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Sono morto redattore. Storie di un giornalista rinato professore
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E-book217 pagine3 ore

Sono morto redattore. Storie di un giornalista rinato professore

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Info su questo ebook

“Sono morto redattore” è la storia di un giornalista professionista che dopo venti anni decide di cambiare vita e passare all’insegnamento. Una scelta dolorosissima, dettata dalla necessità, che ancora oggi lo fa soffrire. Le sue avventure (tragiche, comiche ed ironiche) si incrociano con quelle di tanti altri giornalisti di serie B, senza tante speranze per il futuro ma innamorati persi di questo mestiere. Ci sono i dietro le quinte della vita di redazione, i personaggi, gli incontri e le avventure che hanno formato il protagonista del racconto, i colleghi morti sul campo, gli amici mafiosi finiti ammazzati, in carcere o che si sono pentiti, le tante rinunce per servire sua maestà la notizia. Mille e una vita di professionisti dell’informazione, dove il giornalismo ne esce per quello che è: il più bel lavoro del mondo, dove però la maggior parte dei lavoratori della carta stampata combatte per arrivare a fine mese, dove ex direttori e bravi giornalisti d’un tratto si ritrovano per strada senza uno straccio di contratto, dove si può servire per anni lo stesso giornale ma “morire” da semplice redattore, senza cioè alcuna promozione sul campo. Il protagonista a un certo punto lascerà la redazione per provare a rinascere professore. Un trapasso velocissimo, da una vita lavorativa comunque straordinaria a un’altra forse più ordinaria, ma altrettanto stimolante. E con la consapevolezza di essersi saputo creare una via di fuga.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2018
ISBN9788868226879
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    Anteprima del libro

    Sono morto redattore. Storie di un giornalista rinato professore - Roberto Grandinetti

    Collana

    check-in

    ROBERTO GRANDINETTI

    SONO MORTO

    REDATTORE

    Le avventure di un giornalista rinato professore

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2018

    ISbn: 978-88-6822-687-9

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Ad Alfredo,

    mio fratello maggiore

    Prologo

    SONO le tribolazioni e le gioie, gli alti e i bassi di un giornalista di serie B, che qualche volta ha sfiorato la serie A. Un giornalista che ha lavorato per quasi vent’anni per lo stesso giornale, non cedendo alle tentazioni degli altri concorrenti. Fedele fino alla fine, dunque, anche se il suo, di giornale, non è che abbia del tutto ricambiato tale incondizionato atto d’amore. Lo ha fatto anzi morire redattore, senza cioè alcuna promozione sul campo e, per colpa anche della crisi che sta vivendo la carta stampata, speranze per il futuro. Da qui la (sofferta ma necessaria) decisione di intraprendere un’altra attività lavorativa, garantita a vita. L’idea di questo racconto autobiografico (nascita, vita e morte di un redattore), che di riflesso è un po’ anche la storia di tanti altri giornalisti che militano nella serie cadetta del professionismo, è nata a seguito di un incontro, casuale, con un dirigente delle forze dell’ordine. È stato lui il mio, inconsapevole, ispiratore. Quindi, prendetevela con lui. Bisogna ritornare però indietro di qualche anno, una decina circa. Il luogo è il tribunale di Cosenza. Il sottoscritto, giornalista professionista con un contratto a tempo indeterminato presso un noto quotidiano a diffusione regionale, in perenne e snervante ricerca di notizie di cronaca nera e giudiziaria, rivede dopo diversi mesi il dirigente in questione, un giovane uomo che ha fatto carriera, secondo i più maligni grazie anche all’aiuto di un parente, influente politico. Un tipo per me simpatico e alla mano. E poi, è una colpa avere un familiare influente? Anzi, alzi la mano chi non vorrebbe averne uno. Se poi lo ha aiutato, buon per lui e peggio per chi, come me, non è benevolmente colpito da tali influenze. Ci incrociamo, dunque, e mi dice: Tu ancora qui, a cercare notizie?!. E io, un po’ risentito: E vabbé, è il mio lavoro, e tu poi non sei sempre a caccia di ladri?. E lui: Sì, ma io ho fatto carriera. Quella risposta mi ha come svegliato da un antico, ipnotico torpore, e mi è rimbalzata in testa per gli anni a seguire, fino al commiato dalla carta stampata. Aveva ragione, il giovane dirigente, parente dell’influente politico. Lui ha fatto davvero carriera. Io invece no. L’ho conosciuto ai suoi inizi, quando dunque non era ancora un graduato; ora è un alto (anche fisicamente) dirigente. Io, al contrario, alla fine ho lasciato il giornale (sebbene fossi alto anch’io) da redattore ordinario, malgrado i miei quasi venti anni di fiera militanza giornalistica. Manco vicecaposervizio mi hanno promosso. Lo sono stato di fatto, in virtù della mia anzianità, ma la cosa non mi è mai stata riconosciuta in busta paga. Settanta euro in più al mese che in un anno mi avrebbero permesso, che so, di pagare una rata e mezza del mutuo o tre dell’automobile. E ne ho visti di colleghi che hanno ottenuto promozioni. Mi sono gerarchicamente passati tutti davanti. Ed io a guardare e a occuparmi di cronaca nera e giudiziaria. Sono forse rimasto prigioniero del mio ruolo (responsabile di cronaca nera e giudiziaria), delicato, pericoloso e che in pochi vogliono ricoprire. È uno di quei ruoli dove se il buco lo dai il merito è di tutto il giornale, se lo prendi la colpa è invece solo tua. Prigioniero e dunque vittima di questo lavoro, che ti prende tutto, ti logora e ti esalta nello stesso tempo. La notizia, prima di tutto. Poi la famiglia, gli affetti e tutto il resto. Magari ti dimentichi che tua madre (che non ti voleva giornalista, ma professore) è a letto malata; poi muore e ti rimane per sempre dentro il senso di colpa per non averla assistita per come dovevi e per come meritava. Perché la notizia, la voglia di scoop ti rendono cinico, freddo, una bestia da giornale. E alla fine ci sono buone possibilità che manco la fai una bella carriera. Quelle che leggerete sono quindi le avventure giornalistiche di un redattore ordinario, vissute al fianco di chi nello stesso modo ama e odia questo mestiere, con zero certezze per il futuro. Persone alle quali l’alto dirigente delle forze dell’ordine rifarebbe notare che – lui – la carriera l’ha fatta davvero. Un romanzo d’affetto e di rancore, coi suoi flashback, i suoi aneddoti, i suoi finali aperti e a sorpresa, le sue storie incrociate. I vari (e veri) protagonisti si muovono in un arco temporale di venti anni, dal vostro narratore quasi tutti trascorsi appresso alla notizia del giorno e all’interno di un mondo che non è poi così bello e ovattato come sembra o si vuol far credere. Emergono le storie tragiche e tragicomiche di giornalisti un po’ sfigati (e io sono il primo), con zero tituli, ma anche arrabbiati, alcuni veri e propri animali da redazione pronti ad azzannare per uno scoop e ad arrampicarsi sugli specchi (proprio come farebbe ogni altro lavoratore di serie B) per mantenere una famiglia. Professionisti che in questo mestiere hanno creduto davvero (alcuni continuano a crederci) e che alla fine però restano azzannati per morire (certi per davvero) da semplici redattori, o al massimo caposervizio. Io, dopo vent’anni vissuti praticamente in redazione, ho gettato la spugna per istinto di sopravvivenza. Non potevo più andare avanti con lo stipendio puntualmente pagato in ritardo e diversi arretrati insoluti. Una scelta dolorosissima, tanto che ancora oggi piango per il distacco. Neanche più, ormai, potevo riciclarmi in un altro giornale, iniziare daccapo da qualche altra parte. Forse avrei dovuto guardarmi attorno con largo anticipo, offrire la mia collaborazione a qualche testata nazionale, prepararmi a qualche concorso per entrare magari in Rai (sì, figurati...). Non ho avuto molta ambizione e un briciolo di presunzione. Mi bastava lavorare in casa per il giornale che credevo potesse mantenermi per tutta la vita. Così non è stato. Ho quindi scelto, in virtù di un vecchio concorso a cattedra superato nel lontano 2000, la strada dell’insegnamento (Italiano e Storia nelle scuole secondarie di secondo grado). Ho pian piano scalato la graduatoria e, dopo quattordici anni, è arrivato il mio turno. Ormai non ci pensavo più di finire dietro a una cattedra. Alla fine quel concorso (che manco volevo fare) mi ha salvato la vita. Ora, dunque, insegno e la cosa non mi dispiace. Ho finalmente uno stipendio sicuro (anche se con qualche euro in meno, ma a conti fatti non tantissimi) e finalmente puntuale (ogni 23 del mese, che – se poi è un giorno festivo – te lo accreditano pure in anticipo). Potrò dunque (a meno che lo Stato non fallisca) estinguere il mutuo e finire di pagare le 60 (sessanta!) rate della macchina (mai più, giuro, mi impelagherò in un finanziamento del genere!). E poi il contatto coi ragazzi è davvero edificante. Mi hanno fatto pure docente referente del giornalino scolastico. Una specie di eterno ritorno…

    r. gr.

    VITE (?) DA GIORNALISTA

    Il profumo della carta stampata

    Tutto ha avuto inizio per caso. Un po’ come accade nelle più belle avventure. Un quotidiano locale, da qualche tempo in edicola, cercava un corrispondente da Cerisano, ridente paesino (così si usa dire, anche se in certi luoghi c’è piuttosto da piangere) a un tiro di schioppo da Cosenza, mia amata città natale. Ci abitava la mia fidanzata (e futura moglie) e lì alla fine mi sono trasferito. Mi giunse dunque la soffiata che quel neonato quotidiano stava cercando un aspirante giornalista che scrivesse da quella piccola area. Laureato da un paio di anni, non avevo ancora le idee ben chiare su cosa volessi fare da grande. Colsi la palla al balzo e mi presentai, col batticuore e senza tanta convinzione, in redazione. Venti anni di vita giornalistica mi stavano aspettando. Parlai col caposervizio, un giovane e bravo giornalista che avevo avuto modo di conoscere allo stadio, in curva sud. Di lui si racconta che, una volta superato a pieni voti l’esame da professionista, rifiutò l’immediata assunzione al Corriere della Sera. Meglio contare qualcosa nella mia città e nel mio giornale che – avrebbe detto – essere l’ultimo bottone della brachetta di un grande quotidiano. Mi presentai, dunque, e mentii – io che ancora abitavo nella città capoluogo – dicendogli che ero originario di quel paesino, proponendomi come corrispondente. Mi mise subito in squadra, premettendo che all’inizio non avrei visto soldi. Dovevano mettermi alla prova. Ancora oggi si dice così alle nuove leve, la maggior parte delle quali soldi alla fine non ne vedranno mai. Accettai, e l’ultima raccomandazione fu quella di tenere le antenne ben dritte. Iniziai così a scrivere da un paese che manco conoscevo bene. Me la cavai comunque, grazie anche all’aiuto della mia dolce metà e dei miei primi amici cerisanesi. Ricordo benissimo la pubblicazione del mio primo articolo. Nulla di eccezionale, giusto la cronaca di un consiglio comunale. Ma vedere la mia firma sotto il pezzo, in grassetto, mi provocò un’emozione fortissima. Oggi, a rivederlo, mi commuoverei. Annusai il giornale, come si fa quando si acquista un libro, e lo sentii ancora più mio. L’odore della carta stampata è come quella del buon pane fresco. Chi ne è veramente innamorato, della carta stampata, sa cosa voglio dire. Ero orgoglioso e contento di questa mia collaborazione, che mi faceva sentire importante, che mi dava nuova adrenalina. Di quel periodo ricordo bene la risatina di una signora, una professoressa di scuola media. Facevo, in virtù della mia laurea in Lettere, lezioni private (italiano, latino, storia e geografia, insomma tutto, compreso il greco) al figlio. Le dissi di questa mia avventura giornalistica. E lei mi chiese di cosa in particolare mi occupavo. Faccio il corrispondente da un paesino della nostra provincia, risposi. Lei fece dunque questa risatina. Forse si aspettava che scrivessi qualcosa di più importante e da una località più rinomata. Ci rimasi un po’ male, ma proseguii per la mia strada. Anzi, quella risatina mi spronò. Iniziai col tempo a proporre anche pezzi per la cultura e la cronaca cittadina. Il mio modo di scrivere piacque al direttore, che mi propose il primo contratto: Sei una buona penna, mi disse. Si riferì in particolare all’ultimo pezzo che avevo scritto, una piccola inchiesta sul campo scuola di Cosenza, una struttura sportiva per chi ama correre all’aria aperta. Ricordo ancora l’attacco, un po’ – ma involontariamente – morandiano: C’è un grande prato verde attorno al quale i cosentini, dimentichi delle noie quotidiane, amano correre. È il campo scuola di via degli Stadi.... Mi chiese, il direttore, se sapevo usare il computer. Gli risposi di si, anche se non era vero. Una bugia che mi ha fatto svoltare, ed entrare in Un mondo di amore (qui il riferimento al Gianni nazionale è invece volontario). Entrai in redazione e iniziai a pubblicare pezzi per la cronaca, attendendo con eccitazione la pubblicazione. Esordii con la tragedia che vide come sfortunato protagonista un ragazzo del mio paesino, che venne investito a morte da un’auto in pieno centro cittadino. Scrissi che era stata una Volante della Polizia a centrarlo mentre attraversava la strada. Altri organi di informazione ci girarono un po’ intorno. Scrissi un bel pezzo, che fu interamente letto nel corso di un tg locale. Chi lo lesse non citò però la fonte, prendendosi tutto il merito. Ma per me fu come un’ulteriore promozione sul campo. Mi fu così affidata anche la cronaca nera, poi pure la giudiziaria. Il precedente responsabile, non ne voleva sapere più. M’introdusse nei palazzi di giustizia. Mi disse velocemente: Questa è la corte d’Assise, questa è la Procura, questo è il pm Pinco Pallino, questo è il giudice Tal dei Tali, questo è l’avvocato Tizio Caio. Mi diede il suo in bocca al lupo e se ne andò. I primi giorni furono un vero incubo. Andavo appositamente a piedi da casa al tribunale per ritardarne l’ingresso. Ma poi pian piano presi le opportune misure, creando i giusti intrecci di amicizie, e in tribunale iniziai ad andare in auto o in scooter, cominciando a dare del tu agli avvocati e a qualche magistrato alla mano. Forse (ma non ci scommetterei tutti i miei averi, che tra l’altro pure pochi sono) quel mio Cicerone volle appositamente lasciarmi da solo in quell’originario incubo per permettermi di farmi per bene le ossa. E devo confessare che, dopo tanti anni e questa volta in una posizione privilegiata, la stessa cosa ho poi fatto con le nuove leve, invitandole a cavarsele da sole per tastarne le reali capacità. Seguì il contratto da praticamente e quindi l’esame da professionista, a Roma, superato al primo tentativo. La consacrazione. E a dire che tutto era partito per caso, anche se dentro sentivo già caldo il sacro fuoco della notizia. Un fuoco che ti mantiene vivo, ma che devi però saper domare, per non farti divorare del tutto. Dopo vent’anni mi accorgo che di strada sì ne ho fatta, ma a costo anche di perdere – nel nome della sacralità della notizia – vecchi amici e di dimenticarmi delle persone che ti stanno affianco. Non mi perdonerò mai, per esempio, di aver dedicato poco tempo a mia madre morente perché incollato davanti al computer per cucinare una pagina o scrivere il pezzo dell’ultima ora. O di aver mandato da sola mia moglie al corso prematrimoniale. Non sono stato del tutto ripagato per questi sacrifici. Non ho avuto, per esempio, promozioni. Ma sono andato avanti lo stesso. Il giornalista è un uomo cinico e masochista. Se non lo è di suo, lo diventa. La notizia prima di tutto. Non c’è niente da fare. Puoi non essere pagato da mesi, odiare il tuo editore o il tuo direttore, puoi lavorare anche fino a 18 ore al giorno, ma se annusi lo scoop riapri la pagina e ti rimetti a scrivere. Non se ne esce: ti siedi col tuo blocchetto di notizie e ti dimentichi di tutto e di tutti. Vuoi fare il giornalista? Questo è il dazio che devi pagare.

    The show must go on

    Noi a lavorare nelle nostre solite postazioni, davanti ai computer. Nella grande sala dei convegni, a una decina di metri, la bara con dentro Antonino. Era stato nominato caposervizio da pochissimi giorni. Non aveva compiuto ancora 50 anni. Aveva l’età che ho ora io, e se ci penso mi si gela il sangue. È morto sulle scale del Municipio di Cosenza, durante un importante consiglio comunale. Il cuore lo tradì. Pochi giorni prima lo aveva detto a un collega: Mi fa male un po’ il petto. A nulla valse il saggio consiglio di andare in ospedale per un controllo, che forse avrebbe evitato il lutto. C’era una redazione da mandare avanti. Il giornale prima di tutto, anche a costo di rimetterci la vita. E quel giorno lui, che poteva in virtù del suo ruolo starsene tranquillamente seduto in redazione ad aspettare i pezzi dagli inviati, o magari andare dal dottore per farsi controllare quello strano dolore al petto, andò personalmente in Comune per seguire quel consiglio decisivo per le sorti del sindaco. Morì sulle scale che portavano alla sala consiliare. I lavori si bloccarono per qualche minuto, poi incredibilmente ripresero mentre il corpo senza più vita di Antonino veniva coperto da un telo bianco. C’erano i numeri da far tornare per salvare il sindaco. Nessun rinvio. Uno schifo, riparato con l’intitolazione dell’aula consiliare a quel giornalista morto durante il lavoro. Pare che uno dei consiglieri durante quelle concitate e drammatiche fasi abbia più o meno detto: "Vabbè, continuiamo il consiglio e poi, magari, gli dedichiamo una

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