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Passa... parole: Chiavi di lettura delle indicazioni 2012
Passa... parole: Chiavi di lettura delle indicazioni 2012
Passa... parole: Chiavi di lettura delle indicazioni 2012
E-book387 pagine4 ore

Passa... parole: Chiavi di lettura delle indicazioni 2012

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Info su questo ebook

Il testo illustra e commenta le indicazioni per il curricolo per la scuola dell'infanzia e il primo ciclo di istruzione, revisionate nel corso del 2012. Oltre sessanta autori (prevalentemente insegnanti, ma anche docenti universitari, esperti, cultori delle diverse discipline) hanno analizzato circa 70 parole-chiave che caratterizzano il nuovo testo delle Indicazioni. Attraverso un ideale passa... parole, vengono individuati i nodi concettuali, le prospettive didattiche, le implicazioni professionali del documento, che rappresenta oggi il punto di riferimento per l'elaborazione dei curricoli nella scuola dell'autonomia. Il testo si fa apprezzare per snellezza e ricchezza di punti di vista e vuole stimolare un analogo lavoro di carattere collaborativo tra gli insegnanti.
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2014
ISBN9788898969111
Passa... parole: Chiavi di lettura delle indicazioni 2012

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    Anteprima del libro

    Passa... parole - Giancarlo Cerini

    2012

    Allievi / l’adolescente

    Jaime Amaducci

    Io sono un misero adolescente,

    e non so io stesso sempre cosa sia bene e che cosa sia male.

    FËDOR M. DOSTOEVSKIJ

    …ma se capirai, se li cercherai fino in fondo

    se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo.

    FABRIZIO DE ANDRÉ

    Adolescenti… Chi siete?

    In poche battute Dostoevskij e De André ci rilanciano le difficoltà nel trovare una risposta. Anzi, meglio dire: risposte. Vista l’assurdità del tentativo di definire, una volta per tutte, l’identità di una persona tra i 12 e i 18 anni.

    Gemme screditate… "né carne né pesce". Non poter delineare un’unica adolescenza non giustifica però il non chiedersi: Chi sono questi germogli di adulti? Cosa fare perché crescano al meglio? Domande d’obbligo per chi istruisce le nuove leve di una società sempre meno giovane, che invecchia a vista d’occhio e non può certo ‘perdere’ adolescenti per strada.

    Nemmeno ridurre ‘al minimo’ le potenzialità smisurate del capitale umano a disposizione. Un’energia dirompente, esplosiva, trasformatrice. Potenza di vita. Essenze di germogli spuntati dalla terra.

    Non toccherò i temi della pubertà, dell’età di passaggio, delle trasformazioni, dei cambi improvvisi d’umore, delle contestazioni, dei comportamenti inaccettabili, della voglia di libertà, di anarchia… quante cose da dire sui luoghi comuni dell’adolescenza.

    L’età della crisi

    Pur se ai giorni nostri non si possono tracciare confini cronologici netti (in particolare per questa età), si può dire che prima (12-15 anni) e seconda adolescenza (15-18 anni) investono in pieno le scuole secondarie di I e II grado. Senza dimenticare che l’adolescente di oggi è il bambino della scuola primaria e dell’infanzia di ieri. Ragion per cui è doveroso elaborare percorsi scolastici curricolari verticali, idea alla base delle Indicazioni 2012 e della generalizzazione degli istituti comprensivi, pur se si resta in attesa di indicazioni curricolari complessive per scuola dell’infanzia e scuola dell’obbligo (ciclo 3-16 anni)…

    La fascia adolescenziale subisce le ‘inadeguate dis-continuità’ tra i due ordini di scuola secondaria. Ma non sembra un problema prioritario. In tante occasioni, infatti, ci si limita a parlare di adolescenza come dell’età difficile, di crisi, di cambiamento. Sembra quasi che rimarcare e reiterare negatività e ‘lati oscuri’ degli adolescenti possa essere un pretesto, strumentale, per scagionare il ‘claudicante andar’ di scuola e società rispetto alle richieste dei ragazzi. Ovvero, di fronte ai bisogni di una fascia generazionale non più afflitta, come in passato, dalla ‘solita’ crisi esistenziale del singolo che sta crescendo per diventare uomo o donna, ma da una ben più profonda crisi sociale, economica e culturale collettiva. Se, da una parte, questa "non è più l’eccezione alla regola ma è essa stessa regola nella nostra società"¹, dall’altra fa ricadere sui piccoli gli errori degli adulti. Con la spudorata e presuntuosa pretesa che le nuove generazioni, sole a se stesse, si accollino ‘debiti’ (non solo economici) che non hanno contratto.

    Adolescenti… Dove siete?

    Ogni virgulto è così costretto ad affrontare una crisi fisiologica, psicologica, che rientra nel suo naturale percorso di crescita e, allo stesso tempo, a districarsi nella piena bufera di un’innaturale crisi sociale collettiva. Una crisi che si caratterizza per un profondo cambiamento di senso e di valore esistenziale che va dall’idea classica di un futuro inteso come promessa a quella postmoderna di un futuro visto come minaccia. Un futuro/presente in cui gli adolescenti vedono già in difficoltà i fratelli maggiori (la disoccupazione dei 15-34enni è salita dal 55% del II trimestre 2011 all’attuale 56,1%), i propri genitori (basti pensare alle recenti travagliate vicissitudini di Fiat, Ilva e Carbosulcis) e i nonni, più poveri e soli rispetto al passato, che in numero sempre maggiore hanno risorse insufficienti per le proprie necessità.

    Nella diffusa situazione di incertezza, di disagio e crescente marginalità incontriamo, da una parte, i ragazzi: "gamberi che cambiano il guscio e perdono quello vecchio restando senza difesa durante il tempo necessario per fabbricarne uno nuovo […] esposti a un grave pericolo […] poiché nei paraggi di un gambero indifeso c’è sempre un congro in agguato, pronto a divorarlo"². Dall’altra parte, invece, troviamo ad accoglierli la (ex) scuola media, "l’anello debole della scuola italiana" (Rapporto Fondazione Agnelli, 2011). La Fondazione torinese mette in luce la profonda crisi della secondaria di I grado in cui esplodono, tragicamente, i divari di apprendimento tra gli alunni a causa dell’origine socio-economica e culturale.

    Nel turbinio crescente di preoccupazioni, tristezza, collera, solitudine, paura… che fare?

    L’emozione di crescere (anche a scuola)

    Davanti a tante incertezze, spesso disorientati, dopo la sconfortante lettura dell’analisi della scuola media italiana, fatta senza sconti dalla Fondazione Agnelli, annotiamo le sue proposte per il miglioramento scolastico e prendiamo in mano le nuove Indicazioni: per poter disegnare nuove mappe, tracciare nuovi cammini, ma anche per trovare spiragli di luce che aiutino ad affrontare il buio delle emozioni negative, sempre più oscuranti le quotidianità.

    Emozioni negative… emozioni positive. Entità vitali, senti/menti, passioni, accomunano ragazzi e adulti che passano buona parte del proprio tempo nelle aule.

    Nelle pagine dei due documenti sopra citati, andiamo perciò alla ricerca di tracce emotive, emozionanti e cerchiamo le impronte di un’educazione alle emozioni, di alfabetizzazione emozionale, di quegli "insegnamenti emozionali che apprendiamo da bambini a casa e a scuola, che plasmano i nostri circuiti emozionali, rendendoci più o meno abili nella gestione degli elementi fondamentali dell’intelligenza emotiva" (Goleman, 1995).

    Proviamo allora a raccogliere sassolini che indichino la strada e riportino alla memoria di chi lavora nella scuola che "l’infanzia e l’adolescenza offrono opportunità importantissime per stabilire le essenziali inclinazioni emozionali che governeranno la nostra vita e, altrettanto, che malgrado la curiosità e l’interesse che motivano ciò che impara, il giovane dipende dal proprio stato emotivo […] spesso responsabile delle sue difficoltà. Anzi […] alla base della sua disponibilità intellettuale a comprendere e a imparare" (Guitouni, 2005)

    Ma cosa troviamo nel bosco delle discipline? … tu chiamale se vuoi, emozioni (Battisti, 1970).

    M. GUITOUNI (2005), Le dimensioni identitaria ed emotiva nell’insegnamento, intervista di J. PHARAND e A.C. MOREAU. http://www.intelligenzaemotiva-mg.com

    D. GOLEMAN (1995), Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1997.

    http://www.intelligenzaemotivaschool.it/index.asp.

    ¹ M. BENASAYAG, G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004.

    ² F. DOLTO, I problemi degli adolescenti. Una mappa per orientarsi in un difficile periodo di trasformazione, Tea, Milano, 1998.

    Allievi / il bambino

    Anna Bondioli

    Ciascuno cresce solo se sognato.

    DANILO DOLCI

    Bambini, relazioni, contesti

    Afferma Winnicott: Il bambino senza madre non esiste. Fuori da una relazione e da un contesto non c’è né vita, né crescita, né umanizzazione. Il bambino è un soggetto, fin dall’inizio, culturale. Ciò non toglie che esista una radicale alterità tra il bambino e l’adulto, che il piccolo dai tre ai sei anni abbia suoi peculiari modi di espressione, bisogni, caratteristiche, che sia riconosciuto come portatore di speciali e inalienabili diritti. Il fatto è che la crescita a questa età è un’avventura che il bambino non compie da solo, che avviene in maniera non sempre lineare, che è suscettibile di accelerazioni, soste e passi all’indietro. Perciò descrivere il (o un) bambino dai tre ai sei anni e tracciarne il percorso di crescita comporta delineare al tempo stesso un certo tipo di relazione e di contesto educativi.

    Ci sembra necessaria questa premessa nel presentare e nel commentare le immagini di bambino che emergono dalle Indicazioni poiché a esse corrispondono altrettante idee di relazione educativa e di ambiente di apprendimento. Va però detto che tali corrispondenze non sono nel testo sempre del tutto esplicitate. Mette conto pertanto evidenziarle accanto alle idee di bambino rintracciabili nel Documento.

    Le storie dei bambini

    Ogni bambino è in sé diverso e unico. A questa impegnativa affermazione fa riscontro l’idea di una relazione educativa che tiene in conto la specificità dei bambini e dei gruppi ed è in grado di far evolvere le potenzialità di tutti e di ciascuno. Di ciascun bambino – si dice – vanno rispettate l’originalità, l’unicità, le potenzialità. Occorre dunque conoscere ogni singolo bambino per quello che è, per come si comporta, per come si relaziona e l’osservazione partecipe ne rappresenta uno strumento fondamentale. Più che il ricorso a teorie dello sviluppo o a conoscenze psicologiche per accostarsi ai bambini e comprenderne le esigenze, le difficoltà e le risorse, il Documento suggerisce dunque l’esercizio di uno studio continuativo e attento dei loro atteggiamenti e delle loro condotte.

    Ogni bambino è in sé diverso e unico anche perché giunge alla scuola dell’infanzia con una storia. La storia della sua famiglia e del suo ambiente di provenienza, dei legami affettivi che ha instaurato, delle esperienze che ha vissuto, delle abitudini che ha acquisito. Non è affatto una tabula rasa né è solo potenzialità. Dunque, la scuola dell’infanzia dovrà scoprire e tenere conto di questa storia, degli stili di attaccamento, degli atteggiamenti maturati nei confronti delle routine, degli interessi e delle inibizioni, per aver sempre presente come sia possibile agire nelle ‘aree potenziali di sviluppo’ di ciascuno a partire da quello che ciascuno è e può fare ‘con l’aiuto di qualcun altro’.

    Sostenere lo sviluppo

    La storia evolutiva di questo bambino è agli esordi: i bambini hanno imparato a muoversi e a entrare in contatto con gli altri con livelli crescenti, ma ancora incerti, di autonomia, si sono rapportati ai tratti fondamentali della loro cultura che per il momento hanno però solo intuito, hanno iniziato a porsi domande di senso sul mondo e la vita. C’è dunque molto da fare ma a partire da qui, dall’esperienza maturata e dal bisogno, ineludibile, di ricevere un supporto per organizzarla e approfondirla fornendo strumenti per acquisirne il senso. Quel bambino unico, che ha già una storia, non ha bisogno di riempire la mente, né di ampliare più di tanto la sua già ricca esperienza; ha bisogno di formare quelle attitudini all’apprendimento che gli consentiranno di procedere oltre, al di là dei confini della scuola dell’infanzia. Il Documento non è così esplicito su questo punto ma può essere interpretata in questo senso l’affermazione secondo cui nella relazione educativa gli insegnanti svolgono una funzione di mediazione e di facilitazione, una forma, dunque, di ‘promozione dall’interno’ e di ‘sostegno allo sviluppo’.

    … a partire dalle risorse del bambino

    Oltre a una storia i bambini possiedono delle risorse native: sono attenti osservatori, attivi esploratori (osservano e interrogano la natura, pongono domande inattese, elaborano ipotesi) e fantasiosi attori (hanno interpretato ruoli attraverso il gioco e la parola). Risorse da valorizzare e promuovere soprattutto in senso riflessivo e di apertura in direzione intersoggettiva e sociale (gli insegnanti … nel fare propria la ricerca dei bambini, li aiutano a pensare e a riflettere meglio, sollecitandoli a osservare, descrivere, narrare, fare ipotesi, dare e chiedere spiegazioni in contesti cooperativi e di confronto diffuso). Rispetto alle risorse native infantili – non va dimenticato tra le altre il gioco – il compito della scuola dell’infanzia sembrerebbe allora quello di accompagnare i bambini nell’avventura della conoscenza promuovendone soprattutto delle competenze ‘meta’: riflettere e rielaborare le esperienze.

    … in un ambiente protettivo

    Compiti cognitivi così impegnativi per bambini dai tre ai sei anni non possono essere svolti se non in un contesto emotivamente sicuro, dove il bambino possa trovare punti di riferimento e legami affettivi, possa ricevere conferme e serenità. La scuola dell’infanzia deve essere un ambiente protettivo e di cui il piccolo possa fidarsi, un luogo che promuove lo star bene e un sereno apprendimento. Un ambiente – verrebbe da dire – non giudicante, ma valorizzante le differenze e l’inatteso, non competitivo, nel quale l’adulto e i compagni siano percepiti – e siano – degli alleati e la relazione educativa si caratterizzi per un atteggiamento di ascolto, empatia, rassicurazione.

    … un profilo di uscita?

    Ma, oltre al bambino che entra nella scuola dell’infanzia e la frequenta, nel Documento si parla anche di un altro ‘bambino’, quello ‘in uscita’ dalla scuola dell’infanzia. Si tratta di un’immagine duplice: da un lato esso coincide con le aspettative di coloro che si sono impegnati a sostenere lo sviluppo di quel bambino ‘unico e irripetibile’ secondo le finalità auspicate: conquista dell’identità, dell’autonomia, delle competenze, della cittadinanza; dall’altro esso si sostanzia in una serie di ‘traguardi’ che definiscono con precisione, a volte con minuzia, il bambino che viene consegnato nelle mani degli insegnanti della scuola primaria – ciò che ci si attende al termine del percorso triennale.

    Non che tali attese siano indesiderabili o irrealistiche, ma questo ‘bambino’ sembra mal sposarsi col primo, i cui percorsi, lo si è detto, sono personali e irripetibili, e – aggiungiamo – ondivaghi, imprevedibili, non sempre armoniosi pur nel quadro di un’auspicabile ‘normalità’. Tracciando il concetto di linee evolutive la figlia di Freud sosteneva che la ‘normalità’ di un bambino non sta tanto dove si posiziona il bambino – dove mostra di essere arrivato – ma nelle capacità di avanzare lungo la linea e nel fatto che le diverse linee – dello sviluppo affettivo, cognitivo, sociale – progrediscano in armonia¹. Quindi non ci si dovrebbe tanto chiedere che cosa un bambino sa fare o non sa fare, ma se dimostra di progredire e in quali direzioni. E, ritornando all’affermazione dell’incipit, occorrerebbe chiedersi, alla fine del percorso, meglio ancora durante il suo svolgimento, che cosa ha permesso al bambino, concreto, reale, quell’essere ‘unico’ con la sua storia, di diventare quello che è, quali occasioni gli abbiamo offerto, quali esperienze gli abbiamo sollecitato, quale ambiente gli abbiamo allestito.

    E. BECCHI, A. BONDIOLI, Luoghi per crescere o scuole preelementari?, in Riforma della scuola, 7/8, 1989.

    S. FRAIBERG, Gli anni magici, Armando, Roma, 2006.

    E. BECCHI (a cura di), Manuale della scuola del bambino dai tre ai sei anni, Franco Angeli, Milano, 1999.

    A. BONDIOLI, M. FERRARI (a cura di), AVSI: Autovalutazione della scuola dell’infanzia, Junior, Bergamo, 2008.

    ¹ A. FREUD, Normalità e patologia dell’età infantile, in Opere, Boringhieri, Torino, 1985.

    Allievi / i (nativi) digitali

    Mario Agati

    Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.

    ITALO CALVINO

    Ma esistono i nativi digitali?

    I luoghi comuni sui giovani non hanno età. Da sempre, infatti, gli adulti tendono a screditare le nuove generazioni. Quante volte, persino sulle soglie delle sale insegnanti, abbiamo sentito dire che i ragazzi di oggi sono più fragili e immaturi rispetto ai ragazzi del passato? E quante volte gli spazi amplificati dei media hanno dipinto una generazione di videodipendenti e cybernauti, sintatticamente balbuzienti e semanticamente superficiali, figli di una conoscenza frammentata, approssimativa, fatta di micro-cubetti di sapere che s’accatastano senza ordito in repository mentali sempre più destrutturati? In tale contesto la dicotomia nativi digitali/immigrati digitali inventata da Marc Prensky nel lontano 2001 per indicare l’ennesimo iato generazionale ha trovato terreno fertile. Soprattutto dopo l’esplosione dell’ADSL, la proliferazione del WiFi, la fulminea disseminazione di tablet e smartphone (con relativo profluvio di App) che consentono a qualsiasi ragazzino di essere connesso sempre, comunque e ovunque.

    Quella dei nativi digitali, dunque, è la prima generazione veramente hi-tech, che frequenta gli schermi interattivi fin dalla nascita, che considera internet il principale strumento di info-intrattenimento e che apprende e pensa in maniera differente da nonni, padri e fratelli maggiori (immigrati digitali).

    L’etichetta di Prensky è diventata talmente di moda da sollecitare alcuni intellettuali a sposare la tentazione dell’antimoda, a negare in maniera provocatoria l’esistenza dei nativi e a sottolineare con snobistica ironia che l’universo digitale è stato creato da immigrati e che molti vecchietti sanno domare i flutti del web meglio di tanti mocciosi.

    Diatriba simpatica e illuminante, ma che non può offuscare l’evidenza di una specificità generazionale. Chi, per interesse o per mestiere, si mescola quotidianamente con centinaia di ragazzi che videogiocano, googlano, yutubano, twittano, taggano, condividono, messaggiano, chattano e deambulano perennemente appesi alle cuffiette dell’iPod non può che prendere atto, se non si fa annebbiare da troppe prevenzioni, di trovarsi di fronte a un nuovo modo di vivere e di essere. Perché al di là dell’etichetta e delle scontate approssimazioni di una dicotomia semplicistica, è evidente che esiste una dissonanza fra i due mondi, fra quello degli adulti e quello dei ragazzi, fra quello degli insegnanti e quello degli alunni, fra chi ha studiato il mondo passeggiando lento nel silenzio delle biblioteche e chi è nato con il mondo in mano.

    Superare il digital divide

    Ora il problema non consiste nello stabilire se i nostri ragazzi sono digitali (gli alunni dispongono di abilità tecnologiche quasi sempre sconosciute al docente di turno) quanto nel loro livello di consapevolezza.

    Perché il vero digital divide, ormai, non sta fra chi è naturalmente affine alle nuove tecnologie e chi invece non le domina o non le possiede. Ma è, ancora una volta, un divario socio-culturale: il divario fra chi usa gli strumenti e chi sa cosa sta facendo, fra chi usa facebook e chi sa cos’è (come funziona, come si sostiene economicamente, chi lo controlla…), fra chi si tuffa senza remore fra i flutti digitali e chi naviga conoscendone potenzialità e rischi. Ed è in questa direzione che deve operare la scuola. Perché se è vero che i nostri ragazzi sono quotidianamente sovraesposti a mitragliate di pillole cognitive, ai linguaggi sincopati di propaggini elettroniche, all’indistinta schiuma di saperi che galleggiano nelle reti, è altrettanto vero che la scuola – consapevole peraltro di aver perso il monopolio dell’informazione e dei modi di apprendere – deve (im)porsi come guida, come coscienza critica, come agenzia di sintesi e sistematizzazione, se non proprio di ricomposizione olistica, della frammentazione culturale.

    È questo un impegno – etico e civico, prima ancora che professionale – fortemente auspicato dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, che assumono la perizia digitale come una delle competenze-chiave per l’apprendimento, raccomandano l’utilizzo consapevole delle tecnologie nella quotidiana prassi didattica e sanciscono che la "diffusione di tecnologie di informazione e di comunicazione è una grande opportunità e rappresenta la frontiera decisiva per la scuola".

    Che fare di fronte al melting pot cognitivo?

    La frontiera decisiva, appunto. Una frontiera che implica il sereno adattamento alla nuova normalità disegnata dal digital lifestyle, che porta il bambino a sentirsi responsabile del progetto educativo e aiuta il maestro a trasformarsi in autorevole mediatore tra l’intrigante caos della rete e la mente dello studente. Non si tratta (più) per gli insegnanti di porsi come avanguardia illuminata pronta a guidare il cambiamento, ma si tratta di avere la saggezza e il coraggio di adattarsi a una rivoluzione già avvenuta. A una dimensione culturale che è già qui ed ora.

    I nostri ragazzi sono ‘nativamente’ abituati a fare più cose contemporaneamente, a fare meno affidamento sulla memoria e più sull’immediatezza della ricerca in rete, ad apprendere per tentativi evitando di seguire le istruzioni in modo lineare, a suddividersi in tribù per condividere emozioni e conoscenze, a prendere materiali dal web per manipolarli e inserirli in contesti diversi che ne moltiplicano le implicazioni, a raccontare per immagini e filmati, a essere istintivamente multimediali e melting pot, a imparare facendo. E si aspettano di fare le stesse cose a scuola. Pena la noia e l’impaludamento del dialogo educativo.

    La scuola deve diventare il luogo privilegiato di questo incontro di civiltà. E potrà farlo solo se gli immigrati avranno acquisito il giusto spirito di adattamento al nuovo mondo e sapranno abbandonarsi a una primigenia curiosità nei confronti degli indigeni. In questo caso, forse, potranno accorgersi che molti dei nostri ragazzi sono già saliti in piedi sui banchi di scuola senza bisogno di un qualche redivivo prof. Keating.

    G. SALGARI, Chi sono i nativi digitali, pubblicato nel sito on line de Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2012. http://www.ilsole24ore.com

    P. FERRI, Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano, 2011.

    http://www.educationduepuntozero.it/

    Allievi / l’identità di genere

    Cinzia Mion

    Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa.

    SIMONE DE BEAUVOIR

    Una questione (quasi) rimossa

    La citazione di De Beauvoir ci fa capire la differenza tra identità sessuale e identità di genere.

    Nelle Indicazioni 2012 manca, e già mancava nel testo precedente, un approfondimento sull’identità di genere, che non può essere ridotta a un dato anatomo-biologico, come quella sessuale, ma che chiede di essere sostenuta verso la maturazione di un’identità sociale solida e coesa, a prescindere dall’orientamento sessuale, che superi i vecchi stereotipi sessisti e che vada nella direzione delle Pari Opportunità.

    Nel nuovo testo ogni tanto compare il termine genere, ma non spunta all’interno di una sollecitazione esplicita, rivolta ai docenti, a farsi carico della maturazione dell’identità, prima di maschietti e femminucce e poi di ragazze e ragazzi, affinché crescano uomini e donne il più possibile scevri da vecchi e nuovi stereotipi e all’interno di una relazione che riconosca e renda operative le pari opportunità.

    Si affaccia per esempio, a proposito della scuola del primo ciclo, all’interno del paragrafo Il senso dell’esperienza educativa, la frase: "(la scuola) segue con attenzione le diverse condizioni nelle quali si sviluppa l’identità di genere, che nella preadolescenza ha la sua età cruciale".

    Sfido chiunque a capire che seguire con attenzione significa intervenire perché vengano intaccati gli stereotipi sessisti oppure non abbiano la meglio modelli discutibili veicolati dalla cosiddetta deriva massmediologica, che non permettono né a maschi né a femmine di avviarsi verso quella umanità riconciliata di cui parla Elisabeth Badinter.

    Stereotipi sessisti

    Sull’onda dell’emancipazione femminile i ruoli sociali nel tempo sono cambiati e la spinta socioculturale verso le Pari Opportunità, fortemente auspicate anche dalle risoluzioni europee, ha intaccato l’educazione familiare (tradizionalmente orientata verso l’autorealizzazione per i maschi e verso la relazionalità per le femmine) nel tentativo di ‘coniugare’ queste due tendenze sia per i maschi che per le femmine.

    Infatti anche i maschi più sensibilizzati alla tematica, per quanto attiene l’alfabetizzazione emotiva e lo sviluppo delle loro intelligenze personali (v. Gardner: intrapersonale e interpersonale), rivendicano oggi più competenze relazionali.

    I giovani padri vogliono fare i padri in modo diverso dai loro padri: vogliono e riescono benissimo a prendersi cura del loro ‘cuccioli’ e questo li tiene in contatto con la loro parte tenera e con aspetti che un tempo non erano legittimati dallo stereotipo maschile, che rispondeva generalmente a: forza, decisione, responsabilità, competitività, machismo… Per questi motivi forse la via alla nuova paternità è anche la via per la nuova virilità.

    Le donne hanno modificato da molto più tempo lo stereotipo femminile della passività, remissività, sottomissione, adattamento in quanto, uscendo di casa per andare a lavorare, hanno scoperto di essere in grado di prendere decisioni, assumere responsabilità e soprattutto hanno scoperto di avere una grande forza d’animo: caratteristiche considerate precedentemente solo maschili.

    E. Badinter chiama questa contaminazione delle caratteristiche maschili e femminili identità rinnovata e la definisce umanità riconciliata. Finisce il suo libro XY L’identità maschile con queste parole suggestive: "Quando gli uomini presero coscienza di questo svantaggio naturale (il potere di procreare) crearono un palliativo culturale: il sistema patriarcale. Oggi, costretti a dire addio al patriarca, devono reinventare il padre e la virilità che ne consegue. Le donne, che osservano questi mutanti con tenerezza, trattengono il respiro…".

    Le pari opportunità

    Qualche anno fa

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