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Oderbeycan e Goccia Di Miele
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E-book429 pagine4 ore

Oderbeycan e Goccia Di Miele

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Info su questo ebook

“Il cielo è limpido, il sole è ormai alto, guardo su e respiro, come per riprendere tutta l’aria che non ho respirato in questi mesi.
Rifletto sulle parole dette da Arayik: Amico mio, ora giorni duri aspettano te, ricorda respiro, fai come acqua, tu scorrere sempre.
Lo so, mi aspettano giorni difficili, ma ho un nuovo nome, da guerriero. Sono pronto per affrontare ciò che accadrà, ho il cuore e la mente aperti, penso che il mondo sia bello, e il mare, la mia meta, immagino tutti i giorni a venire come un pacco regalo, all'interno c’è un libro, ogni pagina un giorno, lo sfoglierò con cura, con delicatezza, proprio come sto facendo ora, con la poesia che mi ha donato Arayik.”
Questa è la storia commovente, gioiosa e dolorosa di Alex e Cloe e della loro trasformazione. Un romanzo capace di scuotere, in un’alternanza di momenti amari e duri a scene rarefatte e di trattenuta emozione, dense di sconsolata dolcezza e indomabile speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2016
ISBN9788899091699
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    Anteprima del libro

    Oderbeycan e Goccia Di Miele - Gianfranco Santini

    Oderbeycan e

    Goccia Di Miele

    Gianfranco Santini

    Panda Edizioni

    Isbn 9788899091699

    © 2016 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Foto di copertina: Gianfranco Santini

    I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.

    Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

    Dedicato a mia figlia Silvia

    E a coloro che viaggiano sospinti dal Vento

    «Uno solo è il corpo dell'Ente universale.

    Uno solo è l'ordine. Uno solo il governo.

    Uno solo è il principio e Una sola la fine.

    Uno solo è il primo e Uno solo è l'ultimo.

    Dunque ogni cosa ha eguale dignità

    rispetto a ciascun'altra.

    Una sola cosa è quella che definisce tutte le cose.

    Uno solo è lo splendore della bellezza.

    Un solo fulgore luccica dalla moltitudine delle specie.»

    Giordano Bruno

    Prologo

    Alle ore quattordici e venti minuti di un mercoledì dell'anno millenovecentosessanta Alex Delfino con molta sofferenza è venuto al mondo.

    Non avrebbe mai immaginato di provare tutto quel dolore, uno stimolo fortissimo a uscire e non sapere dove: per lui era impensabile lasciare quel luogo acquoso dove è vissuto tanto tempo, e ora non poteva controllare l'impulso primordiale che l'avrebbe proiettato chissà dove, quella stretta intorno al collo, il cuore pulsante a velocità doppia, la mancanza d'aria e poi tutta quella luce abbagliante che bruciava gli occhi, niente a che vedere con la luce soffusa di prima, i suoni ovattati, il calore, niente più di tutto questo.

    In quel momento ha creduto di morire.

    Alle ore quattordici e venti minuti di un mercoledì dell'anno duemilaquarantanove, alla benemerita età di ottantanove anni, senza sofferenza alcuna e con un sorriso sulle labbra tra il confuso e lo stupito lasciò questa terra. Scoprì come morire fosse di una naturalità disarmante, giunse all’appuntamento con serenità, semplicemente si addormentò, tutto il timore e il dolore svanirono, lasciando il posto a un senso di pace. Dapprima i suoni cominciarono ad affievolirsi, poi iniziò a sentire una forza, un risucchio che dall'interno lo spingeva verso l'esterno, fuori dal corpo, la stessa cosa che provò quando nacque ottantanove anni prima.

    In quei pochi istanti che hanno preceduto la sua morte, ha ripercorso la sua vita e avrebbe certamente cambiato alcune cose, ma prima, mentre era intento a vivere, non avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare cosa gli riservasse il destino, come in un codice binario a volte ha scelto 0 e a volte 1.

    Alex ha costruito la propria vita con affermazioni e negazioni, con colori e sfumature di grigio, con gelo e calore, con aperture e chiusure.

    Forse avrà provato rammarico per non aver aggiunto un pizzico di leggerezza, come si fa con il sale nella minestra per renderla più saporita, più gustosa, ma in quel momento la sensazione di appagamento ha comunque riempito tutto il suo essere dilatando la coscienza come un'enorme onda spumeggiante che si contraeva e si espandeva per infrangersi sulla riva, e poi di nuovo, all'infinito in un mare di acqua trasparente, in quel momento è stato allo stesso tempo sole e molecola d'acqua.

    Alex è morto diverse volte durante la sua vita e ogni volta è rinato, migliore di prima, ma quella che arrivò quando aveva trentotto anni, non potrà mai dimenticarla.

    1. La nebbia e le lacrime

    Nel posto dove sono vissuto di acqua ce n'è tanta, solo che cade dal cielo, in autunno e in inverno piove spesso nel mio paese e spesso c'è anche la nebbia che non ti fa riconoscere le persone per strada e non ti fa vedere dove metti i piedi e ti fa venire voglia di rientrare subito in casa con il naso gocciolante, con gli abiti zuppi di umidità. Ma questa nebbia, questa pioggia, te la porti appiccicata dentro e stenti a riconoscere te stesso, hai voglia a dire, a fare, accendo un fuoco, un cioccolato caldo, un minestrone bollente, niente, il problema è dentro, nell'anima, ed è lì che la nebbia e la pioggia s’insinuano e fanno di te la loro casa.

    Mi chiamo Alex Delfino, centonovanta centimetri di altezza per novanta chili di peso, non ho molti amici, ma un grande passatempo: leggere libri. Mi sono sempre piaciuti, soprattutto quelli con le copertine fatte di pelle con imprimiture dorate, quei libri che ti delizia persino annusarli per sentirne la storia e da quante mani sono stati toccati.

    Via degli Argini al numero trenta è una casa di quelle fatte con le pietre e con la calce, come si faceva una volta, e il tetto fatto con i coppi, e il comignolo del camino in mattoni rossi che quando ne esce il fumo sembra descrivere il calore e il senso di sicurezza che provengono da dentro, sembra. Questa era la mia casa, e lì sono nato da una madre morta di setticemia poco dopo avermi messo al mondo e il distrutto padre mio operaio nell'unica segheria del paese si era dato al vino rosso che lui stesso creava, e non faceva in tempo a rifarlo che era già finito.

    Il tempo, scandito dal campanile nella piazza centrale, ritmava il formicolio paesano. Il primo ad aprire i battenti era il bar del paese, poi a seguire il piccolo negozio di generi alimentari, uno di quelli dove c'è poco ma di tutto, dagli insaccati ai giornali, dai saponi al pane, e poi il barbiere Rino che cantava opere in continuazione e neanche a dirlo la sua opera preferita era il barbiere di Siviglia.

    Il primo libro l'ho avuto in regalo all'età di otto anni, mio padre un giorno, tra un fumo di alcol e uno di sigaro, si presentò in casa con L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, perché ti devi erudire e saper fare di conto non come tuo padre che sa a stento firmare. Da quel giorno non potei più fare a meno di leggere libri, li divoravo, con la lettura avrei potuto avere il dono di viaggiare nel tempo solcando lo spazio, un giorno capitano di ventura, l'altro commissario di polizia, l'altro ancora bucaniere, questa sensazione non mi ha più abbandonato.

    Forse sarà stato per questo motivo che dentro di me regnano più persone, almeno due, una gentile disponibile e buona, l'altra, cinica, crudele e buia. Ancora ricordo quando, piccolino, feci strage di una comunità di formiche schiacciandole con i piedi, mentre pestavo, ridevo, e alla fine piangevo per ore, oppure quando, catturando rane, gli infilavo in bocca sigarette accese rubate di nascosto dal nonno. Che fine orrenda, povere creature, anche lì giù lacrime.

    Piangevo spesso anche quando, in primavera e in estate, andavo su al pianoro che dominava il paese, stendendomi sull'erba, guardando il cielo e ogni volta mi commuovevo, le rondini, tantissime, disegnavano percorsi diversi e i loro canti entravano nel cuore.

    Le rondini cambiano sempre di strada, è veramente difficile che percorrano traiettorie uguali, ora da nord a sud, poi in alto, ora in picchiata e quando sembra che si stiano per schiantare cabrano su, sempre di più, sono così imprevedibili. Io invece, da ragazzo, percorrevo sempre le stesse strade, giù dal letto la mattina, poi la colazione, poi a scuola, poi il ritorno, sempre lo stesso stradino che costeggia il cimitero, poi a pranzo, poi i compiti, poi la merenda, poi un libro, poi la cena, poi a dormire, e il giorno dopo daccapo. Voglio essere rondine, pensai.

    Le giornate passavano tutte uguali, disegnando la monotonia della mia vita, e il padre mio, quando tornava a casa barcollante, si sedeva perché non si teneva in piedi, si accendeva il solito sigaro e cominciava, com’è andata a scuola, la maestra quella brava e buona donna t’interroga, ti chiede, ti spiega, e io a dirgli a rispondergli senza nessuna voglia sì, sì e poi ancora sì e il padre soddisfatto e tranquillizzato, bene ti devi erudire e saper fare di conto non come tuo padre che sa a stento firmare, ripetendo sempre la stessa cosa e poi si gettava pesantemente sul letto cominciando a russare.

    Questa era la cosa che più m’innervosiva, così nel tempo ho iniziato a prendere provvedimenti, dapprima cominciando a emettere un suono con la bocca, schioccando la lingua contro i denti, e sembrava funzionasse ma nel giro di pochi secondi, di nuovo, poi a fischiare, poi a battere sulle pentole, ma niente, finché un giorno gli posi un cuscino sulla faccia, smise di russare ma anche di respirare per qualche secondo, chissà perché, ma si arrabbiò come una bestia e per la prima volta mi diede uno schiaffone, uno di quelli che ti fanno diventare la guancia rossa. Allora cambiai sistema e funzionò, riuscii a far divenire il russare una musica con alti e bassi, poi con delle pause e mi venne in mente di diluire il vino con un po' di acqua perché pensavo che la causa del russare fosse il vino e allora il padre mio mentre lo beveva diceva che quest'annata non era stata buona che il vino era come annacquato e se continuava così avrebbe smesso di produrlo e che forse era meglio se lo comprava all'osteria e io a dirgli di no anche se fosse venuto un po' leggero era sempre meglio il suo di vino almeno avrebbe saputo cosa beveva.

    Fu in quel periodo che cominciarono: all'inizio sentivo una leggera pressione agli occhi, poi un senso di nausea e tutto cominciava a girare, spesso dovevo sedermi, il cuore che aumentava i suoi ritmi abituali, tutto durava qualche secondo che sembravano un'eternità, allora mi coricavo sul letto a occhi chiusi e tutto si fermava. Tutto meno una visione: una figura femminile su di una barca che remava in un mare infinito con dei colori vividi, era una visione di pace, e la paura svaniva lasciandomi come un senso di leggerezza. Questi episodi si ripeterono a intervalli irregolari e ora fanno parte di me, anzi a volte li aspetto con impazienza.

    All'età di tredici anni, finite le scuole obbligatorie, ho dovuto prendere una decisione importante: continuare o no gli studi. Com’era mia consuetudine, mi trovavo in bilico. Gradivo molto la lettura, ma non la matematica e la geometria; mi dava gioia stare nella natura, magari sarei potuto diventare un agricoltore o un allevatore di galline, mi piaceva quando il pollame dava la caccia ai lombrichi e ridevo a crepapelle quando le vedevo camminare con quell'incedere così divertente ma ancora ricordo, quando, qualche anno prima, volli sperimentare se le galline avrebbero respirato sott'acqua, la risposta fu no, non respirano.

    Anche quella volta mio padre si arrabbiò tanto, dovettero chiamare il medico e quando si riprese, disse: Non so più cosa fare con te, ci fosse la tua povera madre che sicuramente si starà disperando su in cielo, come finirai le scuole obbligatorie andrai a guadagnarti il pane, imparerai un mestiere.

    Il tredicesimo anno della mia vita bussai alla porta di Giuseppe, il panettiere del paese, perché il modo di dire del padre, andrai a guadagnarti il pane, era proprio in senso letterale, sarei stato pagato a pagnotte, due ogni giorno. Ora c'è da dire che i panettieri di solito si destano prestissimo, alle quattro di mattina per l'esattezza e a quell'ora mi svegliavo. Un caffè nero, poco latte, poi via con farina, lievito e forno, anzi, soprattutto forno. La mia mansione, infatti, era quella di mettere legna per mantenerlo sempre alla stessa temperatura, lavoro essenziale per chi vuol fare un pane come si deve. Questo lavoro, seppur pesante, lo gradivo, mi sentivo fondamentale, come in quel libro che avevo letto sull'antica Roma che parlava del fuoco sacro nel tempio di Vesta che era tenuto costantemente acceso per imbonirsi gli Dei, per rassicurare gli abitanti e farli sentire protetti.

    Anche in paese il fuoco del forno aveva la stessa funzione: dar da mangiare alle persone, scaldare la pancia, ma soprattutto l'anima degli uomini, e questo m’inorgogliva. Così come quando usavo il mantice, quell'attrezzo così semplice m’incuriosiva e faceva riflettere.

    Quest'apparecchio produce un soffio d’aria, per attivare la combustione nel forno e raggiungere elevate temperature, ed è costituito da due lastre di legno articolate tra loro e collegate da una membrana, di solito di pelle, e si attiva allontanando e avvicinando tra loro le lastre, in modo che l’aria entri nella struttura attraverso una valvola, per essere poi espulsa mediante un condotto d’uscita.

    Per me, in quel momento della mia vita, era un mistero come l'aria potesse attizzare un fuoco.

    Quel lavoro seppur piacevole durò due stagioni, perché il responsabile comunale addetto alla manutenzione delle fontane del paese, amico di mio padre, cercava un aiutante e allora decisi che dopo il fuoco e anche l'aria, considerando il mantice, fosse giusto provare a lavorare con l'acqua, e anche perché mi ero stancato di mangiare sempre, e a volte solo, pane.

    Nel paese le fontane sono quattro: la più importante, quella situata nella piazza centrale, si chiama fontana grande, e si eleva su un basamento in pietra. La vasca è pentagonale, con aquile e leoni scolpiti ai lati. Al centro si erge uno stelo, reggente una coppa con sopra una figura di bambino con le ali. Il lavoro consisteva nella pulizia della vasca che andava prima svuotata dall'acqua e poi, dopo averla ripulita, fatta rifluire. Lo stesso lavoro andava fatto alle restanti fontane del paese.

    Mi piace molto l'acqua, per me sostanza misteriosa, viva, liquida, ma allo stesso tempo solida, va a occupare uno spazio, è limpida, morbida, e moriremmo senza di essa, amavo pensare. Non potevo fare a meno, ogni volta che bevevo, di ringraziarla dal cuore e ogni volta usavo una ritualità tutta mia riempiendo il bicchiere che facevo salire in alto all'altezza degli occhi dicendo grazie, poi la bevevo con gusto. Quale delizia provavo è difficile da descrivere, un senso di beatitudine, bevendo rinfrescavo l'anima mia non solo il corpo.

    Anche quel lavoro era duro, soprattutto d'inverno: dovevo stare attento che le fontane non gelassero, perché il ghiaccio avrebbe potuto rompere le vasche, quindi tre e anche quattro volte al giorno andavo a controllarle e con un ferro sgretolavo la patina di ghiaccio che vi si formava. Anche qui mi trovavo di fronte a un fatto che per me era un mistero: l'aria fredda incatenava l'acqua facendola diventare dura come una pietra; la stessa aria che serviva ad attizzare un fuoco, imprigionava l'acqua, che divenuta ghiaccio poteva essere sciolta dal fuoco. Non c'è che dire, un bel grattacapo.

    Erano già tre anni che svolgevo questo lavoro, e quando divenni maggiorenne avendo compiuto diciotto anni, accadde un fatto che avrebbe segnato per sempre la mia vita, non so ancora se in maniera positiva o negativa, forse in tutte e due i modi.

    Una sera il padre mio arrivò a casa più straniato del solito, non mi sembrava particolarmente su di giri a causa del vino, ma diceva cose strane, mi chiedeva dove si trovasse, cosa facevano tutte quelle persone in casa sua, ma la cosa che più mi preoccupò fu quando disse che era stato rapito, che era stato portato in una grande città, era stato interrogato dai fascisti e anche dai comunisti, che poi lui era riuscito a fuggire rubando una bicicletta e lo disse con un ghigno strano sul viso. Lo aiutai ad adagiarsi sul suo letto e lui mi guardò con occhi smarriti e vidi dentro di lui una giornata nebbiosa di novembre, vidi lacrime in un oceano, poi più niente.

    Il giorno dopo il padre mio morì. Non servì a niente il dottore del paese, poté solo constatarne il decesso, ictus cerebrale, disse. Io non potei non pensare al perché alle malattie gli mettono quei nomi così brutti e paurosi. Il medico mi spiegò cosa fosse l'ictus e io mentre lui mi parlava pensavo al fiume che gonfiato dalle piogge tracimava nella campagna causando tanti danni ai poveri contadini e allevatori che vedevano sparire i propri raccolti e le proprie bestie. Non uscì neanche una lacrima, piangi figlio mio, sfogati, diceva il dottore, ti sentirai meglio povero ragazzo, ma niente, perché avrei dovuto, non mi veniva, avrei pianto se avessi saputo che il padre mio dov'era ora provava sofferenza, ma ero sicuro di no, il padre mio stava sicuramente bene, meglio di quand'era qui, nell'aldiquà.

    La cosa che più mi colpì il giorno del funerale fu la terra che gli addetti del cimitero con la pala gettavano sulla cassa di mio padre. La stessa terra che dona la vita ora nasconde in sé un proprio figlio. Quella cassa stonava con il resto, avrei preferito che il padre mio fosse seppellito così, senza costrizioni, vestiti, bara, pensai che seppellito nella terra, nudo, sarebbe servito a qualcosa, divenire nutrimento per tutta l'umanità, e poi veniamo al mondo nudi, non già vestiti di tutto punto, magari con il vestito della domenica.

    Il padre mio nell'ultimo viaggio terreno fu accompagnato dai suoi amici d'osteria, dall'unico parente ancora in vita, una sorella di mia madre che a me non piaceva per niente e che consideravo una persona egoista e cattiva, e da Gualtiero un lontano cugino di mio padre che mi fece da padrino il giorno della mia prima comunione.

    Il parroco del paese don Fulgenzio durante la funzione, si chiama così, funzione, anche se non ho ancora capito che funzione avesse, non ripeteva altro che Dio sceglie i figli più belli e più buoni per portarli al suo cospetto, come quando muoiono i bambini, che era stata una fortuna per il padre mio essere stato il prescelto, e così via, ma io non potevo non pensare che questo discorso non mi convinceva. Se questo Dio fosse stato buono non avrebbe mai permesso che dei bambini soffrissero.

    A me questo Dio onnipresente e onnisciente non convinceva. Quando ero più piccolo, mi sentivo sempre i suoi occhi addosso e dentro, mi diceva di non commettere atti impuri, ma in me sentivo voglia di commetterne e li commettevo, sia quando pensavo che avrei tirato volentieri giù le mutandine alle ragazze, sia quando mi chiudevo in bagno toccandomi provando molto gusto, ma poi questo Dio arrivava sotto forma di colpa, Hai commesso atti impuri con pensieri e con fatti, dovrai espiare, ma, pensavo, se la vita è Dio, quello che sento in me, quell'impulso a peccare cos'è?

    Sentivo questo conflitto più presente che mai, come un fulmine in grado di spaccare in due una quercia gigantesca, una percezione di pericolo imminente turbava l'animo mio, diviso tra il senso di peccato e la vita vera.

    Don Fulgenzio non faceva altro che ripetere la solita solfa, Beati i puri d'animo perché sarà loro il regno dei cieli, ma io pensavo come per me fosse già tanto faticoso vivere questa vita terrena così confusa, dove tutti sanno tutto e anche di più, dove c'è sempre un capo che comanda, mandando in guerra i propri sudditi, dove vedo tanto dolore e miseria e disonestà, ma nonostante questo penso che il paradiso sia qui, che abbiamo avuto la meravigliosa fortuna di nascere su questo pianeta che gira sospeso nello spazio e se potessimo guardare la terra dalla prospettiva della luna vedremmo una cosa magnifica e non potremmo non pensare che il paradiso è proprio qui in mezzo a noi e che ne facciamo parte.

    Il giorno dopo mi ritrovai da solo e pensai che da solo mi ci trovavo anche prima, anzi lo sono stato sempre, una madre che non ho conosciuto, un padre semi alcolizzato che da quando è morta la moglie non è più vissuto, ma io c'ero, ero il figlio suo, avrebbe potuto pensare a me, cioè, a modo suo lo faceva, ma sbagliato, e semmai un giorno, anch'io avessi avuto un figlio lo avrei trattato non certo come il padre mio con me.

    La piccola paga del manutentore di fontane ora non bastava più, possedevo una casa tutta per me, sebbene la zia volesse che mi trasferissi da lei, ma l'idea di rimanere solo in casa mi piaceva molto, però dovevo mantenerla questa casa, c'era la luce da pagare e il gas e l'acqua e poi il nutrimento, e decisi, andrò a lavorare la terra, e andai.

    Il conte Niccolò Giannini era il più ricco possidente terriero del paese, aveva molte bestie da pascolo e non so quanti ettari di terra, parte a vigna, parte in ortaggi e parte in alberi da frutto e mi prese a benvolere. Mi piacque l'idea di mangiare con il lavoro della terra e mi piaceva soprattutto l'idea che questo lavoro fosse in sintonia con i precedenti, con il fuoco, bruciando sterpaglie si rinvigorisce il terreno, con l'acqua, s’irrorano le radici così il tutto contribuisce alla crescita delle piante e dei frutti che poi mangiamo, è semplice, è stupefacente, è meraviglioso. Per non parlare poi delle sementi: s’interrano sotto pochi centimetri di terra, si ricoprono, s’innaffiano, il resto lo fa prima il buio, poi il sole e infine l'amore, la stessa cosa che si dovrebbe compiere con i propri figli.

    Venne il giorno che parlai con il conte e lui mi assunse in prova per tre mesi assegnandomi al lavoro delle vigne, e precisamente dovevo, con l'aiuto di un macchinario, irrorare le piante con il verderame stando attento a non usarlo controvento, ora questa cosa non mi piaceva molto, anzi, affatto, ma digerii l'idea perché a quanto pareva il verderame per le piante è un po' come l'aspirina per noi, la panacea, e le vigne non potevano certamente ammalarsi altrimenti il vino sarebbe stato pessimo.

    Lavoravo otto ore al giorno, percorrendo con il macchinario sulle spalle diverso spazio, poi una volta finito il liquido, dovevo tornare indietro, ricaricare e ripartire, un lavoro semplice ma che mi faceva sentire importante. E poi mi piaceva la solitudine che sentivo, da solo in campi enormi, mi sono sempre sentito più a mio agio da solo che in compagnia; a scuola era così, anche il pomeriggio quando una volta finiti i compiti e gli altri ragazzini mi chiamavano per giocare a piastra barattolo

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