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Sto meglio al buio
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E-book130 pagine1 ora

Sto meglio al buio

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Info su questo ebook

Molto più di un'autobiografia. Un affresco corale che racconta forza, passione e illusioni di un uomo che parte da zero e ce la fa da solo, nel caos alienante di una grande città. (Corriere dell'Arte)
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita11 mag 2021
ISBN9788833668819
Sto meglio al buio

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    Anteprima del libro

    Sto meglio al buio - Claudio Secci

    sono

    Prefazione

    A quarantadue anni mi sono deciso a tirare le somme di questo mio primo tempo (sperando ce ne sia un secondo). Proverò a ripercorrere gli aspetti più salienti degli ultimi trent’anni di vita che coincidono con le mie esternazioni artistiche su quanto avveniva attorno e dentro di me. Ovviamente parlo di scrittura, nei primi tempi più che altro poesie, riflessioni, appunti. Mi rammarico di non riuscire più a leggere alcuni floppy disk che davo per scontati e che oggi risultano purtroppo inutilizzabili, quindi dovrò rifarmi a quanto è ancora su carta: libri stampati e mai pubblicati, opere appese alla parete della mia stanza, appunti su quaderni e fogli sparsi nel mio scrittoio davanti al quale ho passato gli anni delle scuole superiori. Affronterò quindi i miei parti letterari attraverso delle epoche esistenziali, che ho voluto definire in base al mio stato d’animo del periodo.

    Non nascondo che tutto questo sia stato difficile. Emozionante, ma anche triste e doloroso. La maggior parte di queste ere è caratterizzata da tragedie e sconfitte anche pesanti che mi hanno segnato in modo indelebile. L’esercizio è utile per fare un bilancio di ciò che è stato, comprendere perché alcune mie scelte siano cicliche, riguardare il passato per non ripetere gli stessi errori in futuro. Certi iter mi spaventano e riviverli mi ha fatto sospettare che risieda in me qualcosa di diabolico e irreversibile. A mente lucida realizzo fondamentalmente di essere un bambino, poi ragazzo, poi uomo con tante debolezze e ingenuità che, come ha potuto, ha provato a farsi spazio nella società.

    Sto meglio al buio.

    Troppe volte la luce

    mi violenta di paure.

    L’era del disincanto

    1990-1997

    L’allontanamento dalla mia città natale , nel ’90, non è stato semplice da digerire e metabolizzare. Non posso attribuire qualche colpa alla buon’anima di mio padre: lui lo ha fatto per il bene della famiglia.

    La periferia sud di Torino negli anni ‘80 era la cornice perfetta della microcriminalità e dello spaccio. Persino le azioni più semplici, come giocare nel cortile sotto casa, nascondevano pericoli. Un’eterogeneità di immigrati e situazioni di emergenza. Case popolari abitate da coppie fuggite dal meridione per cercar fortuna. Buchi di alloggi conquistati per poche lire a comporre condomìni di cui bisognerebbe scrivere un libro al giorno. Rielaborando quel periodo, a trent’anni esatti di distanza, realizzo che le mie lacune caratteriali si siano dovute mescolare a consuetudini e concetti di vita diametralmente opposti al mio, gli atti di bullismo e le violenze subite mi hanno mostrato il mondo da ogni angolatura possibile.

    L’approdo in Sardegna, all’età di undici anni, si è rivelato da subito un lacerante disincanto.

    Oggi realizzo che avrei avuto gli stessi problemi ovunque ci fossimo trasferiti. L’isola è stato un capro espiatorio. Le violenze ci sono state, niente le può cancellare. Tutto il resto, però, sono disagi che mi porto dietro tutt’ora, forse soltanto in modo più maturo e consapevole.

    In tutto questo, mentre combattevo il mio disagio con i compagni di scuola e i coetanei dei vari quartieri nei quali di volta in volta ci siamo trasferiti, ci sono stati gli amori. Le ragazze, poi donne, delle quali mi sono innamorato di volta in volta hanno scavato nelle mie impotenze, nelle mie inadeguatezze, nei miei scopi errati di cercare a tutti i costi un riferimento femminile da fare mio. Da amare, da proteggere, ma forse soffocando di volta in volta le mie partner con atteggiamenti possessivi e di controllo, di cui non mi rendevo conto finché non mi mandavano al diavolo.

    Presa coscienza dell’impossibilità di un’integrazione morbida con gli altri ragazzi della mia età, prima in un paese di tremila anime, poi in una provincia di quasi trentamila, ho cercato di affrontare le mie giornate in difesa, con mille complessi che col passare degli anni mi hanno portato addirittura a controllare il modo di camminare e di vestire.

    Le piccole località si reggono su equilibri molto particolari che bisogna apprendere per poter sopravvivere. In questi contesti, il potere di un giudizio, di una reputazione, di un pettegolezzo può portare anche al suicidio, tant’è sentito. Chiunque detiene un soprannome: se un conoscente ti vede di spalle, ti chiama da dietro a voce alta in modi non troppo eleganti e spesso facendo girare tutti. Nei bar il passatempo principale è osservare i passanti e giudicarli, provando a indovinare dove si stiano recando e cosa stiano andando a fare. Sono i tempi dei motorini: chi lo ha originale, chi se lo trucca, quanto farà di velocità massima, quanti metri di impennata riesce a mantenere lo scapestrato di turno. Sono tempi di skateboard, tanto che anche le ragazze li usano, e se non impari presto a fare l’ollie fly, non sei nessuno. Mio padre, che lavorava all’Enel, quel Natale mi fece scegliere lo skate come regalo aziendale per i figli sino ai quattordici anni. Così almeno in qualcosa potevo unirmi al branco. Ma già c’era chi aveva la tavola Santa Cruz, chi aveva i cuscinetti e le ruote professionali, e tu che avevi quello da trentamila lire eri comunque uno sfigato. Il solito gioco delle mode e dei loro potenziamenti.

    Quasi tutto lo stipendio di mio padre era impiegato per la casa nuova, e ogni altra cosa era superflua o vietata: gite a scuola, mostre a pagamento, qualsiasi cosa che andasse oltre i libri e il necessario per studiare non era fondamentale. Ogni volta che le professoresse chiedevano le adesioni, non sapevo mai dove mettere la faccia, mi guardavo sempre intorno per vedere che espressione avrebbero fatto i compagni quando dichiaravo che non avrei preso parte all’ennesima gita. Il giorno in cui trovai in casa un paio di Levi’s che mio padre acquistò a Torino, a Porta Palazzo, per cinquemila lire, forse nemmeno originali, lo implorai di lasciarmeli, quel cimelio era la cosa più importante che avessi, tanto che li ho usati per almeno cinque anni, finché mi entravano, anche se col passare del tempo si ridussero quasi a brandelli.

    Con i miei fratelli più piccoli inventavamo giochi creativi per passare il tempo, nella casa nuova che era perennemente un cantiere. Bazzicavamo fra recinzioni di fortuna, pezzi di ferro, calcinacci, terra da lavorare per dare vita a una sorta di giardino. Eravamo nonostante tutto una famiglia felice, e mio padre per me era un immortale risolutore di qualsiasi problema. Era, e lo è ancora oggi che non c’è più, il mio punto zero, dal quale ricomincio sempre. Quando nel mio percorso di vita perdo qualcosa, o tutto, ricomincio da lui. Dalla sua voce, dai suoi consigli, dal

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