha mai abbandonato. Vedete, quella notte a Milano arrivò la peste, e io credetti – e forse lo pensavano anche loro – di esserne la causa. La mia famiglia era religiosa, superstiziosa, le mie azioni erano una tragedia premeditata. Basta arrampicarsi sul tetto del panettiere, basta stare a guardare mio padre, scalpellino, mentre sudava sopra i blocchi di pietra, basta sdraiarsi sotto le stelle ad aspettare l’arrivo di una luna estiva. Avevo solo cinque anni e la morte che avevo inscenato era diventata realtà.

    Quell’estate imparai una lezione sulla morte.

    Uno

    Datemi un bambino nei primi sette anni di vita e io vi mostrerò l’uomo.

    (Dottrina gesuita)

    Milano, 1576

    Quando a Milano tornò la peste, il cielo era fitto di mosche. Sopra una densa cortina di nubi, un sole malsano si lagnava dall’alto mentre la città sottostante brulicava di ratti. Gli stessi roditori che portavano le pulci, colpevoli della pestilenza. La malattia si era diffusa in modo esponenziale nel giro di pochi giorni: alcuni parlavano di una maledizione, dell’indescrivibile tortura dei corpi con le emorragie interne, gonfi di pus; altri accusavano gli ebrei di Venezia, che avevano venduto merci d’importazione. Un altro pettegolezzo parlava degli untori, spagnoli che avevano diffuso il morbo contaminando mura e androni. Furono accusati persino i turchi che occupavano l’Ungheria. E la Chiesa? I sacerdoti dicevano ai fedeli che la peste era una sentenza, una punizione di sangue. Cercarono di calmare le loro comunità; forse la malattia sarebbe passata in fretta, forse non si sarebbe rivelata letale come in passato.

    Nella prima settimana, la famiglia Merisi fu risparmiata. Nel calore stordente, i vicini cominciarono a contrarre il morbo uno dopo l’altro, e le porte delle loro case furono bloccate dall’esterno per evitare che uscissero. La famiglia Merisi, invece, poteva ancora andare e venire a piacimento, e Lucia Merisi, pia e nervosa, pregava incessantemente e andava a fare visita alle chiese e alle croci della peste che avevano cominciato a fare la loro comparsa.

    «Entra, Michele», lo ammonì sua madre, prendendolo per un braccio. «Non toccare niente, non toccare le pareti, stammi vicino». Girarono alla larga da un mucchio di sporcizia marcescente in mezzo alla strada, un topo sgattaiolò in un vicolo. «Rimetti il panno davanti alla bocca».

    Lui ubbidì e le corse dietro per tenere il passo.

    Donna sempre devota, si consolava dicendosi che Dio avrebbe risparmiato la sua famiglia. E per un po’, Lui la esaudì. Ma Milano era in tumulto persino prima che la peste colpisse. Governata dagli spagnoli, la città era vicinissima alla Francia, la rivale europea della Spagna, allora in preda alle guerre di religione. Con una guarnigione di ottocento soldati, la Spagna controllava Milano con la violenza e l’intimidazione, e il cardinale dal naso aquilino, Carlo Borromeo, aveva un suo esercito personale. Gli austeri tentativi di tenere sotto controllo la moralità milanese condussero a un attentato fallito, e il suo proibizionismo draconiano portò i cittadini ad accusarlo di aver messo Dio contro Milano, soprattutto dopo una serie di raccolti guastati e di carestie. Fu in questo scenario, in un tale ribollire di risentimento, che attecchì la pestilenza.

    Sentendo la presa di sua madre sul braccio, Michele sollevò lo sguardo. Stava fissando un punto di fronte a sé e stringeva il rosario, il viso ovale pallido come un cammeo in contrasto con i capelli scuri. Riusciva a percepire il rimprovero insito nella stretta; non aveva detto niente, nessuna parola severa, c’era stato solo un terribile cambiamento. Non lo guardò dritto in faccia, non l’aveva più fatto dall’incidente dello stagno, teneva gli occhi lontani da lui. Era diventata diffidente, il gesto lo dava chiaramente a intendere, e il bambino di cinque anni avvertì un lento e terrificante declino d’amore.

    Il loro incedere fu subito interrotto da un sacerdote, e Lucia piegò la testa, con la mano ancora stretta attorno al braccio di Michele. «Stiamo andando in chiesa, padre».

    Lui annuì, cereo ed esausto, costretto in un ruolo da cui desiderava fuggire. Ma se Borromeo in persona restava in città e andava a fare visita alle vittime della peste, come poteva lui ritrarsi dai suoi doveri? Specie quando il cardinale aveva dato istruzione a tutti i sacerdoti di dare la comunione ai malati e ai moribondi.

    «Venite a messa?», domandò padre Stefano.

    Lucia annuì mentre il prete lanciava un’occhiata al bambino al suo fianco. Rammentava l’ultima confessione della donna; le labbra quasi premute contro la griglia del confessionale, spaventata all’idea di essere udita dagli altri fedeli. Aveva cercato di parlare più di una volta, ma le parole le erano venute a mancare, e lui l’aveva incitata.

    «Prenditi il tempo che ti serve, figlia mia».

    «Si tratta di Michele», aveva detto alla fine. «Sono preoccupata per lui».

    La pausa, il fruscio sulla panca di legno, le labbra riaccostate alla griglia. «Possibile che Dio punisca un bambino?».

    Un attimo di sorpresa. «Cos’ha combinato?»

    «Michele ha fatto finta di essere morto, di essere annegato. Per un momento, era morto davvero. Dico sul serio, padre. Poi si è ripreso, si è messo a ridere ed è uscito di corsa nei campi».

    «È stato uno scherzo infantile…».

    «No», aveva insistito lei, «se n’era andato, e poi è tornato indietro… e quella notte è arrivata la peste».

    Il sacerdote aveva provato a consolarla, a dirle che non era successo niente, ma lei aveva dissentito. Michele aveva avuto una premonizione, insisteva. Si era preso gioco di Dio.

    «È un bambino, non aveva intenzione di fare alcunché», aveva replicato il prete. «Non si può ritenere responsabile di ciò che sta accadendo».

    Sapeva che non gli aveva creduto e che si era arrabbiata, che la paura tramutava gli incidenti inoffensivi in presagi. Non aveva forse sentito parlare di famiglie che si azzuffavano tra loro, abbandonando i malati? Persino i bambini. Quando venivano chiamate a risponderne, le madri negavano di aver sacrificato la prole. No, quello non è mio figlio. Non lo conosco.

    La follia era nell’aria, penetrava le mura dalle quali erano circondati e la mente delle persone timorose.

    «Non potete lasciare la città e andare in campagna?», aveva chiesto. I ricchi erano già partiti, e anche se i Merisi non erano abbienti, avevano contatti influenti. «Se potete, partite. Se avete qualcuno che vi possa dare una mano, chiedetegli di portare via la vostra famiglia e aspettate che il peggio sia passato».

    Ma le offerte d’aiuto non erano arrivate e loro erano ancora in città. La peste si diffondeva giorno dopo giorno, e le possibilità di sopravvivenza si riducevano ogni ora. Le case dei contaminati erano già state barricate dall’esterno per mantenere confinato il contagio e i senzatetto erano stati rinchiusi nel famigerato lazzaretto, l’imponente edificio circondato da un fossato che era stato eretto durante una precedente epidemia di peste. I defunti venivano ammucchiati all’interno delle sue mura oscure, in attesa di essere raccolti dagli odiati monatti, coloro che raccoglievano i corpi. Il lazzaretto era un posto per cadaveri, dove ogni rivolta finiva sedata a suon di frustate, dove i monatti lavoravano in branco, azzardandosi a contravvenire agli ordini del cardinale pur di mettere le mani sui beni di valore dei defunti.

    Con il trascinarsi dei giorni, alcuni cittadini imprigionati nelle loro case impazzirono, vedendo perire uno dopo l’altro i membri delle rispettive famiglie. Alcuni morirono di fame, perché nessuno portava loro da mangiare; altri, in preda alla disperazione, si tagliarono i polsi o la gola; chi era immune alla malattia urlava e scuoteva le porte barricate, supplicando di essere liberato.

    E mentre le loro grida riecheggiavano per le strade, i medici della peste, con le maschere a becco d’uccello riempite di mazzetti d’erbe, si occupavano dei moribondi. Mascherate e irriconoscibili, le figure con le toghe nere si muovevano come un coro di demoni, aggirando i mucchi di rifiuti sulle strade. Si sparse la voce che non tutti i medici fossero degni di fiducia; non erano ciò che sembravano. Un uomo, in chiesa, giurò di aver strappato via la maschera da uccello dalla faccia di uno di loro, e di averci trovato non un viso, ma solamente un teschio. La paura crescente generò altra follia, il bisogno di un capro espiatorio, di un mangiatore di peccati che allontanasse la peste da Milano.

    Nelle case con i battenti chiusi, le famiglie pregavano rannicchiate negli angoli mentre gli editti proibivano di abbandonare la città. Imprigionate, confinate, mentre la peste serrava la sua presa letale, i sintomi inconfondibili. Febbre, vomito, diarrea e il marchio della morte, i bubboni, e i corpi delle vittime sanguinavano dall’interno all’altezza di collo, inguine e ascelle, stillando sangue e pus. Al momento del trapasso, i cadaveri erano cosparsi di chiazze nere e viola di tessuto imputridito. Il cielo aveva perso la sua tonalità azzurra e si tingeva di una cupa sfumatura violacea persino prima che calasse la notte. Imitava il livore dei defunti, con le nuvole che lo imbrattavano di nero, e l’empio cicaleccio di grida e preghiere si riduceva al silenzio mano a mano che morti e moribondi si contendevano un po’ di spazio. In strada, la gente cadeva mentre camminava, c’erano cadaveri ammassati negli angoli, e i tanto odiati monatti continuavano ad arrivare e a reclamare le vittime.

    Solo i criminali, i ladri, gli assassini e gli stupratori accettavano il lavoro più pericoloso, per denaro, e ricevevano un compenso per ogni cadavere raccolto. Un bottino di sangue. Ne valeva la pena. Se avessero contratto la peste, sarebbero morti. In caso contrario, sarebbero diventati ricchi… Maneggiavano i corpi che ancora trasudavano pus con le mani protette dai guanti. Spostavano bambini, anziani, persone che fino a pochi giorni prima godevano di buona salute. Mercanti e scalpellini, mogli o meretrici, cosa importava alla peste di quale fosse la loro estrazione sociale?

    Arrivavano di notte, con i carretti che arrancavano nei vicoli angusti; udibili molto prima di essere visti. Spesso ubriachi, violentavano le donne in punto di morte che non si potevano difendere ed esigevano pagamenti dalle famiglie disperate per evitare di portare via anche i vivi. I poveri che non avevano soldi vedevano i familiari caricati di peso sui carri insieme ai morti, e chi respirava ancora scompariva sotto una pila crescente di cadaveri.

    La conta delle vittime continuava a salire.

    A Milano, in quella terribile estate, c’era un’afa insolita. I ratti impazzirono a causa del caldo e le pulci saltarono via dai loro corpi morenti per cercarsi un’altra casa. Un cane di passaggio, un medico mascherato, un sacerdote che andava di fretta, non aveva importanza, la peste si diffondeva a ogni movimento. E in quel malsano calderone fumante, la gente cercava qualcuno da incolpare.

    Persino un bambino.

    «Lasciate la città, scappate al sicuro, è la vostra unica speranza», ripeté padre Stefano, lanciando un’occhiata al ragazzino accanto a sua madre. Occhi scuri, aria di sfida, non era il bambino che ricordava di aver visto solo poche settimane prima.

    «Non dare la colpa al bambino».

    Ma l’aveva già fatto. E suo figlio lo sapeva.

    Due

    Dopo aver atteso che i familiari si fossero addormentati, Michele strisciò giù dal letto e si fermò a vedere se avesse svegliato i fratelli. Una volta sicuro che non si fossero mossi, scese al piano di sotto, aprì la porta e scivolò in strada. Il prete aveva ragione, era cambiato. Non era più il figlio adorato, era evidente sia dalle occhiate del fratello che dal riserbo di sua madre. Solo il rapporto con suo padre era rimasto invariato, ma Fermo Merisi non era un uomo perspicace. Buono, ma emotivamente ottuso, incapace di percepire il cambiamento, l’allontanamento tra il figlio di cinque anni e il resto della famiglia. Inoltre, era troppo preso dai propri pensieri, concentrato sulla preoccupazione di portare via la famiglia dalla città. Le persone, persino i genitori, sottovalutano le afflizioni di un bambino. Fermo non era crudele, ma non riusciva a capire che all’interno del suo nucleo familiare ci fosse un ragazzino sofferente.

    Abbastanza piccolo e agile da sgusciare via da ogni guaio, Michele si allontanò in fretta verso un vicolo, poi si arrampicò su un tetto non troppo alto, si distese a pancia in giù e osservò la strada sottostante. Prima aveva pianto con il viso affondato nel cuscino e la bocca chiusa, tenendosi dentro i singhiozzi. I fratelli, un tempo alleati e adesso rivali, dormivano tranquilli accanto a lui, ma quando li aveva guardati in faccia era riuscito a immaginarli morti. E sarebbe stata colpa sua. Era stato lui a portare la malattia.

    Non l’aveva forse sentito dire a sua madre quando aveva parlato con il prete? Non aveva forse visto gli sguardi accusatori che gli lanciava la gente? Ecco il ragazzino, ecco il colpevole… Era lui la causa di ogni morte, la sofferenza degli estranei era colpa sua, e la peste avrebbe potuto colpire la sua famiglia da un momento all’altro. O magari sua madre lo avrebbe abbandonato? L’avrebbe lasciato indietro se mai fossero riusciti a fuggire dalla città.

    In cima al tetto, Michele afferrò una manciata di rena e polvere, strinse con forza i pugni e si sfregò il viso con i palmi insanguinati. Provò un senso di disperazione che gli fece sussultare il cuore, una fitta di solitudine, il presentimento di un’altra tragedia. Riaffiorò un ricordo, avvertì il gelo dell’acqua dello stagno, i lunghi giunchi che gli agguantavano le gambe, i polmoni che si riempivano, il panico che lo faceva sudare. Sarebbe stato meglio se fosse annegato davvero… Dal basso giunse un rumore, fu l’istinto ad avvertirlo, e Michele sbirciò giù sentendo il carro in avvicinamento.

    Stavano arrivando i monatti.

    Solo pochi giorni prima sarebbe scappato da sua madre in cerca di riparo; solo pochi giorni prima non avrebbe mai lasciato casa sua. Ma quei giorni erano finiti, ed era spaventato e affascinato allo stesso tempo. Trattenendo il fiato, Michele attese il loro arrivo. Ne vide dapprima le ombre, spiriti neri come la notte, distorti, sagome animalesche sui muri, poi li sentì entrare nel vicolo e ne osservò i volti illuminati dalle torce accese. Il bagliore rischiarava la superficie piatta di guance e fronti, le ombre si scurivano sotto i menti. Non erano volti familiari delle zone rurali della Lombardia; non erano volti di uomini che coltivavano i campi e raccoglievano i meloni. Erano visi rozzi, profondamente scavati, con le teste rasate e i denti rotti. Visi crudeli, con occhi spenti e subdoli, con arti grossi e sgraziati.

    Michele li osservò dalla sua posizione sopraelevata. Aveva sentito le voci che giravano, sapeva quanto fossero temuti. Erano uomini malvagi ai quali i preti rifiutavano di dare la comunione. Più odiati della peste stessa. E li odiava anche lui, con tutto il suo cuore da bambino. Si chiese perché non dessero a loro la colpa della pestilenza, perché avessero scampato il castigo mentre lui stava soffrendo. Mentre sbirciava dal bordo del tetto, vide uno dei monatti aprire la patta dei calzoni e pisciare contro il muro, proprio sotto il suo nascondiglio. Sentì il fiotto e poi il gocciolio dell’urina, persino l’odore mentre il rigagnolo giallo defluiva nel vicolo.

    Distolse lo sguardo dagli uomini e lo posò sul carro, su un cadavere disteso a gambe divaricate, con un braccio piegato sotto il corpo. Non aveva mai visto un uomo morto: gli arti anneriti, il viso contorto, gli occhi chiusi sopra la bocca aperta, come un supplice che invocava il paradiso. Stava pregando? Era morto mentre pregava? In tal caso, Dio non l’aveva sentito. Forse Dio non aveva udito neanche le sue preghiere. Michele si rimproverò, Dio lo aveva sentito eccome, doveva avergli prestato ascolto, perché nessun membro della sua famiglia si era ammalato.

    Mentre fissava il cadavere, i monatti fermarono il carro e cominciarono a tempestare di pugni una porta che affacciava sul vicolo.

    «Aprite, cazzo! Sappiamo che dentro c’è un corpo!». Urlarono ancora per reclamare il cadavere. «Sappiamo che dentro c’è un corpo!». E la porta si socchiuse di un centimetro appena, ma fu sufficiente.

    Con una spallata, gli uomini si fecero strada all’interno, poi trascinarono fuori il corpo floscio di una ragazzina. Indossava una camicia da notte, simile a quella della madre di Michele, ma il tessuto era irrigidito dal sangue secco e, quando la gettarono sul carro, sventolò come la vela di una nave. Atterrò sopra l’uomo morto, la testa si piegò di lato e le dita della mano sinistra si incurvarono verso il palmo. Michele fissò la scena nella luce tremolante delle torce. I cadaveri, rigidi come statue, gli ricordarono i tableaux vivants religiosi che aveva visto a Milano. Quadri viventi, ma non vivi. Reali, ma surreali. Macabri.

    I monatti sbatterono la porta in faccia ai familiari della ragazzina morta, poi sollevarono le impugnature del carro e cominciarono a spingerlo. Michele sgattaiolò sul tetto per seguirli. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla bambina. Aveva all’incirca la sua età, e lo commuoveva. Anche quella morte era colpa sua? Era stato lui a uccidere quella ragazzina? Si affrettò, non voleva perderla di vista, ma si fermò alla fine del tetto. Non poteva proseguire. Sopraffatto dalla rabbia e dalla frustrazione, si chinò e afferrò manciate di rena e ghiaia.

    Quando lanciò il primo pugnetto di sassolini, i monatti stavano uscendo dal vicolo. Il tiro andò perlopiù a vuoto, ma un uomo fu colpito alla spalla e si voltò, poi guardò su. Michele non si stava più nascondendo; quando lanciò la seconda manciata di ghiaia, si era alzato in piedi con aria di sfida. Se lo avessero inseguito, sapeva che sarebbe riuscito a seminarli, e la rabbia era più grande della paura. Facendo gesti osceni, il bambino di cinque anni li canzonò e imprecò come aveva sentito imprecare i contadini lombardi, poi gli sputò addosso dalla sommità del tetto.

    Profilandosi contro una luna malsana, agitò le braccia e lanciò grida isteriche, provocatorie, danzando come un pazzo e chiedendo a qualunque Dio si fosse messo in ascolto di punirlo.

    Tre

    Avevano in programma di lasciare Milano il giorno seguente, perché Costanza Colonna, moglie del potente marchese Francesco i Sforza, aveva usato la propria influenza. Alle prime ore del mattino, poco prima dell’alba, la famiglia si mise in attesa. La sera prima, Fermo aveva ricevuto notizia che sarebbero stati scortati di nascosto fuori città e si era assicurato che gli effetti personali fossero stati radunati e che la famiglia fosse pronta. Sapeva quale rischio avrebbero corso se fossero stati sorpresi a infrangere gli editti e il coprifuoco, perciò rimase seduto in silenzio, nervoso, con gli occhi incollati sulla porta.

    Sul tavolo in cucina ardeva una candela, che emanava poca luce; le finestre erano sbarrate e il calore rendeva irrequieti i bambini più piccoli. Persino Giovan Battista, il fratello minore di Michele, il bimbo tranquillo destinato alla carriera ecclesiastica, era insofferente. Impaziente, dopo aver fatto cenno ai figli di stare buoni, Fermo riportò lo sguardo sulla porta. Sua moglie Lucia sedeva al suo fianco, la testa chinata come se stesse pregando, mentre Michele se ne stava lontano dagli altri, nell’ombra. Passarono i minuti, l’orologio di una chiesa batté l’ora, ma non arrivò nessuno.

    «Sicuro che verranno a prenderci?».

    Fermo lanciò un’occhiata alla moglie e annuì. «Sì, verranno».

    Aveva smesso di pregare e giocherellava irrequieta con il laccio di cuoio di un borsone. «Presto arriverà l’alba…».

    «Verranno», la rassicurò lui. «Verranno. Costanza Colonna ha dato la sua parola».

    Tornarono a fare silenzio, e Michele li osservò dalle ombre. Al buio si sentiva al sicuro, nessuno poteva vederlo, e si era tenuto vicino alla porta per essere certo che lo portassero via con loro. Con la gola secca e la lingua impastata dall’agitazione, immaginava che i familiari se ne andassero e poi, all’ultimo momento, lo spingessero dentro casa e chiudessero la porta. Abbandonandolo, come la ragazzina morta che aveva visto la notte prima. Essere lasciato lì sarebbe stato il suo castigo. Il bambino sventurato, il bambino che aveva portato la peste.

    Alzò gli occhi sull’alta finestra sbarrata sopra di loro; di lì a poco, l’alba avrebbe fatto filtrare un sottile raggio di luce nella stanza, una striscia di chiarore sul pavimento… All’improvviso, uno dei suoi fratelli si agitò nel sonno, si lamentò, la testa appoggiata sulle braccia, accasciato sul tavolo.

    «Ssst», lo calmò Lucia, accarezzandogli i capelli. «Ssst».

    Nel bagliore della candela, Michele riuscì a scorgere la mano che tremava, le dita illuminate, il palmo nero. Nero come la pelle degli appestati… Ma sua madre non era malata, si rassicurò, nessun familiare era malato. Sarebbero scappati, sarebbero tornati in campagna, dai coltivatori di meloni, negli ampi campi aperti. Si sarebbe di nuovo arrampicato sul tetto del panettiere…

    Un rumore all’esterno spinse Fermo a balzare in piedi. Un raspare alla porta, poi una sorta di miagolio.

    «Non sono loro! Non aprite la porta», sussurrò.

    Si sentiva ancora raspare, il miagolio si tramutò in un gemito. All’interno, nessuno si mosse. Ogni notte, da quando era scoppiata l’epidemia, qualche moribondo girovagava per le strade e implorava di essere fatto entrare per evitare le guardie di pattuglia. Persone malate che erano state portate via dalle loro case, dalle loro famiglie. Infette e pericolose, si erano come inselvatichite; attente ai rumori del carro dei monatti in arrivo, si acquattavano contro i muri e negli androni. Si nascondevano nell’oscurità.

    Michele le aveva sentite parecchie volte; lo avevano svegliato, e lui si era tirato il lenzuolo fin sopra la testa e aveva cercato di attutire il rumore, ma quando si era riaddormentato, gli avevano fatto visita nei sogni, tetre figure che si profilavano fuori dalle tenebre e incombevano sopra di lui mentre l’acciottolio del carro dei monatti riecheggiava alle loro spalle.

    L’orologio della chiesa rintoccò di nuovo; era passata un’altra ora e l’alba era imminente. Dalla postura di suo padre, proteso in avanti sulla sedia, intuiva quanto fosse ansioso. Il viso era calmo, ma corrucciato attorno alla bocca, perché si stava sforzando di tenere a bada la paura. Se non fossero giunti a salvarli, presto sarebbe stato troppo tardi; sarebbero stati costretti a restare a Milano. A morire a Milano, con le campane della chiesa che ogni ora suonavano a morto, pubblici proclami che annunciavano la conta crescente delle vittime.

    Il raspare si era interrotto. Chiunque avesse cercato di entrare aveva tirato dritto. O stava aspettando là fuori? Con la bocca asciutta, Fermo fissò la porta con il chiavistello tirato. Forse era una trappola. Sospettavano che i Merisi stessero cercando di scappare e volevano denunciarli alle autorità?

    «Presto arriverà l’alba…».

    Fermo interruppe la moglie a metà frase. «Fai silenzio! Verranno».

    Lei si coprì la testa con uno scialle e strinse il pugno destro, con il rosario che oscillava come il cappio di un impiccato. Aveva esaminato quotidianamente i bambini in cerca dei sintomi del morbo, di tracce dei bubboni. Quando Michele si era rifiutato di mangiare, lei era andata nel panico, e quando Fermo aveva lamentato un senso di nausea, il terrore aveva preso il sopravvento. «È solo colpa del cibo», l’aveva rassicurata il marito. «L’olio è troppo pesante, tutto qua…». Ma si era coricata accanto a lui e aveva osservato ogni respiro, dentro e fuori, temendo i primi accenni della malattia.

    «Ascoltate», disse Fermo all’improvviso. «Sono arrivati».

    Qualcuno bussò alla porta. Con forza, senza timidezza, senza timore.

    Fermo si alzò e si accostò allo stipite di legno. «Chi è là?»

    «Siamo stati mandati dalla marchesa Costanza Colonna per scortarvi fuori città».

    Fermo si affrettò ad aprire per trovarsi di fronte a due uomini con le lanterne, che indicarono alla famiglia di seguirli. Michele, seduto accanto alla porta, fu il primo a uscire. Sgattaiolò accanto a suo padre e fu fatto salire su una carrozza aperta, seguito dai fratelli, mentre Lucia montava a bordo. Dopo aver gettato i bagagli sul retro, Fermo prese posto accanto al conducente, e l’altro uomo lo incitò a partire.

    «Fai in fretta! Non abbiamo molto tempo. Svelto».

    Fermo si era a malapena seduto quando la carrozza cominciò a muoversi, con gli zoccoli dei cavalli avvolti nei panni per ridurre al minimo il rumore sulla strada e il cocchiere diretto verso il vicolo che conduceva a una delle arterie principali tramite le quali cui si usciva da Milano. Accoccolata insieme ai bambini, Lucia era pallida. Quando i cavalli presero velocità, Michele si aggrappò alla giacca di suo padre.

    L’alba stava sorgendo all’orizzonte e stava cominciando la sua pigra ascesa sopra i tetti delle case e le guglie delle chiese. I corpi che non erano ancora stati reclamati giacevano per strada, i ratti banchettavano con la carne morta, e la grottesca figura mascherata di un medico della peste si fermò a guardarli passare. Ormai non c’era niente che potesse fermarli. Anche se fossero stati denunciati, le autorità non sarebbero riuscite a reagire per tempo.

    Aggrappato alla giacca del padre, Michele sentiva il carro vibrare sotto di sé, le ruote che giravano, il rumore attutito degli zoccoli dei cavalli che lasciavano le strade milanesi. La notte stava cominciando a rimboccarsi come una manica, l’alba stava imprimendo la sua impronta, e la città lasciò il posto agli alberi, alle fattorie e alle colline lombarde. Quando sentì che le ruote della carrozza abbandonavano il duro selciato di Milano per affondare sul morbido terreno della campagna lombarda, Michele si addormentò.

    Ricordo la paura. Ricordo il sollievo.

    Ma il ragazzino che aveva vissuto a Caravaggio era scomparso. Ero scappato con il corpo, ma non con la mente. Ogni volta che chiudevo gli occhi, rivedevo i cadaveri. E sentivo il carro dei monatti; quel rumore mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Persino a giorni di distanza dalla nostra fuga, non riuscivo a togliermi la puzza dal naso o il sapore della malattia dalla bocca.

    Una volta mi ero strofinato le gengive con talmente tanta forza da farle sanguinare. Mia madre, malgrado continuasse a non guardarmi negli occhi, mi consolò e mi diede un po’ di acqua salata da tenere in bocca per alleviare il dolore. Provò addirittura a insegnarmi a fare i gargarismi, ma io deglutii, mi strozzai e sputai l’acqua, ridendo per la prima volta dopo settimane. Quando mi sfiorò i capelli, mi sentii attraversare da un fremito di speranza. E nutrii la folle e assurda convinzione che ci fossimo salvati. Che io fossi salvo.

    Avevo pregato, capite. Avevo pregato moltissimo. Ero andato in chiesa con mia madre, avevo osservato i santi e il Cristo in croce che incombevano su noi e avevo pregato come solo un bambino sa pregare. Con timore, implorando e supplicando, chiedendo sempre di ricevere un po’ di sollievo. Per essere sollevato da ogni colpa.

    E Lui mi aveva sentito. La colpa non mi abbandonava mai, ma Lui aveva risparmiato la mia famiglia. E amavo quel Dio. Lo amavo, lo pregavo con gratitudine fino a sentirmi debole, con le mani tremanti, mentre mio padre mi passava una candela accesa in onore di quel Dio salvifico. La chiamano estasi. Sì, adesso lo so. Be’, a quei tempi anch’io ero animato dal fervore religioso. Mi consacrai a quel Dio pieno di grazia, sarei diventato prete, come il mio buon fratello, e avrei passato la mia vita a servirlo.

    Dicevo sul serio, allora.

    Avevo cinque anni. Ero al sicuro, o almeno così pensavo. Ma gli incubi cominciarono pochi giorni dopo la nostra fuga. Erano sempre uguali. Nei sogni, tornavo sempre allo stagno. Allo stagno che un tempo mi era parso tanto allettante. E sognavo i giunchi che mi annegavano, la morsa delle alghe umide e l’acqua scura che mi trascinava nell’oscurità. Con i polmoni sul punto di esplodere, sollevavo lo sguardo dalle tenebre di quelle gelide profondità e vedevo una luce sopra di me; sempre al di là della mia portata.

    Mi svegliavo prima di affogare. Non poteva essere altrimenti. Si dice che se si muore nei sogni, si muore anche nella realtà… Non parlai con nessuno degli incubi, non osavo farlo. Conoscevo il loro significato. Magari mi illudevo, ma lo conoscevo. Quanto può essere saggio, o scaltro, un bambino.

    Il senso di colpa non si affievoliva, ma pulsava come un chiodo conficcato nel cuore.

    Quattro

    Ottobre 1577

    I frutti della terra, per quanto non fossero abbondanti come gli anni precedenti, furono finalmente raccolti e, ormai in autunno, i contadini si davano da fare con gli innesti. Il calore accecante dell’estate aveva finalmente perso mordente, l’aria era mite, le nubi cariche, i lunghi campi immersi nella quiete. I cieli lividi che incombevano sopra Milano sembravano distanti dalla cittadina di Caravaggio, e le rigogliose pianure lombarde furono un balsamo per la famiglia Merisi. Poco a poco, il nervosismo di Lucia si placò. La fossa piena di cenere dove Fermo aveva bruciato gli abiti e gli effetti personali che si erano portati dietro da Milano era stata ricoperta, ma i ricordi erano sepolti solo in parte.

    In città, il contagio aveva allentato la propria presa. Molti credevano che fosse una risposta diretta all’appello rivolto dall’arcivescovo Borromeo a san Sebastiano e alla pubblica promessa di ricostruire la chiesa del santo in cambio della fine della pestilenza. Dopo una tregua temporanea, però, la peste era improvvisamente tornata a serrare il suo pugno letale.

    Le notizie erano giunte fino a Caravaggio.

    «Ma noi siamo al sicuro. Dimmi che siamo al sicuro!», supplicò Lucia, rivolgendosi al marito. «L’abbiamo scampata, vero?».

    Fermo la rassicurò. «Stai calma, Lucia, qua la peste non può raggiungerci».

    «Come fai a saperlo?»

    «Perché lo so!».

    Mise in dubbio le sue parole, cosa che in genere non faceva mai. «Come fai a esserne così sicuro?». Gli afferrò un braccio e lo costrinse a voltarsi verso di lei. «Qua abbiamo quattro bambini, e tuo padre e tuo fratello. Fermo, non potrei sopravvivere se ti succedesse qualcosa…».

    «Non mi succederà niente!», le disse lui, ma la voce tradiva incertezza. «Alla nostra famiglia non succederà niente. Siamo scappati, ci siamo lasciati la peste alle spalle».

    Lei lo guardò con aria implorante. «A meno che non ce la siamo portata dietro».

    «Perché dici certe cose?», sbottò lui, dandole le spalle e allontanandosi in cortile. Furioso, diede un calcio a una gallina che stava razzolando tra la ghiaia, e il volatile starnazzò e sgambettò per togliersi di mezzo.

    Lucia corse dietro al marito. «L’abbiamo portata qua con noi, riesco a percepirla…».

    «Dici cose senza senso!», gridò Fermo. «Perché dovrebbe seguirci fin qui?».

    Un venticello si levò dal campo in direzione della casa, sollevando la polvere nella sua scia. Nel tepore della giornata autunnale c’era un accenno di gelo, una punta nascosta di freddo.

    «A causa di Michele».

    Fermo arrestò il passo e si voltò a guardare la moglie. «Questa storia deve finire! Il bambino non ha fatto niente, niente!».

    «La peste è scoppiata…».

    «Non è stata colpa sua!», tuonò Fermo. «È mio figlio, tuo figlio, nostro figlio. È un bambino…».

    «Porta la morte».

    Incredulo, Fermo osservò sua moglie, osservò il vento che le scompigliava i capelli e le scioglieva la crocchia scura alla base del collo, lo sguardo reso folle dal panico. L’aveva sentita parlare con i vicini e, in città, aveva udito i sussurri di chi sparlava alle sue spalle e accusava Michele, persone alla disperata ricerca di un capro espiatorio per le loro sventure. Fermo li aveva ignorati e non aveva prestato attenzione a tali dicerie cattive e superstiziose.

    Ma quella era sua moglie, che si stava facendo mettere dalla superstizione contro suo figlio… Fermo lanciò un’occhiata all’improvvisato altarino che Lucia aveva costruito in onore di san Sebastiano. Poi si avvicinò, colpì la statua del santo con la mano aperta, facendola saltare via dal piedistallo, e la guardò cadere.

    «Dai la colpa a me!», gridò. «Se devi incolpare qualcuno, incolpa me. Ma non mio figlio, non il mio bambino».

    Orripilata, Lucia raggiunse di corsa la teca, raccolse la statuetta e se la strinse al petto mentre suo marito proseguiva.

    «Tieni per te le tue superstizioni, Lucia. Qui siamo al sicuro, Michele è innocente. La nostra famiglia è scampata al peggio, qua la peste non può raggiungerci». Si voltò per andarsene, poi si girò di nuovo a guardarla e disse con tono d’ammonimento: «Non parleremo mai più di questa storia, mi hai sentito? Non ne parleremo mai più».

    E così fu.

    Il capofamiglia, il padre di Fermo, Bernardino, morì quella notte. Nelle quarantotto ore che seguirono, il fratello di Fermo contrasse il morbo della peste, e in mattinata era morto. Il terzo giorno, Fermo Merisi cominciò a vomitare e a coprirsi di bubboni. Scivolato in uno stato di incoscienza, giaceva disteso sul talamo nuziale mentre Lucia cercava di prendersi cura di lui. Bandendo gli altri membri della famiglia dalla stanza del malato, lasciò che i fiori sulla teca di san Sebastiano appassissero e che le preghiere le avvizzissero in bocca.

    Fermo Merisi si aggrappò alla vita per altri due giorni. Il primo sorse portando con sé il tepore e la luce del sole che filtrava dalle imposte delle finestre, mentre la prima notte infittì le ombre sotto il letto del morente. Non diceva niente, ma farfugliava, gridava nel sonno, e con l’avvicinarsi della fine le lenzuola si macchiarono di sangue. E sua moglie rimase con lui. Con due uomini della famiglia morti e un altro prossimo a seguirli, di lì a poco sarebbe rimasta da sola con quattro bambini piccoli.

    Se fosse sopravvissuta.

    Nonostante avesse proibito a tutti di entrare in camera da letto, Lucia sapeva di non essere sola. A farle compagnia nel corso di quelle ore lunghe e terribili c’era stato Michele. Si era intrufolato nella stanza e si era seduto, restando quasi immobile, sotto shock. L’implacabile ragazzino dagli occhi neri che un giorno sarebbe diventato il più grande pittore italiano trascorse con sua madre le lunghe ore delle streghe di una luna calante.

    Avrebbe ricordato quella scena per il resto della sua vita: la luce della candela che colpiva le labbra del padre e gli occhi della madre, i loro volti che emergevano dalle tenebre che li circondavano. Avrebbe ricordato i drappi color prugna attorno al letto, neri nell’oscurità; il dolore sonnolento sul volto di sua madre e le mani che sollevavano inutilmente la biancheria.

    E avrebbe ricordato la liberazione finale: l’accasciarsi in segno di resa del corpo di suo padre, che passava dalla vita alla morte.

    Cinque

    Rimasta vedova, con quattro bambini piccoli da crescere e sfamare, Lucia andò a vivere con suo padre. Dato che il marito, il suocero e il cognato erano morti senza lasciare testamento, le finanze della famiglia avevano subìto un tracollo e la proprietà era stata depredata da parenti scaltri e rissosi. Nel suo ruolo di storica protettrice, Costanza Colonna non intervenne in modo diretto, ma offrì alla donna disorientata e in lutto l’aiuto di un consulente legale, grazie al quale alla vedova fu garantita una modesta dimora per sé e la sua famiglia. Non era certo una fortuna, ma permise a Giovan Battista e a Michele di ricevere un’istruzione nella scuola locale.

    «Devi ringraziare la tua benefattrice», disse Lucia a Michele, con tono più severo rispetto al modo in cui si rivolgeva all’altro bambino. «Se riuscissi a dimostrarti più garbato, ti aiuterebbe di più…».

    «Non può essere garbato!», lo sbeffeggiò il fratello minore. «Non conosce le buone maniere».

    Non conosce le buone maniere. È sgraziato. È sfortunato. Con le frasi ripetute tanto di frequente che gli riecheggiavano nella testa, l’undicenne si mise in viaggio da solo per andare a fare visita a Costanza Colonna, a Roma. Lei aveva mandato una carrozza a prendere il ragazzo, ma nessun familiare lo avrebbe accompagnato, e Lucia provava un colpevole senso di sollievo all’idea che il figlio se ne andasse da casa per qualche settimana.

    Dopo averlo caricato a bordo con i regali per la marchesa, Lucia gli diede una sbrigativa pacca sulla spalla e rientrò in casa senza neanche salutarlo con la mano.

    Quando si appoggiò allo schienale imbottito dell’anonima carrozza nera, Michele provò un brivido di liberazione. Dal giorno della scomparsa del padre e di ogni altro maschio della famiglia Merisi, si era sentito via via più escluso. Le riserve che sua madre aveva nutrito nei suoi confronti si erano tramutate in avversione e, anche se non glielo aveva mai detto, sapeva che lo riteneva responsabile della morte del papà. Negli ultimi sei anni, si era lasciato l’infanzia alle spalle per diventare un ragazzo e aveva preso le distanze dai fratelli, era sempre stato il bambino marchiato. Il ruolo che gli era stato affibbiato lo detestava, ma al contempo lo gradiva. Da lui non ci si aspettava un comportamento adeguato, come da Giovan Battista; si accettava il fatto che fosse truce e riservato, reticente e diffidente.

    Quando gli era stato chiesto se avrebbe voluto seguire le orme del padre come scalpellino, Michele si era risentito. No, avrebbe fatto il soldato, perché da piccolo lo zio gli aveva dato il permesso di giocare con la sua collezione di spade e stocchi. Milano era famosa per l’abilità dei suoi spadaccini, era nel sangue dei milanesi e nei geni di Michele. In una città famosa per lo splendore delle sue vedute, con i canali e i giardini curati, i mercanti e il commercio senza eguali di beni di lusso, c’era sempre una vena nascosta di violenza. Con la fine della peste, nel 1579, Milano aveva recuperato la propria opulenza, e Michele, incerto sul futuro ma orgoglioso delle conoscenze di famiglia, nutriva l’ardente desiderio di approfondire i rapporti con i Colonna.

    Era ambizioso, maturo per la sua età, con una voce che già a undici anni cominciava a mutare. Aveva una statura nella norma, ma era robusto, e il torello stava maturando, manifestando con chiarezza la propria aggressività. A scuola si azzuffava per soldi con i ragazzi più grandi di lui, consapevole della propria agilità e di un’impavidità che lo rendeva un combattente sorprendentemente coriaceo. Non aveva timidezze, nessun freno inibitore, e le sue emozioni erano volatili come i mortaretti fatti esplodere in strada nei giorni di festa. Quell’avventura, però, superava qualsiasi esperienza avesse mai vissuto. Stava andando a Roma, una città lontana che prometteva ricchezze ben più grandi di Milano; e stava viaggiando da solo.

    Chinandosi, Michele tolse scarpe e calzini, agitò le dita nude e sentì il tappetino della carrozza sotto i piedi. La gente avrebbe potuto vederlo passare e magari avrebbe riconosciuto la carrozza che apparteneva ai Colonna e lo avrebbe scambiato per un membro della nobiltà. Sarebbe stato bello essere una persona importante, lo sapeva già; aveva visto il modo in cui la gente aveva sghignazzato di fronte al recente impoverimento della sua famiglia. L’importanza del potere, il fatto che una persona senza autorità non valesse niente, aveva avuto un grande impatto emotivo sulla sua psiche.

    Michele infilò una mano nella tasca posteriore dei calzoni ed estrasse uno stiletto. Si passò la lama sopra la lingua, percepì il brivido che si trasferiva dall’acciaio gelido al corpo e poi tornava a colpire la lama. Eccitato, circondato da stimoli, guardò fuori dal finestrino e osservò la campagna che gli sfilava accanto, ma di lì a poco gli si cominciarono a chiudere gli occhi e si addormentò nell’arco di un solo minuto.

    Armata di pazienza, Costanza Colonna si stava facendo acconciare i capelli, con la dama di compagnia che le stava arricciando le ciocche bionde per appuntarle in una sorta di aureola attorno alla testa, come dettava l’ultima moda. Il viso era un ovale perfetto, e se il naso era appena troppo lungo per i canoni di bellezza, gli occhi intelligenti e il sorriso erano affascinanti. Come ogni persona abituata al lusso, era oculata e non si lasciava abbindolare facilmente, ma era anche insolitamente brava a esprimere le proprie opinioni ed era molto acculturata. Già vestita per la giornata, indossava un abito di seta blu ricamata con le spalline imbottite e una profonda scollatura che metteva in risalto un corpetto color ocra.

    I piedi l’avevano sempre messa a disagio, perciò indossava gonne lunghe, con un accenno di strascico a coprirle le scarpe, che erano semplici in confronto all’abito. Certi trucchetti erano alla portata di chi disponeva delle sue ricchezze e aveva accesso ai materiali e ai sarti migliori. Suo marito, Francesco i Sforza di Caravaggio, non le negava niente, forse perché non aveva il coraggio di deludere la donna che era diventata la sua sposa all’età di dodici anni. Il matrimonio era stato un disastro. Costanza, amareggiata e infelice con il consorte di diciassette anni più vecchio di lei, aveva scritto a suo padre: Se non mi liberi dal vincolo che mi lega a mio marito, dovrò uccidermi, e poco mi importa se insieme alla vita perderò anche l’anima.

    A causa dell’angoscia del padre e grazie al tempestivo intervento di un amico, l’arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Borromeo, si decise che Costanza fosse mandata in convento. Poi, inaspettatamente, le animosità tra moglie e marito si sanarono come per miracolo, e Costanza rimase accanto a Francesco e partorì sei figli, con il primogenito dato alla luce quando era appena entrata nella fase della pubertà.

    Eppure, sebbene avesse una grande famiglia, Costanza aveva sempre nutrito un grande interesse per i figli di Lucia, soprattutto nei confronti di Michele. Lo aveva visto in due occasioni, quando era appena nato e quando la famiglia era stata devastata dalla peste. Durante il secondo incontro, aveva incontrato un ragazzo profondamente infelice, che era stato respinto dalla madre, un bambino privo di una figura paterna e al quale era stato negato l’amore.

    L’istinto materno aveva preso il sopravvento e Costanza aveva seguito i progressi del bambino con avida curiosità, assicurandosi che ricevesse un’istruzione di base, come gli altri figli di Lucia. La notizia delle assenze ingiustificate di Michele non l’aveva sorpresa.

    Vostra eccellenza, vi ringrazio ancora per la vostra enorme gentilezza e per la preoccupazione per gli attuali problemi della mia famiglia….

    Una volta espressa la gratitudine, la lettera cominciava a confidarle qualche dettaglio.

    …Michele diventa ogni giorno più turbolento. Frequenta la scuola solo quando gli va di farlo e si mette spesso nei guai a causa delle zuffe. Giovan Battista sta per entrare in seminario, che Dio sia lodato, ma Michele dice di voler fare il soldato….

    Costanza aveva subito intuito il vero scopo della lettera; era un tacito appello per l’intercessione dei Colonna. Rispondere e rammentare a Lucia il suo isterismo superstizioso, il senso di colpa con il quale aveva segnato la vita di suo figlio, sarebbe servito a poco. Non c’era da sorprendersi che Michele fosse diventato difficile da gestire.

    …Non vorrei gravarvi con questo fardello, mia onorevole benefattrice, ma temo che senza una mano forte che lo guidi, Michele possa diventare carne da macello per le strade di Milano.

    Carne da macello per le strade di Milano?, aveva pensato Costanza, inarcando le sopracciglia, perché non era quello il destino che l’aspettava; non fino a quando avrebbe avuto voce in capitolo.

    Avevano viaggiato per giorni e giorni e avevano cambiato numerosi cavalli lungo il tragitto e il conducente a metà strada, con Michele come unico passeggero. Di sera, quando si erano fermati a riposare, avevano pernottato nelle taverne, e il secondo vetturino, un uomo grasso e arcigno, aveva a malapena prestato attenzione al ragazzo di undici anni che si portavano dietro. Quando mangiarono insieme, il cocchiere ordinò la cena per entrambi, e Michele si chiese cosa avrebbe pensato se avesse sfoderato il suo stiletto di ottima fattura. Mangiarono in silenzio, e l’uomo bevve una copiosa quantità di vino, che non parve sortire effetti visibili, per poi ruttare mentre si dava qualche pacca sulla pancia piena.

    Cupo e scontroso, l’unica sera in cui rivolse la parola al suo ospite, l’uomo gli parlò di sua moglie, che lo stava aspettando a casa, «bollente a letto», e derise Michele perché era ancora vergine.

    Restando in silenzio, Michele sostenne il suo sguardo. Aveva cominciato a rendersi conto che i suoi occhi neri e freddi erano in grado di intimidire, nonostante fosse solo un ragazzino, e il conducente fece spallucce.

    «Non volevo insinuare niente. Tra poco ti sbatterai un sacco di fanciulle». Cambiò argomento. «Conosci la marchesa?»

    «Molto bene».

    Il vetturino rise e levò gli occhi al soffitto. «Oh, certo, con quei buchi nelle braghe e le scarpe con le suole consumate…».

    Irritato, Michele rispose: «Un giorno avrò i vestiti migliori sul mercato».

    «E io avrò un palazzo», lo canzonò l’uomo.

    «Per quanto a lungo tu possa vivere, non avrai mai un palazzo…».

    «Ehi!».

    «…mentre io avrò vestiti fatti su misura», continuò Michele, «un cavallo nero, una spada milanese e una catena d’oro attorno al collo».

    Punto sul vivo, il cocchiere lo spinse giù dalla panca. «Un cappio, vorrai dire. Vattene a letto, piccolo bastardo! Dobbiamo partire all’alba».

    L’uomo non intavolò altre conversazioni con il suo passeggero. Riteneva che il ragazzino si arrabbiasse troppo facilmente, che fosse troppo impetuoso per la sua età. Eppure, quando pensava di essere solo, Michele mostrava un lato del tutto diverso.

    Una notte avevano dormito in un fienile, perché il cocchiere aveva intascato il denaro che avrebbero dovuto usare per prendere una stanza. Dopo il pasto, continuando a scoreggiare, l’uomo volgare crollò su una balla di fieno mentre il ragazzo trovò una stalla vuota e si preparò un giaciglio di fieno. Fingendo di dormire, il vetturino lo osservò mentre si sedeva sulla paglia e si toglieva scarpe e calzini. Li ripiegò con cura e li adagiò sopra le calzature logore, come se fossero calzetterie di seta e cuoio veneziano.

    Il cocchiere gonfiò le gote, disgustato, poi si girò su un fianco e si addormentò.

    Poche ore dopo, aveva già sellato i cavalli e preparato la carrozza, e stava scrollando Michele per destarlo.

    «Svegliati, ragazzo!». Gli strattonò una manica. «Sveglia!».

    «Che c’è?», sbottò Michele, trasalendo, e per un attimo pensò di essere tornato a Milano, alla notte della fuga con la sua famiglia. «Che succede?»

    «Nulla», replicò l’uomo con tono brusco. «Datti una mossa, dobbiamo andare».

    Michele infilò calzini e scarpe, corse fuori dal fienile e si fermò un attimo a scrutare l’orizzonte. In lontananza c’erano pallide colline purpuree, onde sinuose di violetto, il cielo affollato di insetti chiassosi, una volpe che guaiolava stizzita contro il sole nascente.

    Colmo di meraviglia, fissò il panorama abbacinante.

    «Dove siamo?»

    «Sistemati i capelli, mendicante. Oggi arriviamo a Roma».

    Sei

    Condotto all’interno di Palazzo Colonna, mentre il grasso cocchiere sogghignava con affettazione e prendeva i suoi bagagli, ovvero una borsa a tracolla, Michele, imbarazzato, si fermò nella loggia che correva parallela all’intera lunghezza del palazzo e affacciava su una striscia di giardino, alla quale si accedeva da una rampa di scalini intagliati. La galleria di vetro, eretta a ridosso della pietra dell’edificio per mantenersi fresca nel caldo clima romano, si allungava sopra la sua testa fino a un’altezza di sei metri, e le statue lo osservavano con vacuo disinteresse. Una pletora di piante profumate si intrecciava sopra e attorno alle pareti interne, mentre al centro del giardino d’inverno c’era una piccola fontana piena di grandi pesci, del colore dell’ambra egiziana, che scappavano tra le piante sommerse e i gigli acquatici.

    Mentre trascinava i piedi nel tentativo di celare le suole consunte delle scarpe e cercava di lisciare i capelli, Michele udì un rumore di passi, lenti e misurati, che gli si avvicinavano. In mezzo a tanta opulenza, la sicurezza l’aveva abbandonato e si sentiva fuori luogo, sulla difensiva.

    «Michele?».

    Avrebbe dovuto parlare? Cosa doveva dire? Con la schiena rigida, si voltò e vide una donna alta che lo osservava.

    Aveva pensato di rammentare Costanza Colonna, la benefattrice di famiglia, ma quella donna era imperiosa, con le sopracciglia inarcate, e la straordinaria eleganza delle sue vesti lo intimidiva.

    Lo raggiunse sorridendo e prendendolo sottobraccio per condurlo dentro casa, al fresco.

    Il ragazzo non oppose resistenza e si lasciò guidare in un salotto più ampio del giardino d’inverno, con dipinti appesi alle pareti drappeggiate di seta e un immenso tavolo sul quale faceva bella mostra di sé una complessa statua di marmo che raffigurava due giocosi cherubini. La ricchezza della sala lo fece vacillare; lunghe distese di pavimenti di marmo, riquadri affrescati sui voltoni, stucchi dorati, figure dipinte che si sporgevano da balconi dipinti, il soffitto affollato da una baraonda di personaggi mitologici. Michele aveva pensato che le chiese di Milano fossero sfarzose, ma quell’ambiente era la magnificenza, l’estremo. Formidabile.

    Soggiogato, infilò la borsa sotto la seduta che gli era stata offerta e prese posto accanto alla marchesa.

    «In questa sala ci sono alcuni dei dipinti che la mia famiglia ha collezionato nel corso degli anni», spiegò Costanza mentre il ragazzo si guardava attorno, silenzioso, stupefatto. «Sono felice che tu sia venuto a trovarci. I miei figli non vedono l’ora di conoscerti…».

    Era evidente che Michele non fosse altrettanto entusiasta di conoscere loro.

    «Tua madre è preoccupata per te. Dice che salti la scuola e che ti azzuffi troppo».

    Aspettandosi altre critiche, Michele si mise ancora di più sulla difensiva. «Mi azzuffo solo con i ragazzi che vogliono attaccare briga con me».

    «E perché vogliono attaccare briga con te?».

    Quegli occhi scuri e attenti la studiarono. «Siamo poveri».

    «È un motivo sufficiente per azzuffarsi?»

    «State dicendo che non dovrei farlo?».

    La sua sfrontatezza la sorprese e la divertì. Era un bambino difficile, tanto diverso dai suoi figli viziati e raffinati. «È vero che da grande vuoi fare il soldato?»

    «Mio zio mi ha insegnato a usare la spada». Fece una pausa, sicuro che stesse ridendo di lui, poi sfilò lo stiletto dalla tasca. La lama guizzò come la lingua di un serpente, e Costanza prese l’arma dal ragazzo e la esaminò come qualsiasi altra donna avrebbe esaminato una partita di verdure da acquistare. Senza timore, con curiosità.

    «È molto affilata».

    «La tengo affilata con l’arrotatrice che abbiamo in cucina, a casa», confidò Michele. «Mia madre non lo sa».

    Costanza gli restituì lo stiletto. «E non verrà a saperlo da me».

    Tra loro si creò un legame, un’alleanza. Se si era aspettato di scioccare la sua benefattrice, ne dovette restare deluso.

    «Mio padre era sempre armato, e mio zio… Dicevano che Milano è pericolosa…».

    «Una città di spadaccini», replicò Costanza, conoscendo fin troppo bene la reputazione della città.

    La città del peccato, come l’aveva soprannominata l’arcivescovo Borromeo, violenta, abitata da ruffiani e ladri. Per ogni agiato mercante c’era un ciarlatano, per ogni ricco banchiere, una puttana. La peste aveva spazzato via un terzo della popolazione, ma la città si stava riprendendo in fretta, e con il benessere era tornata anche la criminalità. Il governatore spagnolo, esasperato da tali condizioni di pericolosità, offriva ricompense a chiunque catturasse un delinquente e lo consegnasse alla giustizia. Le carceri si riempirono subito di immigrati, gli stessi individui accusati dell’aumento dei furti. Ma gli italiani dei bassifondi della città si proteggevano tra loro e gli informatori venivano spesso ritrovati con la gola tagliata, a galleggiare nei navigli, i canali che si diramavano dal Ticino e dall’Adda.

    Il luogo ideale dove rifinire un ragazzino scontento e trasformarlo in un criminale.

    «Pensi che tuo padre avrebbe voluto che diventassi un soldato?»

    «Mio padre è morto».

    «Capisco, ma sono certa che avesse altre ambizioni per te».

    «Uno scalpellino, come lui?», ribatté Michele.

    Costanza non sapeva cosa aspettarsi dal ragazzo, ma tanta schiettezza la intrigava. Se non ne avesse conosciuto la causa, si sarebbe potuta risentire per la mancanza di rispetto, ma lei per prima era stata una bambina impulsiva e ammirava la sua aria di sfida, il modo in cui rifiutava di lasciarsi intimidire da un retaggio di opere pie. Distolse lo sguardo dalle sue scarpe malconce, le scarpe che Michele si stava sforzando di nascondere, e ordinò che fosse portato loro del cibo. Quando arrivò, il ragazzo allungò una mano verso i pasticcini, poi titubò.

    Mangiava usando le mani? Era uno zoticone?

    «Forza», lo incitò, prendendo qualche dolce per sé con le mani e passandogli un piatto. «Allora», disse dopo alcuni istanti. «Sarò onesta con te, Michele. Per te vorrei un futuro migliore rispetto a una vita da soldato».

    «Non mi farò prete!», esclamò lui, ribellandosi. «Non farò come mio fratello».

    No, pensò lei, il dolce Giovan Battista è senz’altro destinato alla chiesa, ma questo ragazzo no.

    «Non credi in Dio?»

    «Credo… che abbia delle preferenze».

    «Dio ha delle preferenze?», ripeté Costanza, sorpresa, poi rammentò che sua madre lo aveva accusato di aver causato l’epidemia di peste. Tuttavia, sebbene i maschi adulti della famiglia fossero morti, la donna e i bambini erano sopravvissuti. Che il ragazzo pensasse di essere uno dei favoriti di Dio? «Ritieni di godere di una speciale protezione divina?».

    Il ragazzo esitò e sostenne il suo sguardo. «No, penso che Dio voglia punirmi».

    La risposta la turbò, e Costanza decise che avrebbe scritto all’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, per chiedergli, in qualità di amico e di parente acquisito, di tenere d’occhio Michele. Con un alleato tanto potente, forse sarebbe stato dissuaso dal diventare carne da macello e indirizzato verso una professione più utile. Non che sembrasse in possesso di particolari abilità. Ma d’altro canto, sua madre avrebbe mai potuto notare un qualsivoglia potenziale in un figlio che aveva trascurato e allontanato per timore che fosse portatore di sciagure?

    Costanza continuò a riflettere. Poteva persuadere Borromeo, uomo arcigno, col naso aquilino, ma retto e potente, a vegliare sull’educazione del ragazzo mentre frequentava la scuola. L’intervento tempestivo dell’arcivescovo avrebbe di certo assicurato che i maestri di Michele risolvessero una volta per tutte la questione delle assenze e ponessero un freno agli alterchi. Costanza, esperta manipolatrice, era soddisfatta della decisione presa. L’unico problema era che la soluzione avrebbe avuto vita breve. Il ragazzo, seguendo le convenzioni usuali, sarebbe diventato un apprendista nel giro di due anni. Ma apprendista di chi? Per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1