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Una certa idea di valutazione: Apprendimenti, insegnanti, scuole, sistema
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E-book311 pagine3 ore

Una certa idea di valutazione: Apprendimenti, insegnanti, scuole, sistema

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Info su questo ebook

Il testo raccoglie idee, spunti, esempi sul tema della valutazione, vista nei suoi molteplici aspetti (di verifica degli apprendimenti, di approfondimento del lavoro dei docenti, di rendicontazione dell'efficacia del servizio scolastico ). La tesi dell'autore è che la valutazione debba essere considerata un'occasione di regolazione dei processi educativi, orientata al miglioramento, alla conoscenza, alla riflessività, e non essere vissuta come uno strumento selettivo, sanzionatorio, di giudizio inappellabile. I saggi affrontano con un taglio discorsivo le ultime novità normative in materia di valutazione (DPR 122/2009) fino alle recenti sperimentazioni promosse dal MIUR (2012).
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2014
ISBN9788898969128
Una certa idea di valutazione: Apprendimenti, insegnanti, scuole, sistema

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    Anteprima del libro

    Una certa idea di valutazione - Giancarlo Cerini

    seguono.

    PARTE PRIMA

    VALUTARE PER MIGLIORAR(SI)

    Capitolo 1

    La cultura della valutazione…

    Tutti d’accordo sulla valutazione?²

    Non c’è progetto politico o culturale che, nell’auspicare un futuro migliore per la nostra scuola³, non inserisca la ‘valutazione’ tra le parole chiave per costruire i nuovi scenari educativi. La società politica, e ancor più quella civile, sembrano concordi nel chiedere di introdurre dosi massicce di valutazione nel sistema educativo. L’approvazione praticamente all’unanimità della legge 176/2007, che introdusse le rilevazioni generalizzate degli apprendimenti, è un fedele termometro di un sentimento assai diffuso nell’opinione pubblica che associa la parola valutazione a responsabilità, trasparenza, qualità.

    Ma è sul fronte ‘interno’ che si manifestano le maggiori diffidenze, tra gli insegnanti e le loro rappresentanze professionali e sindacali, a partire dalla diffusa ostilità nei confronti delle prove Invalsi. Queste resistenze non possono essere liquidate chiamando in causa la tradizionale autoreferenzialità degli addetti ai lavori, che sarebbero da sempre refrattari (e non solo in Italia) nei confronti di strumenti valutativi considerati eccessivamente invasivi. Evidentemente c’è dell’altro, e occorre chiarire meglio i termini della questione, per costruire una cultura della valutazione sufficientemente condivisa anche all’interno della scuola, oltre che dall’opinione pubblica.

    Una deontologia della valutazione

    Prima ancora degli strumenti, delle scelte tecniche, è dunque necessario definire il ‘senso’ della valutazione e perché la si voglia rendere più incisiva e affidabile. Anche per sgomberare il campo dall’idea che valutazione coincida con controllo, sanzione, giudizio, quindi con un significato negativo, quasi minaccioso, certamente non amichevole. La valutazione degli allievi assume talvolta una funzione ‘espulsiva’ (si pensi al valore non solo simbolico della bocciatura)⁴, ma deve soprattutto consentire di migliorare l’insieme delle azioni di tutti i soggetti e fattori implicati nella relazione educativa (gli allievi, gli insegnanti, ma anche l’organizzazione, le strutture, l’amministrazione). Svolge dunque una funzione di regolazione dei processi, introduce momenti di riflessività, stimola il miglioramento, sul piano degli apprendimenti degli allievi, ma anche su quello istituzionale⁵.

    In questa stagione di crisi acuta nel rapporto tra scuola e società civile, si deve ammettere che una maggiore trasparenza in fatto di valutazione è un prerequisito per riposizionare la scuola agli occhi della comunità sociale, per ridefinire un patto di reciproca fiducia (risorse in cambio di qualità). Forse il ripristino del voto nasce da questo clima, ma rivela anche la debolezza dell’attuale discorso pubblico sulla valutazione⁶, quasi che la (presunta) semplicità del voto sia in grado di esorcizzare la complessità dell’azione valutativa, o che l’enfasi sui risultati da raggiungere possa far dimenticare la qualità dei processi cognitivi e sociali da promuovere. La valutazione non può essere un blitz docimologico.

    A monte dell’intera questione c’è dunque un problema etico, deontologico, prima ancora che docimologico.

    Valutare solo l’apprendimento degli allievi?

    Ma preliminare è anche delimitare gli oggetti della valutazione: che cosa si dovrebbe valutare? Oggi c’è una forte spinta verso la valutazione degli apprendimenti degli allievi, che si manifesta con:

    -le prove standardizzate somministrate a intere leve di allievi del primo e secondo ciclo;

    -l’introduzione di una prova nazionale strutturata nell’ambito dell’esame di terza media;

    -la partecipazione dei quindicenni alle indagini internazionali Pisa;

    -la richiesta di certificare le competenze lungo tutto il percorso scolastico.

    Qualche osservatore ha parlato di un vero e proprio accanimento o di ossessione valutativa, paventando gli effetti deleteri sulla vita delle classi, con l’emergere di un conformismo cognitivo a scapito degli aspetti relazionali, operativi, creativi, divergenti dell’apprendimento. Certamente l’impatto simbolico di tali scadenze è rilevante, forse gli effetti pratici lo sono assai meno. Occorre però riequilibrare l’attuale tendenza tutta spostata sulla rilevazione standardizzata degli apprendimenti e mettere a fuoco altri aspetti determinanti per la qualità di una scuola⁷, come:

    -gli apprendimenti non compresi nelle rilevazioni strutturate (limitate a italiano e matematica) e comunque osservati anche con procedure non standardizzate;

    -il clima etico-sociale e i valori promossi a scuola (ad es., competizione vs cooperazione, inclusione vs esclusione, integrazione vs separazione?);

    -gli effetti a lunga scadenza (l’ outcome ), nei percorsi formativi successivi, nel lavoro, nella vita;

    -il gradimento degli utenti, della comunità, degli stakeholder ;

    -i fattori organizzativi interni, in primis la qualità degli apporti professionali delle diverse componenti, in particolare docenti e dirigenti.

    Il discorso ci porterebbe lontano, ma non possiamo poggiare la valutazione sulle sole spalle degli allievi, senza coinvolgere tutti gli elementi del sistema educativo, non fosse altro per arricchire le informazioni di contesto, utili ad apprezzare il ‘valore aggiunto’ prodotto dall’intervento della scuola.

    L’impatto delle rilevazioni nazionali

    È giusto sottolineare il carattere conoscitivo e non fiscale che le prove Invalsi dovrebbero assumere per le classi interessate, ma è anche evidente che una somministrazione così massiccia e generalizzata (obbligatoria) delle prove per intere leve di popolazione scolastica (tutti gli allievi di tutte le classi seconde e quinte elementari, prime e terze medie, seconde e quinte superiori) finisce con l’assumere un forte rilievo istituzionale. Il fatto poi che le prove strutturate siano state inserite all’interno di una prova d’esame (3a media) cambia in parte il significato delle rilevazioni, per gli effetti legali che producono⁸.

    Basti pensare al range di difficoltà delle prove: se sono proposte a scopo unicamente conoscitivo si può, in via teorica, spingere a fondo anche verso l’eccellenza (per esplorare aree di sviluppo potenziale dell’apprendimento), se invece hanno un valore legale occorre maggiore cautela, ad esempio un più chiaro collegamento con gli insegnamenti effettivamente impartiti.

    Se ci forniscono informazioni utili a migliorare la qualità della didattica per ogni scuola, è giusto che le prove siano censuarie⁹, controbilanciate però dall’impegno che i dati siano utilizzati in via riservata, in termini tecnico-professionali, solo dagli operatori della scuola interessata.

    Tali dati, dunque, non possono essere resi pubblici fino al dettaglio di scuole e di classi. Questo è anche il ‘patto d’onore’ che al momento lega le scuole all’Invalsi¹⁰, anche se non ci nascondiamo il fatto che molti opinionisti spingono per la completa pubblicità di risultati delle prove. Ma autorevoli esperti hanno messo in evidenza che un simile meccanismo provocherebbe un’ulteriore differenziazione tra buone e cattive scuole¹¹.

    La qualità delle prove

    Molte delle critiche rivolte all’Invalsi fanno riferimento all’estraneità delle prove rispetto alle pratiche didattiche correnti. Ci si chiede: vige un’ampia autonomia didattica e curricolare, che tiene conto delle caratteristiche degli allievi e dei diversi contesti sociali, come è possibile sottoporre tutti gli allievi alle medesime prove? È evidente che la questione potrebbe essere rovesciata: se la differenziazione tra le proposte didattiche è così accentuata non rischia forse di venire meno il valore unificante della scuola pubblica? E non potrebbero proprio essere gli stimoli forniti da prove nazionali a favorire una maggiore convergenza, evitando una totale autoreferenzialità che finirebbe per penalizzare le realtà più deboli? In fondo, anche un sistema nazionale di valutazione fa parte delle garanzie per pari opportunità nell’istruzione (ivi comprese le misure compensative di fronte alle criticità rilevate).

    La cautela è però d’obbligo, anche tenendo conto delle caratteristiche delle prove: limitate a poche discipline (italiano e matematica), anzi ad alcuni ambiti di tali discipline (in italiano solo comprensione dei testi e conoscenze grammaticali), in forma di item strutturati (quindi con una tendenza alla convergenza cognitiva), non sempre coerenti con le Indicazioni curricolari vigenti (e comunque in assenza di chiari standard dei risultati attesi).

    Si osserva un certo miglioramento tecnico, scientifico e docimologico delle prove elaborate dall’Invalsi; si amplia il circuito degli operatori scolastici e degli esperti coinvolti nell’elaborazione dei test; le competenze matematiche e linguistiche (testuali) sottese alle prove sembrano in sintonia con le più accreditate ricerche didattiche sulle due discipline¹². Al centro sembrano essere non solo elementi e contenuti di conoscenze, isolati da contesti reali di acquisizione, ma processi di argomentazione, di problem solving, di connessione di dati e informazione, indicatori di ‘mobilità cognitiva’ lontani dalla povertà mnemonica dei ‘quiz’¹³.

    Vale la pena tenere sospeso il giudizio, ricordando comunque che la rilevazione degli apprendimenti non può fissarsi solo sulle prove strutturate, ma deve tenere aperto il ventaglio degli strumenti (prove semistrutturate, esercitazioni tradizionali, valutazione autentica, diari di bordo, compiti di realtà, ecc.). C’è molto altro al di là dei test, ma questi non possono essere demonizzati. Le prove Invalsi impegnano gli allievi due giorni sui 200 di un anno scolastico. Restano 198 giornate per mettere alla prova (con quali strumenti?) apprendimenti di qualità eventualmente superiore (ma è proprio così?). L’autonomia di ricerca, anche in materia di valutazione, è una prerogativa che spetta ai collegi dei docenti. Occorre avvalersene. Chiamarsi ‘fuori’ da ogni forma di valutazione esterna non è un buon segno di professionalità.

    La ricaduta sulle pratiche didattiche

    Il problema vero diventa dunque quello di evitare il teaching to test (insegnare in funzione della risoluzione dei test) e di migliorare comunque la qualità della didattica, anche utilizzando i materiali delle prove di apprendimento. Si è cercato di fare questo in due ampi progetti di ricerca e formazione svoltisi in questi anni in Emilia-Romagna¹⁴, a partire dall’analisi intelligente delle diverse tipologie di prove (Invalsi, Ocse-Pisa, Iea, ecc.) e dalla riflessione sul loro diverso impatto nelle classi. Lavorare sulle prove, e non in funzione della soluzione delle prove, può produrre alcuni interessanti risultati:

    -riferire con sicurezza le prove a quadri di riferimento concettuali, da cui emerga il valore cognitivo delle consegne e dei quesiti proposti;

    -favorire un’interpretazione ‘formativa’ delle discipline previste dai curricoli vigenti, con la descrizione degli apprendimenti effettivamente promossi;

    -analizzare i motivi di criticità di certe prove e collegarli anche alle caratteristiche dell’insegnamento (tempo dedicato, metodologie adottate, sottovalutazione di determinate abilità);

    -far emergere le funzioni cognitive più richieste dalle prove (ad es., esplorazione dei dati, individuazione di relazioni, produzione di ipotesi, inferenze, argomentazioni, transfer… ecc.) e impostare la didattica in modo che gli studenti possano farne esperienza più spesso (non limitandosi a memorizzazioni, ripetizioni, applicazioni di regole o algoritmi appresi);

    -elaborare prime strategie di recupero, attraverso una diversificazione delle consegne, la riformulazione del linguaggio, l’introduzione di elementi di facilitazione (disegni, grafici, esempi, ecc.), facendo così scoprire l’efficacia della mediazione didattica.

    Il feedback sulla didattica è l’aspetto più interessante che si può ricavare dall’analisi critica delle prove e dal lavoro di ricerca che ogni scuola dovrebbe autonomamente produrre, senza l’assillo della competizione pubblica (che non ha ragione di essere e che va comunque contenuta).

    L’uso dei dati valutativi

    L’ostilità alle prove che si è diffusa tra gli insegnanti trova alcune ragioni di carattere culturale (evitare che il testing sia l’unico imprinting per l’apprendimento e snaturi la qualità ordinaria dei processi di insegnamento), altre di natura sindacale (per compiti aggiuntivi assegnati implicitamente ai docenti, come la somministrazione delle prove e la tabulazione dei dati, oltre che la loro lettura e interpretazione), altre infine legate al timore di un uso improprio ai fini della valutazione di scuole e insegnanti attraverso i risultati del testing. Il Ministero ha in parte risposto a tali critiche¹⁵.

    La sperimentazione in materia di valutazione di scuole, avviata dal MIUR, offre il destro a questa preoccupazione. Con qualche doverosa precisazione¹⁶. La sperimentazione della valutazione dei docenti, limitata nel 2011 a poche scuole in poche province, esula dai risultati dei test Invalsi, essendo basata piuttosto sull’apprezzamento del curriculum/portfolio e sulla reputazione attestata da genitori. Viceversa, la valutazione delle scuole (sempre pochi casi in altre province) tiene in considerazione gli esiti dell’Invalsi (nello scarto tra elementari e medie) con la stima del ‘valore aggiunto’, un dato depurato dai fattori di contesto (condizioni sociali e caratteristiche degli allievi), unito però all’osservazione diretta della scuola da parte di équipe esterne.

    Al di là dei criteri di valutazione, sempre discutibili ma da mettere alla prova, ciò che più fa discutere è il meccanismo competitivo che si vorrebbe introdurre. Infatti, la valutazione ‘esterna’ dà luogo a una graduatoria di merito, ove solo una quota (il 20% circa di insegnanti e di scuole) alla fine viene considerata meritevole di un premio. Le nuove sperimentazioni, per il 2012, dovrebbero eliminare la premialità selettiva, per stimolare in tutti comportamenti virtuosi e miglioramento, attraverso procedure più coerenti con la dimensione collaborativa che si pratica a scuola¹⁷.

    Va anche ricordato che la previsione contenuta nel d.lgs. 150/2009 (c.d. Brunetta) prevede l’introduzione di meccanismi premiali nella pubblica amministrazione (con incentivi al 25% dei dipendenti migliori), ma rimanda a un successivo provvedimento normativo, poi emanato con d.P.C.M. del 26 gennaio 2011, l’applicazione di tali principi all’area della docenza, proprio in virtù della sua specificità.

    Dalla valutazione alla ri-progettazione

    Le tormentate vicende della valutazione nel nostro paese ci offrono abbondanti motivi di riflessione. Intanto ci mettono in guardia dalle semplificazioni nazional-popolari (come è stata la reintroduzione del voto in decimi nel 2008), dalle approssimazioni che rischiano di bruciare intuizioni interessanti (come è il caso della certificazione delle competenze), dall’utilizzo improprio delle rilevazioni generalizzate degli apprendimenti (con la ricorrente tentazione di condizionare un giudizio negativo verso la scuola pubblica), dall’accelerazione sulla valutazione di scuole e prestazioni del personale (da ricondurre a una logica di effettiva valorizzazione).

    C’è bisogno di un buon sistema di valutazione, che sappia fare il suo mestiere con correttezza e sobrietà, che non abbia la pretesa di esprimere giudizi sanzionatori verso chicchessia, che interpreti un ruolo di accompagnamento e di supporto alle scuole.

    Occorre ampliare il ventaglio degli oggetti da osservare, trasformare l’azione di valutazione in un’azione di contatto, di dialogo, di aiuto alla scuola: osservare l’attività didattica, parlare con i ragazzi e i genitori, vedere se le professionalità crescono, cogliere la soddisfazione degli stakeholder, imprimere un dinamismo positivo e una nuova credibilità alla scuola. In fondo, la propensione all’autovalutazione va incrociata con elementi di valutazione esterna, in un confronto aperto di sollecitazioni che possono far crescere¹⁸. Si può parlare correttamente di valutazione se teniamo insieme le funzioni di survey, di supervisione professionale, di auditing, di stimolo al miglioramento.

    Le diverse occasioni che la normativa offre (il 30% dei risparmi da destinare al merito, l’incentivazione brunettiana dell’eccellenza, i dispositivi per l’attuazione del nuovo Sistema di valutazione) rappresentano altrettante sfide che ogni Governo deve affrontare con generosità, con la massima apertura al dialogo sociale, con la ricerca di una condivisione tra tutti i soggetti, per il comune obiettivo di rimettere al centro dell’attenzione e della stima del paese una scuola pubblica che sa fare bene il proprio mestiere (e che lo dimostra, anche attraverso la valutazione).

    Capitolo 2

    Il voto: un oggetto nazional-popolare

    Prima e dopo il voto, dentro e fuori la scuola¹⁹

    Le vicende di questi ultimi anni in materia di valutazione, come il ripristino del voto in condotta e il ritorno dei voti numerici nella scuola di base, aboliti nel lontano 1977, segnalano un rapporto difficile tra le esigenze ‘interne’ degli addetti ai lavori e le aspettative ‘esterne’ della società. Ormai sembra che i valori che ispirano coloro che operano nell’ambito della scuola (pensiamo alle idee di inclusione, accoglienza, pari opportunità, solidarietà) siano assai lontani dalle tendenze della società civile, ove prevalgono l’affermazione dell’individuo, la competizione, il successo. Anche la questione del voto (e più in generale della valutazione a scuola) non sfugge a questo dilemma. Chi sta a scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, è legato a una prospettiva di valutazione formativa, orientata a riconoscere e valorizzare l’apprendimento, piuttosto che a giudicarlo e sanzionarlo. Questi principi pedagogici stanno scritti anche nel testo delle Indicazioni per il curricolo del 2007 (e nelle Linee guida per l’obbligo di istruzione del 2007). In poche righe si delinea un coerente sistema valutativo, dall’osservazione diagnostica alla valutazione in itinere e a quella sommativa, con il preminente obiettivo di stimolare il miglioramento continuo degli allievi e di regolare l’iniziativa didattica degli insegnanti. Questa filosofia si estende anche all’azione della scuola e del sistema educativo nel suo complesso.

    La valutazione, in sintesi, è finalizzata a introdurre elementi di riflessività in tutti gli attori del sistema, a partire da insegnanti e allievi, per consentire loro di prendere decisioni a ‘ragion veduta’.

    Dall’esterno, invece, proviene una spinta diversa, quella del controllo, della verifica, del rapporto costi/benefici, della tenuta del sistema, della sua qualità ed efficienza. Sono istanze che risalgono all’introduzione dell’autonomia, alla legge 59 del 1997, là ove si ricorda che la scuola che gode di autonomia è tenuta a ‘render conto’ della propria produttività culturale. Oggi la rendicontazione sociale è il cardine fondamentale di ogni sistema valutativo, capace di coniugare le esigenze di trasparenza, affidabilità e leggibilità dei dati, feedback indispensabile per la scuola, che non può chiudersi nell’autoreferenzialità delle pratiche autovalutative.

    Domande impegnative, ma indispensabili

    Ma che cosa si valuta? Quali sono gli ‘oggetti’ della valutazione? Tutto è misurabile o nulla è misurabile? C’è il rischio che l’apprendimento sia visto come una scatola nera inespugnabile, che ci si debba limitare a rilevare qualche prestazione/abilità parziale e visibile, mentre le competenze sono dimensioni ben più profonde, che chiamano in gioco risorse non solo cognitive, ma affettive, sociali, emotive di ogni persona (e quindi assai difficili da descriver, standardizzare, certificare). Da un lato occorre rifuggire da un’idea naturalistica dell’apprendimento (a quel punto dove starebbero il valore aggiunto dell’istruzione a scuola, il guadagno di ciascuno rispetto al proprio punto di partenza?), ma anche dalla facile semplificazione che impoverisce la ricchezza dei processi di conoscenza a mere prestazioni comportamentali.

    La scelta dovrebbe essere quello di certificare le competenze (così si esprime la legge 169/2008), ma solo dopo aver sviluppato un’adeguata elaborazione in merito all’idea di competenza, alla condivisione di criteri, alla descrizione preventiva di soglie di livello (cui commisurare il valore delle competenze), all’uso che si intende fare delle certificazioni.

    Sarà un inutile supplemento formale della pagella o un generoso tentativo di descrivere in positivo gli apprendimenti via via realizzati dagli allievi? L’impressione è che tutte le proposte di introdurre il tema della certificazione nella scuola (la formazione professionale fa storia a sé) siano state accompagnate da forti dosi di improvvisazione. Ad esempio, non è ancora acquisita l’idea di standard di apprendimento, che spesso sono temuti nella scuola di base come elemento selettivo e invece auspicati nella scuola superiore come indispensabile supporto a una valutazione che si vorrebbe ‘oggettiva’.

    Ma chi definisce gli standard? Il rischio è che questo delicato processo sia commissionato a un’agenzia docimologica, a un gruppo di esperti riuniti a Frascati (sede dell’Invalsi), piuttosto che affidata a un percorso ‘dal basso’, di costruzione condivisa, a partire dalle comunità dei docenti, dalla descrizione di processi didattici effettivi e quindi utilizzabili non solo per misurare i risultati, ma per migliorare le

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