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Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei
Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei
Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei
E-book462 pagine3 ore

Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei

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Info su questo ebook

La scuola dell’infanzia è un vero ‘gioiello di famiglia’ del sistema educativo italiano. La scuola statale ha da poco compiuto i suoi primi cinquant’anni ed ha ampliato un paesaggio ove erano già presenti le scuole dei Comuni e quelle private. Il progetto educativo usufruisce di INDICAZIONI PER IL CURRICOLO (d.m. 254/2012), i cui ‘campi di esperienza’ si innestano su ORIENTAMENTI educativi di grandi tradizioni pedagogiche.
Ora la scuola per i bambini dai 3 ai 6 anni è invitata a misurarsi con la prospettiva “zerosei” (d.lgs. 65/2017) per costruire un sistema integrato di servizi educativi (Asili nido) e scuole dell’infanzia, rispettosi comunque delle loro identità.
Il libro presenta saggi di inquadramento, ipotesi di lavoro sui campi di esperienza e, soprattutto, un repertorio di trenta parole-chiave commentate, che rappresentano il lessico di base che accomuna e arricchisce la professionalità di educatori e insegnanti. Il volume è stato scritto da 36 autori (dirigenti scolastici, ispettori, docenti universitari, pedagogisti e soprattutto docenti) che rappresentano la ‘voce viva’ della scuola dell’infanzia italiana. Il coordinamento dell’opera è stato curato da Giancarlo Cerini (direttore della “Rivista dell’istruzione” e coordinatore di “Scuola7.it), da Cinzia Mion (formatrice, psicologa, del Forum veneto delle associazioni professionali della scuola) e da Giovanna Zunino (già insegnante di scuola dell’infanzia e membro dei comitati scientifici di Proteo Fare Sapere e ZeroseiUp).
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2019
ISBN9788832760767
Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei

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    Anteprima del libro

    Scuola dell'infanzia e prospettiva zerosei - Giancarlo Cerini

    Autori

    INTRODUZIONE

    Un’agenda per la scuola

    dell’infanzia e lo zerosei

    di Giancarlo Cerini

    Zerosei, come uno storytelling

    Zerosei era il titolo di una fortunata rivista sull’educazione dell’infanzia, fondata da Loris Malaguzzi negli anni ’70, quando si trattava di dare una spinta gentile (ma a volte non tanto) alle politiche per l’infanzia. Poi quel titolo è tornato in una più recente vicenda editoriale, con la testata ZeroseiUp. Seguendo questa suggestione il progetto zerosei assomiglia a uno storytelling, un titolo evocativo che deve fare immaginare un futuro migliore, un valore aggiunto rispetto all’oggi, perché deve costruire una narrazione positiva per una polis più vivibile, qualificata dalla coesione sociale e dalla qualità della vita. La legge, nel nostro caso il d.lgs. 65/2017, svolge una funzione di accompagnamento, di guida competente verso un welfare di comunità, che rende attrattivo il vivere, il crescere, l’avere figli, il rendersi indipendenti. Dunque, lo zerosei ha un grande scopo ‘nobile’ (per contrastare la povertà minorile e addirittura invertire l’inevitabile declino del nostro Paese, depresso da un vertiginoso calo delle nascite), sapendo con molto realismo che l’investimento proposto dalla legge è di per sé significativo, oltre 200 milioni annui a favore dei servizi educativi, ma ancora insufficiente. Le stime complessive del settore 0-6 (nidi, scuole dell’infanzia, altri servizi, rette dei genitori, ecc.) ci parlano al lordo di almeno 10 miliardi di ‘valore’ complessivo. La legge, dunque, aggiunge un +2,0% al budget, una misura insufficiente rispetto a grandi obiettivi di sistema, se non sotto il profilo simbolico (chiudi gli occhi e pensa alla Danimarca e alla sue rete di servizi educativi di qualità).

    La visione pedagogica

    Dietro la proposta dello zerosei c’è un retroterra pedagogico che è maturato prevalentemente nei servizi educativi comunali del Centro-Nord, e che interpreta un modello sistemico, educativo ecologico, olistico. Ogni struttura educativa accompagna lo sviluppo dell’infanzia, non procede a strappi, non ritaglia gli ordinamenti scolastici su un’idea stadiale di sviluppo, dando per scontato che ci siano inevitabili eterocronie. Lo zerosei si incrocia con l’idea di cicli lunghi (0-6, 6-12, 12-18) che hanno funzioni e caratterizzazioni specifiche, ma che consentono percorsi personalizzati. Gli spazi open rendono possibili interessanti esperienze sociali, affettive, cognitive, tra bambini di età diverse. D’altra parte, l’elogio dei cicli lunghi è visibile anche nell’epopea degli istituti comprensivi e nel corollario del curricolo verticale.

    Dunque, è tempo di delineare delle cornici pedagogiche che mettano in evidenza questa visione pedagogica, superando tutti i ritardi e le difficoltà di questi mesi di ‘trapasso’. Ci sono due gruppi nazionali da far funzionare:

    la commissione scientifica, prevista dal decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65, che dovrebbe mettere mano all’impianto pedagogico (Linee guida per il sistema 0-6, orientamenti educativi per i nidi, riferimenti per i poli infanzia e per le sezioni primavera);

    la cabina di regia, prevista dall’Intesa Stato-Regioni del 2 novembre 2017, con il compito di supervisione, monitoraggio, definizione di indicatori, allocazione delle risorse.

    Sono il minimo indispensabile per far crescere compiutamente una cultura dell’infanzia, se non si vuole trasformare il grande zerosei in uno zerotre piccolo piccolo…

    Le parole chiave del lessico zerosei

    Ma qual è il perimetro pedagogico della cultura zerosei? Con quali parole andrebbe spiegata ai docenti, soprattutto quelli delle scuole dell’infanzia, al momento assai tiepidi nei confronti di questa prospettiva. In altre parole, quale dovrebbe essere la piattaforma delle prossime Linee Guida per lo 0-6? E quali dovrebbero essere le fonti privilegiate di questa costruzione pedagogica? Ci riferiamo non solo agli accademici, ma ai pedagogisti di strada, alle maestre, alle bambinaie, alle tante esperienze di qualità presenti nel nostro Paese.

    Forzando un po’ potremmo individuare due lessici distinti. Alcune parole chiave fanno sicuramente riferimento allo zerotre: cura, accoglienza, corpo, ascolto, mani, occhi, relazione, emozioni, parole, benessere. Anche il tresei esibisce il suo lessico pedagogico ‘potenziato’: apprendimento, curricolo, linguaggi, campi di esperienza, lingua, alfabeti.

    È di immediata evidenza che questa distinzione non regge, perché il repertorio lessicale apparentemente idoneo per spiegare un segmento illumina anche l’altro e viceversa. Questo incrocio di prospettive può alimentare un fecondo confronto di punti di vista. Prendiamo, ad esempio, la parola ‘cura educativa’: perché regalarla solo al nido? Possiamo certamente riferirci alle cure materiali, al corpo del bambini, al prenderlo in braccio, all’attenzione ai bisogni fisici primari (la sicurezza, la pulizia, l’alimentazione); ma è dal come ci si prende cura che scaturisce un preciso messaggio psicologico, di attenzione, di rassicurazione, di stimolo all’autonomia, di riconoscimento di soggettività e identità. Ma nel fare questo emerge anche il risvolto deontologico, etico, del messaggio di cura, come costitutivo della professionalità educativa. Cura ed educazione sono le chiavi interpretative per costruire un contesto di apprendimento capace di accogliere, includere, favorire la progressiva autonomia. Un atteggiamento di cura è fondamentale in ogni livello scolastico. Dunque siamo in presenza di un dispositivo pedagogico ‘generativo’ in grado di orientare un percorso educativo in continuità.

    Allora, in un nido o in una scuola dell’infanzia, chi si prende cura di un bambino? Sarà un insegnante? Un educatore? Una bambinaia? Al di là delle etichette, è un problema di professionalità diverse che si integrano per assicurare il miglior benessere del bambino in un ambiente educativo.

    In definitiva è dal benessere del bambino che scaturisce la sua disponibilità ad apprendere, a esplorare, a curiosare… il curricolo non potrà che essere ecologico, olistico, evolutivo, per significare la connessione delle tante dimensioni di sviluppo chiamate in causa dal progetto della scuola dei piccoli, che è scuola contemporaneamente dell’attenzione e dell’intenzione: che sa cioè osservare, attendere, rispettare, ma anche ‘rilanciare’, proporre, stimolare¹.

    Un arco ardito da zero a sei, col trattino

    Non è facile costruire il sistema integrato zerosei, perché ci sono delle identità storiche che vengono da molto lontano. La svolta si ebbe agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, con il protagonismo degli enti locali e delle organizzazioni sindacali. La legge istitutiva della scuola materna statale è del 1968 (legge 444/1968), quella dei nidi del 1971 (legge 1044/1971) e non a caso si collocano in una stagione di forti tensioni riformatrici, in cui videro la luce: lo statuto dei lavoratori (1970), la riforma del Servizio sanitario nazionale (1973), la legge sulla invalidità civile (1971), l’istituzione degli organi collegiale nella scuola (1973-74), il tempo pieno (1971).

    Ma la storia della scuola dell’infanzia era ancora precedente, in quanto risalente alla seconda metà dell’Ottocento, e spiega l’Italia di oggi, con una scuola diffusa a macchie di leopardo, dove in alcune regioni prevale la presenza del privato sociale cattolico, in altri operano comuni con solide tradizioni riformiste, mentre in molte regioni del Sud e nelle neo-periferie urbane è presente soprattutto lo Stato. Ancora più complessa è la situazione dei nidi (0-3) perché direttamente connessa alle condizioni sociali dei territori e al know-how democratico-riformatore-solidaristico.

    Sta di fatto che il segmento 0-3 anni vede una copertura del servizio del 23% (con punte molto differenziate tra le varie regioni), mentre il settore 3-6 anni raggiunge il 96% degli utenti potenziali. Le due torte rivelano la presenza del 50% di pubblico e del 50% di privato (fifty-fifty) per il nido, mentre nella scuola dell’infanzia il rapporto è di 70 a 30, a vantaggio del pubblico (con il 60% di presenza della scuola statale).

    In questo contesto lo zerosei è una possibile confederazione (leggera) di strutture educative che devono saper rispettare le diverse identità anche nei possibili punti di frizione della governance, tra pubblico-privato e Stato-Comune. Mai il termine governance fu più adatto.

    Una governance innovativa

    Diversi soggetti (privati, Comuni, Stato, ora anche cooperative) si sono affacciati sullo scenario dell’educazione per l’infanzia caratterizzato da un disegno non semplice da decifrare, fatto molto di gestione e poco di pilotaggio-regolazione. Anche sotto il profilo costituzionale il disegno è incerto, perché molte sentenze della Corte Costituzionale ribadiscono il carattere pienamente educativo anche dei servizi 0-3, ma poi rimandano a una governance tipicamente regionale (quella propria del welfare) la definizione di standard di funzionamento. In poche parole lasciano ‘carta bianca’ alle decisioni delle singole Regioni in materia di standard di funzionamento dei servizi educativi fino a tre anni, mettendo a repentaglio il costituendo sistema integrato (perché la definizione delle norme generali per le scuole dell’infanzia e dei livelli essenziali delle prestazioni è di sicura pertinenza dello Stato), riconducendo ancora una volta un diritto universale all’educazione e all’istruzione a variabili di tipo territoriale.

    Quindi, un diritto (quello all’educazione…) proclamato a gran voce fin dagli anni settanta del secolo scorso rischia di essere subordinato alle diverse possibilità di accesso ai servizi, diverse, appunto, da regione a regione. Questi rischi si notano in maniera appariscente anche nelle decisioni assunte di recente dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni (Intesa del 18 ottobre 2018 e d.m. 687/2018), ove appaiono forti disparità nell’assegnazione dei fondi alle regioni (nonostante un qualche riequilibrio in favore del Sud, rispetto al 2017), ma soprattutto per l’assenza di qualsiasi criterio nazionale impegnativo per tutte le regioni circa la utilizzazione dei fondi.

    Che dire allora di questa governance, così ariosa eppure così sovrabbondante (Stato, Regioni, Comuni: ognuno di questi enti ha ‘cose’ precise da fare). Lo Stato dovrebbe delineare indirizzi generali per dare impulso all’intero sistema; le Regioni garantiscono il pilotaggio qualitativo dei sistemi regionali; i Comuni sono i destinatari dei flussi finanziari. Ma ricordiamo che i comuni italiani sono 8.000, di cui 6.000 sono di piccole dimensioni, quindi in difficoltà a programmare lo sviluppo di servizi di qualità con economie di scala, come si richiede per sviluppare i poli-infanzia e i coordinamenti pedagogici.

    Il polo infanzia come laboratorio sperimentale

    Non basta l’attuazione di un provvedimento legislativo, se non si costruisce una cultura dell’educazione dell’infanzia, che rispetti le identità, le storie, gli insediamenti, ma che sappia costruire una prospettiva pedagogica unitaria. Prenderemo come oggetto analizzatore il polo infanzia.

    Possiamo esaminare il problema sotto un profilo architettonico, ma del tutto marginale. La legge prevede la costruzione di 2-3 poli in ogni regione (e fanno giusto 60 strutture, in un panorama che ne comprende all’incirca 40.000 tra nidi e scuole dell’infanzia). È vero, sono piccole strutture, scuole di prossimità, ma rappresentano la nervatura educativa nel nostro Paese.

    Possiamo rigenerare, ristrutturare, ammodernare una parte dell’attuale patrimonio edilizio, in una ottica di connessione di strutture e servizi. Beati i costruttori di scuole! Ma i mattoni non bastano, perché ci vogliono idee, motivazioni, un curricolo per sperimentare modelli pedagogici innovativi.

    Il polo infanzia può essere visto come un laboratorio che usufruisce di una ambientazione coordinata di spazi comuni, di occasioni di scambi, di diverse sfumature nella relazione educativa tra i bambini. Ma non possiamo pensare che sia una prospettiva generalizzabile, sia per la diversa presenza di strutture, sia per il dislivello nella frequenza dei due tipi di servizi educativi. Il divario tra l’accoglienza a 2 anni (nei nidi) e quella a 3 anni (nelle scuole dell’infanzia) è troppo evidente, dunque conviene considerare i poli dell’infanzia, in una ottica sperimentale, come punti di attrazione di una nuova consapevolezza pedagogica.

    La sezione primavera non è un nido low cost

    La cultura dello zerosei va costruita nei fatti, con la formazione degli operatori, i progetti di territorio, il rapporto con i genitori, anche attraverso soluzioni organizzative flessibili, ma in grado di ampliare la disponibilità dei servizi. Prendiamo le sezioni primavera per i bambini da 24 a 36 mesi. Se vengono aggregate (ovviamente con spazi ad hoc, personale ad hoc) a una scuola dell’infanzia già emerge un polo infanzia 2-6 anni, una soluzione molto pratica in Emilia-Romagna dalle scuole Fism, con un prestigioso antecedente nel Comune di Roma, ove erano state sperimentate le sezioni-ponte (che usufruivano di un quadruplice organico di educatori).

    La sezione primavera (che in genere accoglie 20 bambini) non può essere un nido low cost, perché richiede parametri di qualità elevati (ad esempio un rapporto adulti-bambino di 1 a 7), che la fanno assomigliare alla sezione grandi di un nido. Qual è allora la convenienza? Le sezioni primavera possono, a differenza di nuovi nidi, usufruire di una rete di strutture già esistenti (quelle delle scuole dell’infanzia) che possono essere riadattate; possono fidelizzare l’utenza offrendo non un mono-ennio isolato, ma una prospettiva di continuità educativa in un percorso coerente e protetto tra prima e seconda infanzia (secondo un scansione 1+3); possono avvicinare le diverse professionalità educative offrendo un ambiente che invoglia a mettersi in gioco, a tirar fuori le migliori virtù di personale insegnante, educatori, assistenti.

    In questo quadro di potenziamento delle sezioni primavera anche lo Stato, che è l’azionista di maggioranza delle scuole dell’infanzia, può fare la sua parte e incentivare questa soluzione, almeno nelle aree sprovviste di altre possibilità, consolidando e stabilizzando situazioni oggi altamente precarie. Serve una maggiore flessibilità di soluzioni organizzative, contrattuali, operative, salvaguardando la qualità dei servizi educativi.

    Il coordinamento pedagogico:

    far crescere la comunità professionale

    Ma chi è in grado di far crescere questa cultura dell’infanzia, dentro e fuori la scuola? Quando parliamo di qualità dei servizi, non parliamo di un nido o di una scuola. A tal fine è necessaria una supervisione professionale ravvicinata, che consiste in una capacità di affiancamento, di orientamento dei colleghi. Semmai si dovrebbe discutere di quale sia il distanziamento migliore rispetto al lavoro d’aula (cioè se posizionare le funzioni di coordinamento nel territorio, fuori della scuola, per interventi di secondo livello, oppure se affidarli a colleghi sul campo, a figure docenti intermedie che operano a stretto contatto con i colleghi).

    Un lavoro di formazione comune, che veda insieme operatori provenienti da diverse esperienze, apre la strada a una integrazione di competenze, a una visione comune della crescita dei bambini, ad una migliore professionalità. Una cura particolare va messa nella costruzione di una specifica realtà di coordinamento all’interno della scuola dell’infanzia statale, sia per la diversità di status giuridico, sia per la connessione con il ruolo dei dirigenti scolastici, sia per le più incerte prospettive di realizzazione. Anche la legge suggerisce di valorizzare, per avviare forme di coordinamento, le risorse dei diversi soggetti che operano nel sistema integrato. Per la scuola statale sono possibili molte ‘sfumature’ di coordinamento, attraverso forme di esternalizzazione di compiti (attraverso incarichi a pedagogisti), ma anche con la utilizzazione di docenti statali ad hoc (attraverso le possibilità offerte dall’organico di potenziamento), lo sviluppo delle attuale figure e funzioni intermedie (come le funzioni strumentali).

    Un buon coordinamento pedagogico, che rispetta e valorizza le diverse realtà, è un ottimo banco di prova per il sistema integrato.

    Una buona formazione per tutti

    L’attitudine permanente al confronto, alla rielaborazione delle pratiche, alla documentazione delle esperienze configurano una permanente postura ‘riflessiva’ da parte degli adulti educatori, che è la chiave di volta di ogni professionalità. Questo sapere non si costruisce spontaneamente e individualmente. Richiede il consolidarsi di una comunità professionale, con senso di appartenenza, responsabilità, capacità di comunicare, di condividere conoscenze e situazioni. Richiede figure anche tendenzialmente ‘esterne’ capaci di favorire questo rispecchiamento, con funzioni di feedback continuo e di tutoraggio. Percorsi di autovalutazione e di autoformazione (ove auto… sta per partecipazione consapevole e attiva a momenti di confronto) possono contribuire allo sviluppo professionale, che richiede di sentirsi ben accolti nella propria organizzazione professionale, di essere ascoltati e aiutati, di usufruire di opportunità di crescita e valorizzazione.

    Intese provinciali e locali (di ambito e di distretto) tra le diverse figure pedagogiche sono la migliore garanzia per la promozione, progettazione e gestione di attività formative per gli educatori-insegnanti, tali da superare la logica del semplice corso di aggiornamento e trasformarla in una forma di accompagnamento permanente, di supporto all’azione di educazione e cura, di affinamento delle capacità organizzative e didattiche.

    Sarebbe un segnale incoraggiante se gli accordi nazionali sull’utilizzo delle risorse prevedessero che non meno del 5% delle risorse disponibili fosse destinato alla formazione in servizio del personale.

    Autovalutazione e riflessività: un approccio mite

    L’avvio della sperimentazione di Invalsi sul RAV – Rapporto di Autovalutazione – rivolta alla scuola dell’infanzia (nelle sue diverse tipologie gestionali: statali, comunali, paritarie e private) rappresenta un’occasione di incontro e confronto all’interno del sistema integrato, per condividere una visione comune di educazione, a partire dalla costruzione di indicatori e di rubriche, dalla comparazione, dalla riflessione e stimolo al miglioramento, dalla rendicontazione sociale. Una vera ricerca, tuttavia, non può limitarsi alla messa in prova ‘esecutiva’ di indicatori decisi altrove, ma deve comportare una partecipazione dal basso nella condivisione del senso e delle misure della qualità.

    La scuola dell’infanzia (e il nido) possono portare un tocco di qualità alla cultura della valutazione nel sistema educativo italiano, in una ottica formativa, di descrizione, di analisi dei contesti educativi e di lettura non classificatoria dello sviluppo dei bambini.

    Una valutazione rigorosa, ma mite, che implica anche forme di valutazione esterna, può rappresentare la migliore alternativa all’installazione delle telecamere nei servizi educativi, come si sta invece prospettando in alcune proposte di legge.


    1 Cfr. il documento del Miur: Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 22 febbraio, 2018. Il testo delle Indicazioni/2012 e gli aggiornamenti normativi sono disponibili al link citato a p. 2.

    PARTE I

    Check up all’infanzia

    e alla sua scuola

    Psicologia dell’apprendimento

    di cinzia Mion

    Le Indicazioni per il curricolo del primo ciclo

    Perché una psicologia dell’apprendimento alla scuola dell’infanzia? Le Indicazioni sono ricchissime di implicazioni pedagogiche, come è giusto che sia, ma anche di conoscenze desunte dalla psicologia dell’educazione e dell’apprendimento. Per affrontare qualche nozione di questa disciplina così affascinante bisogna partire da cenni storici, sia pur elementari, della stessa. Un discorso a parte merita Piaget, considerato il padre della psicologia dell’età evolutiva ma utilizzato, per andare oltre, sia da Bruner che da Vygotskij.

    Jean Piaget (1896-1980) e gli stadi di sviluppo

    Com’è noto Piaget ha studiato la maturazione dell’intelligenza tenendo presente il modello della logica formale, cercando di individuare i processi psicologici e i rapporti intercorrenti fra processi psicologici e processi logici. Rispetto a questo sono illuminanti: la genesi del concetto di numero, lo sviluppo delle quantità fisiche e la loro conservazione, le operazioni della classificazione e seriazione, la rappresentazione dello spazio, l’immagine mentale, il linguaggio, ecc. Per Piaget l’intelligenza è una forma di adattamento attraverso un equilibrio continuo tra assimilazione (dell’esperienza) e accomodamento.

    Per quanto riguarda la genesi delle strutture intellettuali, Piaget individua 4 stadi fondamentali:

    Intelligenza senso-motoria:0-4 mesi, appaiono i comportamenti riflessi (suzione, fonazione, prensione, ecc.) e le reazioni circolari primarie (per la tendenza alla ripetizione di un movimento casuale subito dopo la percezione del risultato); 4-6 mesi: emergono le reazioni circolari secondarie, caratterizzate dall’intenzionalità; 8-9 mesi: si appalesa la cosiddetta costanza dell’oggetto, si perfezionano le nozioni spaziali, temporali e causali; 12 mesi, si configurano i primi veri e propri atti intelligenti: comprensione improvvisa della soluzione di un problema, sperimentazioni continue (dentro-fuori, sopra-sotto…); nelle reazioni circolari terziarie si presentano nuovi schemi senso-motori dovuti a scoperte volontarie, non fortuite, di nuove relazioni tra gli oggetti reali presenti.

    Intelligenza rappresentativa preoperatoria:

    18-24 mesi, dopo questa età appare il pensiero simbolico che avrà la forma dell’imitazione differita, del gioco simbolico insieme al ‘fare finta’ e infine del linguaggio verbale. Queste interessantissime modalità si notano benissimo all’età delle sezioni primavera;

    2-4 anni, fase preconcettuale. Il bambino non è ancora capace di relazionare i concetti di spazio, tempo, causa. Il suo ragionamento è transduttivo (un pensiero che va dal particolare al particolare);

    4-7 anni, fase del pensiero intuitivo (caratteristiche: animismo, artificialismo, finalismo). Il suo pensiero è però rigido e irreversibile (caratterizzato dall’impossibilità di annullare, invertire o compensare un risultato o tenere contemporaneamente presenti due caratteristiche). È presente la difficoltà a mantenere la conservazione della quantità.

    Intelligenza operatoria reversibile: il pensiero interagisce con gli oggetti, supera l’egocentrismo, e permette la coesistenza, a livello mentale, di due situazioni che nella realtà si escludono a vicenda. Le espressioni ‘pensiero reversibile’ e ‘pensiero operatorio’ sono indicative dello stesso stadio perché con il pensiero reversibile sono possibili le operazioni di conservazione di quantità continue e discontinue, seriazione, classificazione, numerazione, ecc.

    Intelligenza formale o del pensiero ipotetico-deduttivo: 11-14 anni:il soggetto è in grado di fissare il valore dell’astrazione, elabora ipotesi attendibili, sa procedere per via deduttiva (se… allora).

    Il comportamentismo

    Il comportamentismo vede le sue origini, e la sua fortuna, nella prima metà del 900. Parte dal condizionamento reattivo pavloviano (cane di Pavlov): stimolo, risposta, rinforzo. Tutto ciò che si impara attraverso la ripetizione, l’abitudine e l’addestramento avviene attraverso lo schema del condizionamento reattivo. Se si interrompe la ripetizione della triade, o si sospende il rinforzo, si estingue la risposta. Basta pensare al problema del ‘ripasso’ a scuola delle conoscenze memorizzate nella memoria meccanica e non semantica.

    Successivamente comparve il condizionamento operante, consistente in un aggiustamento del condizionamento pavloviano. Si parte dalla constatazione che nella realtà non si può isolare lo stimolo come avviene nel laboratorio: si partirà allora dalla risposta-reazione auspicata che verrà subito rinforzata. È questa l’origine dell’importanza del rinforzo positivo (contrariamente a quello negativo che sospende solo la risposta indesiderata).

    Esempi significativi del comportamentismo operante sono la gabbia di Skinner e l’apprendimento per prove ed errori che ne deriva, con l’istruzione programmata (di cui rimane una piccola traccia autarchica, al posto delle macchine per insegnare: gli schedari autocorrettivi). Dall’istruzione programmata ricaviamo un insegnamento ancora valido, consistente nella spinta motivazionale e rinforzante che deriva dalla conoscenza dei risultati man mano che si procede nell’affrontare un compito (feedback).

    Il comportamentismo vide il suo declino in America quando apparve la psicologia della Gestalt (la sua fortuna era durata dai primi anni del Novecento fino verso gli anni Trenta-Quaranta), ma alcune sue intuizioni sono ancora valide. Tante cose si apprendono per imitazione o per stimolo-risposta-rinforzo, ma questo non accade per gli aspetti di qualità dei processi di pensiero. Il comportamentismo aveva il pregio della semplicità ma il difetto del riduzionismo. Restano fuori dalla sua analisi le conoscenze disciplinari insegnate a scuola, troppo complesse, le interazioni sociali e concetti per cui oggi noi sappiamo serve una comprensione profonda. La programmazione curricolare, diffusa tra noi negli anni Settanta, affonda le sua radici nel neo comportamentismo.

    Psicologia della Gestalt (forma)

    Intorno agli anni Trenta si trasferirono in America, per sfuggire alle persecuzioni razziali, i principali psicologi tedeschi della ‘forma’ (Kolher, Koffka, ecc) e più tardi anche Wertheimer (Il pensiero produttivo) e Lewin (psicologia del campo). Gli psicologi della Gestalt erano arrivati alle conclusioni che i fenomeni dell’esperienza percettiva si presentano come una configurazione dotata di completezza e significatività e obbediscono a delle leggi (vicinanza, uguaglianza, forma chiusa, curva buona e del destino comune, ecc.) che, secondo Wertheimer, sono diverse da quelle seguite dal comportamentismo e sono isomorfe tra percezione e pensiero. Come la percezione struttura e ristruttura finché trova una forma che abbia un significato, così il pensiero ristruttura il ‘campo cognitivo’ fino a trovare la soluzione al problema (problem solving). Ad esempio, la scimmia di Kolher che a un certo punto ristruttura il campo percettivo-cognitivo e ha l’intuizione (insight) che il bastone, prima non messo a fuoco, improvvisamente viene percepito per essere usato come un prolungamento per risolvere il problema (avvicinare la banana). In questo modo era come se si entrasse nella scatola nera della mente (così veniva descritta dai comportamentisti che si soffermavano solo sui comportamenti ‘osservabili, descrivibili, valutabili’) dando così inizio a una ricerca che sfociò nel cognitivismo.

    Abbiamo visto che la mente umana non opera solo per tentativi ed errori (Skinner e la sua gabbia) ma anche per ristrutturazioni delle percezioni, intuizioni e invenzioni, e soprattutto attraverso il problem solving: tale strategia sarà considerata indicativa del funzionamento di processi mentali superiori fin dalla più tenera età.

    Il padre del cognitivismo:

    Jerome Bruner (1915-2016)

    Negli anni Sessanta si affaccia sulla scena uno psicopedagogista americano dalle idee rivoluzionarie e affascinanti: Jerome Bruner. Bruner, anche in Italia, si è fatto subito conoscere e apprezzare con i suoi testi Dopo Dewey e, successivamente, Verso una teoria dell’istruzione, sottolineando la visione troppo schematica e riduttiva del comportamentismo.

    Nel primo saggio egli affermò la necessità di svincolare la ricerca sulla psicologia dell’apprendimento da situazioni di laboratorio, dichiarando indispensabile affrontare la situazione in classe. In sostanza Bruner esalta l’apprendimento per scoperta, che avviene se l’insegnante sollecita il pensiero intuitivo che permetterà l’inferenza logica.

    Noi rileviamo oggi che le Indicazioni già a partire dalla scuola dell’infanzia raccomandano che i bambini, all’interno di una sollecitazione a problematizzare la realtà, provino ad avanzare ipotesi, in altre parole a pensare con la loro testa e non a ricevere spiegazioni immediate e preconfezionate. Questo è possibile perché avviene sotto la spinta delle motivazioni intrinseche, cioè autogratificanti. Non c’è bisogno di rinforzi positivi o negativi, premi o castighi, definiti motivazioni estrinseche, sollecitate dalle strategie comportamentiste per condizionare i comportamenti e sollecitare le risposte attese.

    Secondo Bruner per sostenere il piacere autentico del conoscere è molto meglio coltivare quelle intrinseche: la curiosità, il desiderio di competenza, l’identificazione con le persone particolarmente significative (gli insegnanti sono fra queste) e la reciprocità. Bruner aggiunge che sarà però imprescindibile riempire i canali mentali d’oro e non di scorie, per cui raccomanda che gli aspetti da scoprire siano le idee strutturali delle discipline, non i singoli elementi che costituiscono solo il tessuto connettivo. Questo permetterà di "andare oltre l’informazione data" perché attraverso i nuclei fondanti delle discipline si afferma la generatività della conoscenza.

    Dobbiamo inoltre a Bruner la scansione della triade della sequenza della didattica cosiddetta del fare o laboratoriale, molto significativa per tutti gli ordini di scuola ma fondamentale alla scuola dell’infanzia: per poter veramente integrare la conoscenza, ossia farla propria per riutilizzarla, bisogna partire dalla rappresentazione attiva (un’azione vera e propria), cui seguirà la rappresentazione iconica (riproduzione grafica dell’azione, schema spaziale, immagine, disegno, schizzo); alla fine sarà possibile utilizzare la rappresentazione simbolica (tradurre tutto in parole, linguaggio orale o scritto). Questa sequenza appare nella definizione della ‘competenza’, nelle Indicazioni, dove si parla di riflessione sull’esperienza e dove il termine traccia sta proprio a indicare la rappresentazione iconica del lavoro pratico realizzato dai bambini.

    Grande importanza in tempi successivi Bruner darà alle strategie metacognitive, che consistono nella consapevolezza e nel controllo dei propri processi cognitivi, la cui costruzione va sollecitata dai docenti per insegnare l’imparare a imparare.

    Il cognitivismo e i processi cognitivi

    Il cognitivismo, di cui Bruner è stato considerato il padre, tra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, ha portato attenzione verso il contenuto dell’apprendimento e il contesto, percettivo e sociale, in cui si elabora l’informazione; ciò ha messo in crisi definitivamente il comportamentismo. Questo filone poggia sulla nuova visione dell’apprendimento focalizzato intorno ai risultati della ricerca sui processi cognitivi, implicati nell’istruzione, legati all’approfondimento sull’intelligenza artificiale. Vengono messi a punto alcuni costrutti chiave: processazione dell’informazione, schema, metacognizione, ecc. Ci si sofferma sui processi di elaborazione dell’informazione, come la trasformazione, la riduzione, l’immagazzinamento e recupero dalla memoria che si evidenziano nel comprendere, ricordare, ragionare e risolvere problemi, vale a dire nella gran parte del lavoro scolastico. Particolare interesse assumono i meccanismi di memoria a breve e a lungo termine e i processi di controllo dell’attività cognitiva che verrà chiamata metacognizione. Apprendere infatti, per i cognitivisti, non è mai solo immagazzinare l’informazione ma diventa essenziale connetterla all’informazione precedente, nella memoria a lungo termine.

    Nella didattica scolastica questo avvertimento risulta degno di attenzione e in genere si attua, alla scuola dell’infanzia, recuperando e accennando alle tracce del lavoro precedente. Significa aiutare i bambini a sviluppare una intelligenza connettiva. La conoscenza perciò va costruita attraverso diverse strategie. In questo modo possiamo definire, insieme ai cognitivisti della seconda generazione, l’apprendimento scolastico costruttivo e strategico. I blocchi di conoscenza, intorno ai quali costruire conoscenza, facendoli evolvere per espansione, sono schemi, script, frame, ecc.

    Vygotskij (1896-1934) e l’origine sociale

    dei processi mentali superiori

    Il modello di psicologia dell’apprendimento, soggiacente al testo delle Indicazioni nazionali, come si desume da molti indicatori che andremo ad analizzare, è quello socioculturale vigotskiano.

    La psicologia di Vygotskij ha influenzato in modo considerevole le ricerche americane ed europee, in momenti diversi, in relazione alla diffusione dei suoi scritti in Occidente. Dopo la prima traduzione del suo Pensiero e linguaggio (1962), si ebbe un’incidenza sugli scritti di Bruner. L’idea portante è che la cultura di appartenenza intervenga in modo significativo sullo sviluppo umano. A proposito di questo Bruner usa il concetto di amplificatore culturale, tra cui il linguaggio verbale è il più potente.

    Vygotskij ha conosciuto il pensiero piagettiano attraverso la prima opera degli anni Venti, ma contrappone alle sue pretese epistemiche universali, oggettive e ‘aculturali’ la relatività culturale, storica e soggettiva dell’uomo, espressa dallo strumento principe della comunicazione che è il linguaggio. In Vygotskij possiamo distinguere due fasi: la prima, quella dell’ascendente su Bruner, fino agli anni Settanta; l’altra, più prettamente socioculturale, è arrivata a influenzare le Indicazioni nazionali per il primo ciclo e non solo.

    Uno dei concetti fondamentali di tale approccio è il contesto, all’interno del quale si realizzano attività strutturate in interazione con gli altri; l’intersoggettività regge l’apprendimento e la sua diffusione. L’apprendimento non sarà solo strategico ma anche co-costruttivo e interattivo; nelle Indicazioni la sezione o la classe verrà definita comunità di apprendimento. Con ciò si intende specificare un contesto ricco di risorse multiple e dislocate, messe a disposizione di tutti, in cui ogni bambino deve essere invitato e attivato a interagire per la crescita di tutti.

    Per questo brillante e profondo autore il pensiero è la mente in azione, in inter-azione con l’altro e con

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