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Qui non ride mai nessuno
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E-book197 pagine2 ore

Qui non ride mai nessuno

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Info su questo ebook

Ricardo è un dinamico consulente di trent’anni, viaggia parecchio, fa sport, si diverte con gli amici ed è sempre pronto a lanciarsi in nuove sfide; così coglie anche quella che si presenta in una solida e gerarchica azienda di servizi dove ha sostenuto un colloquio e che pare possa migliorare ulteriormente le sue prospettive di carriera. Il D.G., soprannominato “il dottore”, a cui lui dovrebbe fare da assistente, accetta le sue richieste, l’assunzione parte e Ricardo inizia a interfacciarsi con una realtà in cui rileva una certa omologazione, o meglio stratificazione, che cataloga il personale in funzione dell’abbigliamento e degli atteggiamenti, di norme e rituali. Ricardo è un osservatore ironico e pacifico, ma sotto il suo sguardo finiscono anche dati allarmanti che registrano un progressivo calo degli indici positivi e la crescita di quelli negativi. Mentre cerca di consigliare “il dottore” sulle strategie più valide da attuare e riceve l’incarico di realizzare un nuovo house organ, si scontra con la diffidenza dei colleghi, con le lotte tra i potenti, l’umiliazione e la prostrazione dei più deboli, gli scambi di favori, le alleanze segrete e le invidie che puntano a non riconoscere mai il merito altrui e a non favorirne la crescita. Ricardo non intende subire influenze, mutare i suoi hobby, gusti, linguaggio, pensieri e tutto ciò che compone la sua identità; come evolverà il suo percorso in azienda?
 
Roberto Veronesi, torinese e torinista appassionato, laurea in Scienze Politiche, Master Isvor Fiat in Comunicazione e marketing e Bocconi International Teachers Programme. Ha lavorato per grandi gruppi italiani come Unicredit, Fiat, Seat Pagine Gialle, Iren. Un percorso professionale a doppio binario nel settore della Comunicazione e del Personale, ambiti in cui ha ricoperto posizioni di vertice, osservando e scoprendo un mondo sorprendente e poco rappresentato.
Collabora attualmente con Fondazione LINKS, è docente IED (Istituto Europeo di Design) per le aree sales management e comunicazione interna. Giornalista e socio FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana).
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788830651920
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    Anteprima del libro

    Qui non ride mai nessuno - Roberto Veronesi

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    a Nini, Momo, Gilda ed Egidio

    PROLOGO

    Dedicato a tutti coloro che lavorano o hanno lavorato in Azienda

    Le Aziende hanno un’anima.

    Un volto. Un carattere. Un cuore, un cervello, muscoli, pensieri, energia. Vita propria.

    Alle aziende bisognerebbe chiedere come stai? quando entri in ufficio al mattino.

    E poi abituarsi a osservarle e a parlare con loro ogni tanto.

    O anche solo stare in silenzio ad ascoltarle.

    Ce ne sono alcune che sono proprio simpatiche. Di quelle che quando ci vai ti viene il buon umore, ti viene voglia di ridere e di darti un gran da fare, di offrire caffè e di dire dai che ce la facciamo, non ti preoccupare, ci penso io. Di quelle che spegni la luce la sera quando esci per farle riposare bene e sposti il poster appeso nel corridoio quando è storto.

    Ne ho incontrate anche di antipatiche. Di quelle che non vedi l’ora di uscire, hai i muscoli delle spalle tutti tesi e quando te ne vai butti fuori l’aria dai polmoni e corri al bar a prendere un bicchiere di acqua fresca.

    Una volta, tanto tempo fa, mi sono messo a chiacchierare con una azienda malinconica. Mi ha tenuto con sé tutta la notte a ricordare i bei tempi passati, di quando era giovane e bella e tutti la volevano.

    Mi ha fatto una gran tenerezza.

    Ho provato a dirle che era ancora forte e con un gran futuro davanti. Mi ha sorriso mesta e mi ha detto «il mio unico pensiero è come chiudere dignitosamente la mia vita. Ne ho combinate tante in tutti questi anni, mi sono proprio divertita e adesso sono stanca. Ho alcuni figli e qualche nipotino che crescono bene, è ora che mi ritiri.»

    Le Aziende hanno un’anima, un volto, un carattere, un cuore, un cervello, muscoli, pensieri. Vita propria.

    Fermiamoci a osservarle ogni tanto. Fermiamoci ad ascoltarle.

    Volto, carattere, cuore, cervello, muscoli, pensieri, vita, glieli diamo noi.

    Fermiamoci a osservarle e ad ascoltarle.

    Capiremo molto anche di noi.

    Roberto Veronesi

    GENNAIO 1990

    Il racconto di Ricardo

    CAPITOLO UNO

    UN MONDO MERAVIGLIOSO

    I primi tempi potevo godermi lo spettacolo molto bene in quanto il mio ufficio era vicino alla macchinetta automatica del caffè. E io, per dimostrare a tutti che ero diverso dagli altri, lasciavo la porta dell’ufficio sempre aperta.

    E dunque le vedevo arrivare per il rito delle 9, delle 11, delle 14 e delle 16.

    Generalmente si muovevano in piccoli branchi (da tre a cinque per lo più). Erano le colleghe, con passo lento, le ginocchia leggermente flesse, il bacino un po’ in fuori in modo da consentire ai glutei di non sporgere. I piedi piatti, le braccia immobili, gli zigomi spolverati di cipria, lo sguardo rivolto verso il basso come se avessero appena ricevuto una notizia tristissima. Parlavano pianissimo (sia come volume che come cadenza). Ma ciò che più destava sconcerto in questo incedere collettivo era l’appannamento cromatico dell’abbigliamento e, soprattutto, i colletti.

    Appannamento cromatico. Non c’erano colori. Non c’era il rosso, non il blu, il giallo, il bianco, il verde, l’arancione. Non c’erano colori netti. In effetti si intuiva il verdino, il beigiolino (come le pareti), il giallino, il rosellino (le più sfrontate) e anche il grigio era un grigino. Questo incedere solenne era poi corredato e completato dai colletti. Piccoli, tondeggianti, impercettibilmente ricamati, tutti rigorosamente uguali, sporgevano con un po’ di colpa dall’immancabile girocollo color cane che fugge.

    Premetto, non ho nulla contro di loro. Che però, in una azienda di tipo commerciale, un buon venti per cento delle posizioni più prestigiose fosse ricoperto da geometri era per lo meno sospetto. Io non so come vi immaginiate un geometra, ma si può ipotizzare che sia una persona come tutti gli altri. Può essere alto, magro, piccolo, con o senza gli occhiali, con o senza barba, può essere tante cose. Qui no. Qui è di altezza media, la faccia è tonda, pallida, un po’ molle, con un velo di occhiaie (a dimostrazione che soffre o che ha sofferto; si tratta di un valore forte che approfondiremo più avanti), leggermente sovrappeso, non porta gli occhiali, non ha la barba, non ha mai fatto sport, veste generalmente di marrone e dietro la sua scrivania è appeso un crocifisso.

    Di legno.

    È bene ricordare che siamo a cavallo tra i frizzanti anni Ottanta e Novanta, di una Spagna che cerca e trova il suo riscatto, in una azienda commerciale con elevata scolarizzazione (su quest’ultimo punto torneremo più tardi) e una forte consapevolezza di immortalità.

    È il mio primo giorno di lavoro; sono da poco passate le 12, credo. Dopo una serie interminabile di strette di mano, convenevoli, sorrisi e auguri (al termine dei quali, con assoluta noncuranza, facevo scivolare una mano verso il basso ventre) mi trovavo nel mio ufficio a riflettere sul passato appena passato e sul presente/futuro del quale, in verità, avevo capito ancora molto poco.

    Ero soddisfatto, avevo lasciato la vecchia attività senza eccessivi rimpianti e mi trovavo, fortemente voluto dal direttore generale, a intraprendere quella che si chiamava (si chiama) una nuova avventura. Tronfiamente immerso in questi o simili pensieri sentii improvviso un suono acuto provenire dal corridoio.

    Piuttosto in apprensione uscii dall’ufficio pensando a un segnale d’allarme (ascensore? incendio?); i corridoi però erano vuoti; solo uno sparuto branco di colleghe confabulava con il volto contrito e con un respiro leggerissimo accanto alla rampa delle scale: certamente non erano né spaventate né sorprese (forse sorde). Accennai un saluto e rientrai nel mio ufficio. Che fare? Rimasi immobile, col dubbio di aver sognato o di essere tornato ai tempi amati del liceo quando un suono come quello poteva significare scampato pericolo, fine di una mattinata o preludio a un bel weekend di divertimento. Non accadde nulla per un quarto d’ora poi... rieccolo, non avevo sognato.

    Un suono piuttosto lungo (che più tardi verificai della durata di 10 secondi) e fastidioso rompeva il silenzio ovattato del 3° piano.

    Questa volta non uscii e dopo pochi istanti comparve sulla porta una collega che mi invitava alla mensa aziendale: erano le 12.45, in punto. Che fare? Non avevo voglia di fare la figura del cretino già il primo giorno rivolgendo domande o riferimenti sbagliati e, dunque, con la curiosità che mi rodeva, accettai l’invito e mi diressi verso l’uscita. Cercai di far cadere il discorso sulla musica, i suoni, le sirene, il vento, i fischi e tutto quanto potesse evocare suoni o musica.

    Ma niente. Niente di niente. Il tema del suono acuto non veniva sfiorato. Ecco però che, nel rifare le scale al ritorno dalla mensa, una frase colta al volo mi fece capire

    «Corri, che tra poco suona.»

    Mio dio, ecco cosa era, la campanella scandiva i turni per l’orario di uscita e di ingresso per la pausa pranzo!

    Siamo all’inizio degli anni ‘90, un’epoca particolarmente vivace, in una azienda di servizi con forte caratterizzazione commerciale, elevata scolarizzazione (su quest’ultimo punto torneremo più tardi), una forte consapevolezza di immortalità e la concorrenza, la più agguerrita che si possa immaginare, alle porte.

    Eppure il rito del pranzo era scandito da un suono.

    Ora, pensandoci bene, la nostra vita, quella di aziendadipendente in modo particolare, è rigorosamente scandita da un abbinamento, di orario-suono.

    Lo squillo della sveglia, l’arrivo un po’ lugubre del pullman o del metrò o il tossicchiare della messa in moto della macchina, gli inquietanti colpi di clacson di quell’imbecille là dietro, la pernacchietta del cartellino di ingresso (il badge), il rutto sordo della macchinetta del caffè, lo scorrere gracchiante del vassoio sul bancone della mensa, poi ancora il caffè, il pullman (o il metrò o la macchina...), per non parlare del telefono, del toc toc sulla porta, del computer che, prima di guardarti ti invia qualche sommesso insulto.

    Questo binomio orario-suono che scandisce la vita in scomparti ricorrenti, qui è anche più accentuato. Che sia piuttosto difficile essere creativi, allegri, e fantasiosi in un ambiente tutto schemi, regole e partiture non c’è dubbio. Qui anche il pranzo è scandito dal binomio orario-suono.

    Ma siamo in una azienda di servizi, non in una maledetta catena di montaggio.

    E se io non avessi fame? E se proprio in quel momento stessi seguendo una intuizione particolare? So leggere l’orologio, so che ore sono. O, forse, è tutto architettato dal Grande Maestro per mantenere l’ordine e la disciplina anche (anche, anche, anche) da un punto di vista gastrointestinale oltre che cerebrale? Vediamo se funziona.

    Azienda di servizi a forte caratterizzazione commerciale, ma soprattutto solida, sicura, gerarchica, funzionale, normativizzata, disciplinata, ubbidiente, precisa, pallida, scandita, sofferta, immanente, assoluta, schematizzata e razionale.

    Ma sì, allora funziona, è coerente; il pranzo, o meglio, la pausa pranzo deve essere annunciata, è un lieto evento dopo la pesante mattinata di lavoro e, il rientro, ricordato; cade la penna di mano, si fermano i pensieri, si bloccano i discorsi di lavoro e via per un’ora (precisa, sicura, disciplinata) puoi parlare d’altro.

    Ma giusto un’ora. Il Grande Maestro ha detto un’ora e allora ricordati che è finita, senti questo suono, riconverti i tuoi discorsi, riassesta i tuoi pensieri; è scattato il timer, adesso lavori e pensi di lavoro.

    Era passata una settimana dal mio ingresso in azienda. Durante una chiacchierata semi ufficiale il D.G. mi chiese: «Cosa l’ha colpita di più in questo periodo?»

    «Un fatto strano, dottore. Lo so, non c’entra nulla, però… qui non ride mai nessuno, non c’è mai un po’ di allegria.»

    D.G. o come lo chiamavano tutti il dottore riuscì a diventare un po’ più pallido del solito e una folgorante espressione di stupore gli lacerò lo sguardo solitamente sornione prima di bofonchiare:

    «È la stessa cosa che ho detto io, quando arrivai un po’ di anni or sono.»

    «Beh, vuol dire allora che è piuttosto evidente e che non è cambiato molto.» Su quest’ultimo punto avrei fatto più bella figura se fossi riuscito a starmene zitto. Sicuramente arrossii e ripresi:

    «Sì, a me piace ridere. Come si fa a non ridere ogni tanto? Nella mia passata esperienza ho incontrato tutte aziende più ridenti, cioè voglio dire…»

    «Sì, ho capito cosa vuole dire; non si giustifichi, è ciò che penso anch’io. Ma vede, qui ridere, l’allegria

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