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Misteri, crimini e storie insolite di Torino
Misteri, crimini e storie insolite di Torino
Misteri, crimini e storie insolite di Torino
E-book404 pagine6 ore

Misteri, crimini e storie insolite di Torino

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Info su questo ebook

Gli enigmi insoluti, i misteri oscuri e i delitti irrisolti della capitale italiana dell’esoterismo

Torino è una città densa di contraddizioni. Nelle sue strade all’apparenza piane e tranquille, il bianco e il nero, il bene e il male, la luce e l’ombra si mescolano fino a confondersi. Gli elementi segreti che la caratterizzano si nascondono agli occhi di chi non la conosce a fondo. L’aura magica che da sempre la pervade si perde nel silenzio dettato dalle regole d’oro degli antichi libri di magia. Questa unicità energetica unita all’elemento della segretezza che, come recitano i grimoires, i manoscritti esoterici medievali, deve contraddistinguere il lavoro di coloro che operano in senso cosmico, ha fatto sì che, nei secoli, Torino si sia affermata come Capitale dell’esoterismo italiano. Parallelamente si è consolidata una gran quantità di luoghi comuni che confondono la figura del mago con quella del ciarlatano, sedute spiritiche e una preoccupante diffusione di “sette sataniche” con la ricerca di una comunione cosmica.
Laura Fezia ci accompagna in una escursione tra sacro e profano, alchimia e spiritismo, cronaca gialla e nera, nei luoghi più insoliti ed enigmatici della città piemontese, dove i crimini assumono connotazioni magiche e le storie parlano quasi sempre il linguaggio dell’arcano…

Crocevia simbolico tra magia bianca e magia nera, a Torino tutto può accadere…

Tra gli argomenti insoliti e misteriosi:

Il portale dello zodiaco
Le signore dell’occulto
Luigia Sola e la misoginia di Lombroso
Una “liaison dangereuse” nella Torino degli anni Trenta
Il diavolo in via Gradisca
Serial killer a Torino
Tutti in fila al freddo per vedere lei
Un re dai modi poco regali
Un capo indiano a spasso per il centro
Il Buddha a Porta Pila

Laura Fezia
è nata a Torino, dove vive e lavora. Studiosa del mistero in tutti i suoi aspetti, appassionata di cronaca giudiziaria, esperta di tecniche per il riequilibrio energetico, fa la consulente e la scrittrice. Ha pubblicato Scuola di magia; Mercanti dell’occulto; Choku rei, riconnettersi con la vita; Mago: se lo conosci, lo eviti; Fatima, un segreto per il futuro prossimo; La magia del gatto; I chakra, teoria e pratica; 2012: conto alla rovescia; 44 gatti. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 misteri di Torino (che non saranno mai risolti).
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158702
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    Anteprima del libro

    Misteri, crimini e storie insolite di Torino - Laura Fezia

    I misteri

    L’itinerario magico

    Chi desidera visitare Torino alla ricerca della sua appartenenza al mondo del mistero, tanto per incominciare ha a disposizione un itinerario principale che procede in linea retta. In un secondo tempo esistono altri percorsi e siti densi di particolari interessanti, che confermano la tradizione.

    Partiamo da piazza Statuto o, meglio, dalla zona sulla quale insiste: si dice che fosse considerata negativa prima ancora di Augusta Taurinorum, tanto da essere scelta per costruirvi una necropoli. Ci si dimentica, però, che per gli antichi la morte aveva un significato ben diverso da quello che le attribuisce la cultura moderna: non era un evento definitivo e traumatico, ma la tappa di un ciclo naturale. La tumulazione dei defunti, infatti, avveniva secondo rituali che ancora non avevano perso la loro valenza magica, come poco per volta è accaduto in seguito. In piazza Statuto troviamo il monumento dedicato alle vittime del traforo del Frejus, uno dei più brutti dell’intera città, tanto che è un gioco da ragazzi definirlo inquietante e caricarlo di suggestioni sulfuree. Bianchi e possenti corpi maschili, affaticati e sofferenti, si arrampicano sui fianchi di una montagna di rocce scure, sulla cui cima si erge un genio alato con la fronte ornata da una stella. Il complesso ha una doppia chiave di lettura, come è normale a Torino: si tratta, secondo alcuni, di un’allegoria della lotta che l’uomo deve compiere per addomesticare la natura (con evidente allusione a coloro che sono morti lavorando allo scavo della galleria tra Francia e Italia), per altri rappresenta la faticosa ascesa umana verso la Conoscenza, irta di mille trappole e ostacoli di ogni genere e rappresentata dalla figura alata sulla cui fronte spicca una stella a cinque punte, ossia un pentacolo. Avremo modo di vedere successivamente di chi si tratta… e anche in questo caso scopriremo che esistono due interpretazioni. La fantasia popolare pretende che al di sotto del monumento si celi niente meno che la porta dell’inferno: in realtà vi è ospitata la centrale del sistema fognario torinese e per ora Belzebù non ha protestato per questa prosaica invasione del suo territorio. Più realisticamente (si fa per dire…), in piazza Statuto cade il vertice di uno dei due triangoli magici cui Torino appartiene, quello nero, una delle due parti del Tutto. In alchimia si direbbe che si tratta della nigredo, o opera al nero, la fase iniziale del lavoro senza la quale non si giunge alla Pietra filosofale: è quella in cui la materia incomincia lentamente a dissolversi attraverso la putrefazione. Non è un caso che sia rappresentata proprio qui, nel luogo dove gli antichi seppellivano i morti e i romani eseguivano le condanne capitali. In un’aiuola alla spalle del monumento vi è un obelisco sulla cui cima si trova un astrolabio: la tradizione esoterica afferma che il vertice del triangolo nero termini in quel punto.

    Lasciando la piazza, ci possiamo incamminare lungo via Garibaldi e guardandoci intorno, mentre proseguiamo verso piazza Castello, possiamo ammirare numerosi edifici antichi, ma soprattutto, quando giungiamo all’incrocio con via della Misericordia, gettiamo uno sguardo a destra e troviamo la chiesa omonima che è anche detta degli impiccati, poiché in un tempo lontano ospitava la confraternita che si occupava di accompagnare al patibolo i condannati a morte. Chi ha tempo può andare a visitare il piccolo museo che conserva le testimonianze della lugubre liturgia che veniva celebrata in occasione di ogni esecuzione. Prima che Vittorio Amedeo III, precedendo il napoleonico editto di Saint Cloud, vietasse le tumulazioni all’interno delle mura cittadine, nei sotterranei della Misericordia venivano sepolti i cadaveri dopo il patibolo, gettati senza troppa pietà entro fosse comuni. Per questo motivo si dice che la via, dopo l’imbrunire, sia popolata da irrequieti fantasmi.

    Proseguendo per la via pedonale più lunga d’Europa, ci imbattiamo in un’altra chiesa, quella di San Dalmazzo, il cui primo nucleo risale all’XI secolo e i cui sotterranei venivano usati, come la Misericordia, per la tumulazione dei condannati e poco dopo, all’angolo con via Botero, in quella dei Santi Martiri, che oltre a essere stata la sede degli esorcisti torinesi, presenta una curiosa facciata (la vedremo in un successivo capitolo).

    Via Garibaldi sfocia, quindi, in piazza Castello, dove troviamo un piccolo concentrato di elementi interessanti. C’è, innanzitutto, Palazzo Madama, con la sua facciata barocca aggiunta da Juvarra nel 1721 all’antica Casaforte degli Acaja, a sua volta costruita attorno a una delle porte del castrum romano e modificata in epoca medievale. Il castello è denso di misteri: vi aleggiano l’inquieto fantasma di Madama Cristina e gli spiriti senza pace dei numerosi prigionieri che si dice siano stati giustiziati nelle sue segrete in ogni epoca, corrono leggende sui suoi sotterranei che avrebbero ospitato il laboratorio magico di Emanuele Filiberto, sui misteriosi personaggi che sarebbero stati invitati dal duca per compiervi esperimenti segreti, sulle gallerie che lo collegherebbero ad altri luoghi occulti, sull’ingresso a una delle grotte alchemiche. E già tanto basterebbe per una sola piazza. Ma spostando lo sguardo verso sinistra, ecco altri siti esotericamente interessanti: la Biblioteca Reale, per esempio, con il suo prezioso autoritratto leonardesco e i molti documenti che si pretende conservi, tra cui numerosi trattati di alchimia e alcuni tra i più oscuri libri maledetti. Accanto, vi è la cancellata di Palazzo Reale, sorvegliata dalle statue dei Dioscuri: proprio in mezzo a esse, la tradizione vuole che ci sia il centro luminoso di Torino, che vi termini il vertice del triangolo bianco. Ma non è finita: pochi passi, ed ecco il duomo, che conserva la Sindone, ma anche i giardini (attualmente chiusi al pubblico per motivi che se fossero confermati costituirebbero uno scoop), dove ci sarebbe l’accesso a un’altra delle tre grotte misteriose, probabilmente la prima. Siamo così giunti a un’altra fase del lavoro dell’alchimista: dalla nigredo rappresentata in piazza Statuto, siamo arrivati all’albedo o opera al bianco, nella quale la materia si purifica e si sublima.

    Il percorso, però, prosegue lungo via Po, alle spalle di Palazzo Madama: qui incontriamo via Montebello, dove si trova la Mole antonelliana, che è uno dei due simboli ufficiali della città (l’altro è la statua equestre dedicata a Emanuele Filiberto posta al centro di piazza San Carlo e detta ’l Caval ëd brons). Il monumento che svetta nel cielo di Torino ha una lunga e travagliata storia che ogni guida turistica può raccontare, ma secondo l’interpretazione esoterica rappresenterebbe un’antenna cosmica e sarebbe stato lo stesso Antonelli a conferirle questa caratteristica, non si sa se consapevolmente o in modo casuale: in seguito a un cedimento del terreno in corso d’opera, l’originale architetto inserì alla base della struttura una serie di catene e tiranti di ferro, trasformando in tal modo la Mole in un condensatore di energia.

    In via Po, dopo via Montebello, ci imbattiamo, a sinistra, nella chiesa della Santissima Annunziata, sede dell’omonima confraternita che vede tra i suoi membri anche casa Savoia e la cui storia è ammantata di mistero. Una delle leggende sulla ricerca della terza grotta alchemica vuole che il suo ingresso sia celato negli oscuri sotterranei di questo luogo sacro.

    Al termine di via Po, un tempo cittadella universitaria del capoluogo sabaudo, entriamo in piazza Vittorio Veneto, chiamata semplicemente piazza Vittorio dai torinesi, che per molti decenni ha ospitato il Carnevale cittadino con le giostre e la sfilata dei carri allegorici; si tratta della piazza porticata più ampia d’Europa e attualmente è spesso citata dai giornali per la movida, che soprattutto nella bella stagione esaspera non poco i suoi abitanti.

    Attraversiamo il ponte sul fiume e giungiamo alla Gran Madre di Dio: un altro mistero. Le leggende divulgate da certo esoterismo fai da te pretendono che questa basilica, costruita per il ritorno in città dei Savoia dopo l’occupazione napoleonica, nasconda l’indicazione per trovare il luogo dove sarebbe nascosto il Graal. Ciò ha fatto sì che una delle due statue che ne ornano i lati, quella che tiene in mano una coppa, sia stata vandalizzata a più riprese. L’altra sarebbe invece la custode della profezia di Nostradamus relativa all’assassinio di un papa a Torino, che viene rispolverata invano a ogni visita pontificia in città. L’autentico significato esoterico della Gran Madre, invece, è tutt’altro e risiede nel suo nome, come vedremo successivamente. Ma ciò che ci interessa ora è il percorso del lavoro alchemico iniziato in piazza Statuto, che qui trova il suo compimento. Dopo la nigredo e l’albedo siamo infatti arrivati alla rubedo o opera al rosso, alla fase, cioè, in cui la materia si ricompone e si fissa nel suo nuovo stato atomico, completamente trasmutata. A confermare l’aura insolita di questa chiesa, che i torinesi non amarono subito, ribattezzandola il gasometro, ci sono altre particolarità: la sua forma, a pianta circolare, che ricorda quella di un tempio pagano e il suo orientamento, che è attentamente studiato e segue una direttrice ovest-est, con l’entrata a occidente e l’altare a oriente; infine, alle ore 12:00 del giorno del solstizio d’inverno il sole è perfettamente allineato con il vertice del timpano che ne sormonta l’ingresso. Alcuni esoteristi affermano che anche il motto inciso sulla facciata («Ordo populusque taurinus ob adventum regis», ossia I nobili e il popolo di Torino per il ritorno del re) nasconda in realtà il biglietto da visita di un ordine iniziatico.

    Il percorso appena descritto è uno dei tanti che si possono intraprendere alla ricerca delle prove che fanno del capoluogo sabaudo il luogo magico per eccellenza: anzi, questo itinerario sarebbe la sintesi dei misteri di Torino, l’indicazione occulta, riservata ai soli addetti ai lavori, di ciò che l’antica Augusta Taurinorum rappresenta.

    Ci sono, in realtà, infiniti altri indizi, sparpagliati in tutto il tessuto urbano, molti già conosciuti, altri più nascosti o mal interpretati dalla fantasia popolare: avremo modo di vederne alcuni nelle pagine seguenti. Il turista, in ogni caso, deve tenere presente che si sta aggirando in un laboratorio alchemico, nel quale occorre entrare con rispetto per non turbare il delicato lavoro che da sempre vi si svolge: solo così potrà percepirne il silenzioso messaggio. E comprendere, finalmente, questa enigmatica e solo apparentemente contraddittoria città.

    La magia dell’acqua

    L’acqua, lo sappiamo, è fondamentale per la vita e costituisce il 90% del corpo umano, ma la sua importanza va oltre l’aspetto chimico e fisico per interessare anche la filosofia e l’esoterismo.

    Per i filosofi greci era uno dei quattro elementi primari insieme all’aria, alla terra e al fuoco, dalla cui combinazione scaturisce la perfezione cosmica. Ne parlano, tanto per fare solo alcuni nomi tra i più noti, Talete, Empedocle, Platone e Aristotele. L’astrologia le attribuisce caratteristiche precise, la associa alla Luna, al femminile, alle emozioni, all’intuito, mentre i Veda le collegano il secondo chakra, Svadhisthana in sanscrito, sede della creatività e della gioia di vivere, connesso con il corpo eterico. In tutte le tradizioni, inoltre, è simbolo di purificazione. L’elenco potrebbe continuare, per giungere fino ai giorni nostri, in cui il medico giapponese Masaru Emoto ha dimostrato scientificamente un principio che gli antichi conoscevano bene, tanto che è alla base di discipline quali l’omeopatia e la floriterapia, ossia che l’acqua ha una memoria e che questa proprietà può essere utilizzata per influire positivamente in numerosi ambiti, dai più pratici ai più sottili.

    Anche in ogni laboratorio alchemico che si rispetti la presenza dell’acqua assume un’importanza determinante, partecipando attivamente al processo di trasformazione.

    Torino, come tante altre città, ha numerose fontane, ma soprattutto quattro di esse possiedono un significato nascosto che è interessante scoprire.

    In piazza CLN, addossate alla parte posteriore delle chiese gemelle di piazza San Carlo, vi sono due vasche dalle quali zampilla un unico, potente getto. Rappresentano il Po, raffigurato come un uomo nel pieno del suo vigore e la Dora, che mostra le sembianze di una donna prosperosa. Apparentemente si tratta di un omaggio ai fiumi che abbracciano la città: i due complessi marmorei furono realizzati nel 1937 dallo scultore Umberto Baglioni e secondo il progetto iniziale avrebbero dovuto essere affiancate dalle statue di Vittorio Emanuele III e di Mussolini, ma per fortuna ce le hanno risparmiate. Non si tratta, quindi, di monumenti antichi che riecheggiano un oscuro passato, ma ciò nonostante ci fu qualcuno che guidò la mano del progettista e lo indusse, forse inconsapevolmente, a completare il significato nascosto delle chiese alle quali sono appoggiati. San Carlo, infatti, con il suo campanile, rappresenta lo yang, il principio maschile; a fianco, separata solo da pochi metri, c’è Santa Cristina, lo yin, il femminile. Lo stesso dualismo è stato riprodotto sulla parte posteriore degli edifici, dove un uomo e una donna alludono alla sintesi degli opposti attraverso l’elemento acqua.

    In piazza Solferino, invece, troviamo uno dei monumenti più conosciuti di Torino, la fontana Angelica. Una curiosità: piazza San Carlo e piazza Solferino sono collegate tra loro da via Alfieri, dove al civico 15 si trova palazzo Trucchi Levaldigi con il celebre portone del diavolo.

    Ora che finalmente è stata liberata dai due mastodontici gianduiotti di Giorgetto Giugiaro che l’hanno deturpata dal 2004 al 2010, la piazza dedicata alla battaglia più lunga e sanguinosa della seconda guerra d’indipendenza ha ritrovato la sua consueta fisionomia: il noto designer non si è dimostrato molto contento per la demolizione dell’opera sua… i torinesi, invece, sì.

    Il nome del monumento non ha a che vedere con alate creature celesti. Si riferisce, invece, ad Angelica Cugiani, madre del ministro plenipotenziario Pietro Bajnotti, morto nel 1920, che nel suo testamento predispose un lascito per costruire una fontana in memoria dei genitori. Quando, dopo quasi dieci anni di discussioni, polemiche, beghe e intoppi burocratici, nel 1929 la scultura fu terminata, delle indicazioni del defunto committente restava ben poco. Il complesso marmoreo avrebbe dovuto essere in stile gotico medievale e collocato di fronte al duomo, orientato verso est: saltò fuori un miscuglio di neoclassico e liberty, l’opera fu sistemata in piazza Solferino e a rimediare al diverso orientamento ci dovette pensare l’artista Giovanni Riva, con un artificio che salta all’occhio di ogni attento osservatore. A rovinare l’armonia di piazza San Giovanni, che nemmeno i burocrati fascisti avevano osato toccare, ci pensarono gli architetti Mario Passanti, Giovanni Garbaccio e Paolo Perona, che negli anni Sessanta progettarono e costruirono proprio davanti al duomo un improponibile Palazzo dei lavori pubblici, che ancora oggi suona come un insulto alla severa bellezza di un luogo carico di Storia, arte e antiche suggestioni.

    A un primo, superficiale esame, l’Angelica sembra scolpita da un dilettante: une delle due statue maschili che la ornano volge il capo in un modo che appare innaturale. È l’escamotage cui Riva dovette ricorrere per ovviare all’ottusità delle autorità cittadine, che avevano ignorato la disposizione del povero Bajnotti circa l’orientamento della vasca. Il colosso, quindi, guarda forzatamente verso est, verso il punto in cui sorge il sole. Il complesso marmoreo è composto da quattro gruppi di statue sedute su basi di granito, che simboleggiano le stagioni; ai lati si trovano le rappresentazioni, incarnate da prosperose fanciulle, della primavera e dell’estate, al centro, in posizione rialzata, vi sono due possenti figure maschili che versano acqua da un otre: l’autunno e l’inverno. Le accompagnano altre sculture di contorno, che raffigurano bambini, animali, fiori, frutti della terra, mentre una testa di medusa orna, insieme ad altre bocche di deflusso, la base della conca. Una più attenta osservazione dei particolari, rivela il messaggio esoterico racchiuso nella fontana Angelica, che è un concentrato di simboli massonici, alchemici, astrologici e magici e che insieme all’orientamento, alle forme-pensiero che riproducono e all’energia dell’acqua, fanno della scultura di Giovanni Riva una sorta di Stargate. Non a caso la fontana è chiamata, dagli addetti ai lavori, la porta dell’infinito, che solo i maestri sanno come varcare per entrare in contatto con i livelli superiori della Coscienza cosmica. Una lettura più semplice, ma pur sempre esoterica, vuole che il monumento sia un’allegoria della transizione dalla condizione profana a quella di iniziato, dell’uomo che vince le tenebre dell’ignoranza e, superate tutte le prove, si apre alla Conoscenza. Scegliete voi quella che preferite.

    Nel 1898, in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario dello Statuto albertino e i quattrocento anni di vita del duomo, a Torino furono organizzate numerose manifestazioni. Fu posta molta cura nella preparazione di un così importante evento, che si pensò di solennizzare con un’esposizione nazionale e la città, che ancora non aveva del tutto digerito lo spostamento della capitale a Roma, volle anche dare una rinfrescata al proprio look per consolidare il mai abbandonato ruolo di salotto di corte.

    Per competere con l’Urbe, gli amministratori comunali si diedero un gran daffare e tra le altre iniziative affidarono all’architetto Carlo Ceppi il progetto per una spettacolare fontana nel cuore del Valentino, raccomandandogli, una volta tanto, di mettere da parte la proverbiale tendenza sabauda al risparmio. Ne scaturì una grande vasca ovale inclinata, circondata dalle allegorie marmoree dei dodici mesi e delle stagioni, in cui, da una terrazza ornata da quattro gruppi di statue maggiori che raffigurano il Po, la Dora, la Stura e il Sangone, precipita una spumeggiante cascata. In origine, nel bacino si trovavano anche altri gruppi statuari con sirene, cigni, putti e satiri, ormai perduti.

    L’effetto fu straordinario: i visitatori che raggiunsero Torino per partecipare alle manifestazioni dell’esposizione rimasero incantati dai giochi d’acqua, dalla sensuale suggestione delle statue e dai fasci di luci multicolori che, di notte, illuminavano la fontana. Come accade ancora oggi, la città riuscì nell’intento di stupire il forestiero con un’atmosfera impalpabile, che andava al di là delle cose e rimaneva sospesa nell’aria, invisibile eppure magicamente presente.

    Monsù Ceppi lo fece apposta o fu solo un caso? Una delle leggende sull’origine di Torino racconta che Fetonte (che altri chiamano Eridano), figlio di Febo Apollo, dio del sole, guidando in modo spericolato il carro dell’augusto genitore precipitò nel Po, in una zona dove in seguito sarebbe sorto il capoluogo piemontese. Numerosi ricercatori del mistero affermano che l’inesperto auriga si schiantò proprio nel luogo dove oggi sorge la Fontana dei dodici mesi, nella quale, comunque, troviamo rappresentati gli ormai noti simboli che riecheggiano il dualismo, il cammino iniziatico, il ciclo dell’eterno divenire, la conquista della Conoscenza e che, uniti all’energia dell’acqua, contribuiscono a creare un campo di forze volto a rigenerare l’equilibrio cosmico e a indicare la strada verso l’Uno.

    Insomma, nelle fontane che rappresentano il Po e la Dora, nello Stargate di piazza Solferino, nella vasca inclinata del Valentino, in mille altre piccole conche che zampillano nascoste nei cortili del centro storico di Torino, troviamo sempre lo stesso messaggio: il bianco e il nero, gli archetipi del principio femminile e di quello maschile, la materia e lo spirito, continuano a parlare della sintesi degli opposti che – sola – può portare al risveglio della coscienza.

    Un segreto per iniziati che l’acqua registra, ricorda, amplifica e trasmette incessantemente alla città.

    Anche Maria Maddalena ha detto basta

    La chiesa dei Santi Martiri si trova in via Garibaldi, un tempo via Dora Grossa, ed è dedicata ai primi martiri torinesi Avventore, Solutore e Ottavio, di cui custodisce le reliquie. Furono i padri gesuiti ed Emanuele Filiberto a volerne la costruzione, che fu iniziata nel 1577 e terminata, pare, nel 1612. A Torino è anche conosciuta come la chiesa degli esorcisti, poiché era la sede dei religiosi autorizzati dalla Curia a scacciare il demonio.

    Le notizie storiche e artistiche del santuario possono essere facilmente reperite su qualsiasi guida turistica e, in sintesi, parlano di una preesistente cappella dedicata a santo Stefano, a sua volta sorta, tanto per cambiare, sulle vestigia di un tempio pagano. Sarebbe stato san Massimo, fondatore della diocesi e primo vescovo di una Torino che ancora si chiamava Julia Augusta Taurinorum, a istituire il culto dei tre legionari trucidati nel III secolo, le cui reliquie, all’epoca, pare fossero conservate poco fuori città, in un luogo la cui identificazione è controversa.

    È invece interessante osservare la facciata di questo edificio, dove quattro nicchie ospitano altrettante figure femminili: una di esse raffigura Maria Maddalena, le altre tre rappresentano dee pagane, il che è bizzarro per una chiesa cattolica. Si dice che siano la testimonianza di antichi culti che resistevano ancora all’epoca in cui l’edificio religioso venne costruito e che Testa di Ferro non volle inimicarsi una parte dei sudditi facendole rimuovere. Probabilmente, invece, il duca, esperto di alchimia, le conservò ben sapendo ciò che rappresentavano: un’allegoria esoterica di alcune fasi del lavoro alchemico. In altre innumerevoli situazioni, infatti, la Chiesa non si fece scrupolo di abbattere, distruggere, dare alle fiamme qualsiasi accenno a religioni diverse: perché a Torino avrebbe dovuto fare un’eccezione? Anche la figura della Maddalena non è di stretta pertinenza della sola tradizione cattolica, che peraltro l’ha relegata al ruolo di prostituta pentita, ma fa parte di un più ampio contesto evocando il quale Dan Brown è riuscito a far uscire dai gangheri il Vaticano, scuotendo la sua millenaria imperturbabilità.

    Maria di Magdala rappresenta quella che in altre tradizioni veniva chiamata la Dea, il principio femminile che partecipa alla creazione al pari di quello maschile e che le grandi religioni monoteiste hanno allegramente depennato dai loro Libri. Nella Trimurti induista, per esempio, i due elementi coesistono e generano in continuazione ogni realtà «in basso come in Alto», nella religione egizia troviamo Osiride, Iside e Horus: nella Trinità cattolica, formata da Padre, Figlio e Spirito Santo, non manca qualcosa di essenziale?

    Poco distante dalla chiesa dei Santi Martiri, oltre il ponte Vittorio Emanuele I, c’è un’altra basilica che racchiude lo stesso segreto: la Gran Madre non nasconde indizi sul luogo dove si celerebbe il Graal, ma è il Graal, la coppa, il ventre della moglie di dio che «un potere oscuro ha cancellato dalla Storia».

    Non è una coincidenza che la forma di uno dei luoghi sacri più importanti di Torino sia quella di un tempio pagano e nemmeno che ricordi la Madeleine di Parigi. Il gasometro in riva al Po custodisce, inoltre, l’effigie di una Madonna nera e, ultima originalità, è una delle pochissime chiese al mondo intitolata alla Grande Madre.

    Questa presenza dell’archetipo femminile è una costante del capoluogo piemontese, dove la figura della Dea, una delle due parti del Tutto, viene continuamente rappresentata sotto le più diverse velature esoteriche e permea silenziosamente di sé l’energia della città, in attesa di risvegliarsi al termine di un lungo lavoro alchemico, che è ormai giunto alle sue fasi finali.

    Intanto, «La Stampa» del 16 ottobre 2012 ha pubblicato una curiosa notizia: Sigilli alla chiesa dei Santi Martiri. A Torino sono rimasti solo quattro gesuiti. I superstiti hanno dichiarato: «A luglio chiudiamo: non ci sono fedeli, siamo più utili altrove». Sembra che il sipario calerà definitivamente il 31 luglio 2013, che per ironia della sorte è il giorno in cui il calendario canonico ricorda sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

    Anche Maria Maddalena e le tre figure femminili che l’accompagnano si sono finalmente ribellate al ruolo gregario che ancora oggi la Chiesa cerca di imporre loro.

    C’è però un’incognita che potrebbe mettere in forse, almeno per il momento, il successo di questa legittima protesta: l’elezione al soglio pontificio di papa Francesco, appartenente al nobile ordine, riuscirà a rinviare l’evento?

    Che diavolo!

    Penso di poter parlare a nome di molti miei concittadini: non ne possiamo davvero più di quel trito pregiudizio che indica Torino come città satanica.

    Non si può parlare con qualcuno che proviene da un’altra località, senza sentirsi dire, nella migliore delle ipotesi: «Ma voi che vivete dove il demonio è padrone, come vi sentite?».

    Si ha un bel rispondere che questa a l’è na bala inventata di sana pianta e nemmeno troppo tempo fa: le sopracciglia si inarcano, gli occhi si fanno piccoli piccoli, gli sguardi furbetti, come se gli interlocutori sospettassero che la bala, a raccontarla, è il torinese che gli sta davanti, vergognoso di vivere in un posto tanto mal frequentato.

    Invece è proprio così: Torino non è più satanica di altre città, che però non hanno avuto la ventura di annoverare, tra i loro figli, un ex concorrente del mitico Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno, che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, non sapendo come rinverdire una popolarità ormai in declino, pensò bene di rilasciare un’intervista in cui affermò che tra le severe mura sabaude si celavano quarantamila satanisti. A conti fatti: uno ogni venticinque abitanti.

    Nessuno si preoccupò di effettuare la benché minima verifica e nemmeno di considerare che il dato sarebbe apparso fantascientifico perfino a un bambino delle elementari: i media si gettarono a peso morto su questa succulenta notizia e la spacciarono per vera, mentre Gianluigi Marianini tornò, almeno provvisoriamente, alla ribalta della cronaca, spacciandosi per esperto demonologo e ottenendo inviti a convention, trasmissioni televisive, conferenze.

    Giornali, TV e Marianini non furono i soli a trarre benefici da questa gavada: associazioni di fuori di testa con il pallino del satanismo si fiondarono nel capoluogo piemontese per organizzarvi convegni, alimentando questa diceria e il numero dei loro iscritti, mentre numerosi esoteristi locali in disarmo fecero salti di gioia all’idea di poter dire la loro sull’argomento, stando ben attenti a non smentire la notizia. La Curia ne approfittò per invitare i fedeli a stringersi ancora di più intorno a santaromanachiesa. Sull’altro fronte, iniziarono le gesta di gruppi di menti bacate, che si appropriarono di alcuni luoghi appartati e circondati da un alone in qualche modo misterioso per compiervi delle pantomime di rituali satanici, con tanto di pseudo messe nere e orribili sacrifici di poveri animali. I media si premurarono di dare la massima pubblicità a questi scempi, incrementandone il numero. Il mausoleo della Bela Rosin, l’antico cimitero di San Pietro in Vincoli, villa Moglia, sulla collina torinese, necessitarono di interventi per impedire il ripetersi di queste demenziali e pericolose pagliacciate. Intorno alla metà degli anni Ottanta, non contento del risultato che la battuta di Marianini gli aveva già consentito di portare a casa, l’arcivescovo Ballestrero, in occasione della festa del Corpus Domini, pronunciò un’omelia denunciando il preoccupante revival degli adoratori di Satana: a riprova di come la manipolazione mentale dei media sia efficace, la notizia, riportata da tutti i giornali, fece scoppiare una vera e propria psicosi cittadina che accrebbe a dismisura il numero degli indemoniati. Ciò obbligò la Curia a nominare un rinforzo di esorcisti e fornì a stuoli di cialtroni lucrose occasioni di superlavoro: così ce ne fu per tutti i gusti, religiosi e laici. A coronamento di questa bufala colossale, diventata in breve tempo argomento di discussioni accademiche, nel 1988 Giovanni Paolo II, in visita a Torino in occasione del centesimo anniversario della morte di don Bosco, rincarò la dose, descrivendo la città come roccaforte del Maligno, fatto che provocò molte proteste. Dopo l’intervento della diplomazia vaticana, le esternazioni pontificie furono mitigate e nel discorso che Wojtyla pronunciò in piazza Castello il demonio era prudentemente uscito dalla porta di servizio: Torino era diventata una città dalla forte connotazione spirituale, patria di tanti santi, culla di molte congregazioni religiose, ma «non esente da una certa mentalità secolaristica e da atteggiamenti consumistici». Uguale a tante altre, insomma, ossia permeata da una sacrosanta pluralità culturale.

    Ma ormai il danno era stato fatto e Torino era diventata ufficialmente la capitale internazionale del satanismo: in quegli anni saltarono perfino fuori dai polverosi archivi della Biblioteca Reale antichi documenti a conferma di quanto dichiarato da Marianini e confermato in seguito dalla autorità ecclesiastiche, come, per esempio, un regio decreto del 21 luglio 1773, nel quale Carlo Emanuele III condannava a morte ogni persona dedita a pratiche di stregoneria; era identico, in realtà, a numerosi altri emanati nello stesso periodo in ogni parte della penisola, ma servì per dimostrare ulteriormente come la città fosse un covo di adoratori del demonio già da tempo immemorabile. Nessuno ricordò come nel XVII e XVIII secolo ci fossero ovunque più presunte streghe che levatrici.

    Da allora, si dice che Torino sia piena di diavoli, raffigurati ovunque: andate a cercarli, se volete, ma ne troverete, in realtà, solo tre. Tutti i mascheroni che ornano le facciate dei palazzi non sono raffigurazioni demoniache, anzi: sono la rappresentazione di numi tutelari, hanno la funzione, con il loro aspetto spesso minaccioso, di proteggere la casa e i suoi abitanti. Si tratta di una tradizione antica, comune alle culture di tutto il mondo, dall’Oriente all’Occidente. In alcuni contesti si chiamano, è vero, demoni, ma l’etimologia del termine deriva da greco δαίμων, che significa dio, divinità, nume, potenza divina.

    Il primo, autentico diavolo torinese, che è anche quello più noto, si trova sul portone di via Alfieri 15, conosciuto, appunto, come il portone del diavolo. Il palazzo fu commissionato nel 1673 all’architetto di corte Amedeo di Castellamonte da Giovanni Battista Trucchi Levaldigi, ministro delle Finanze di Carlo Emanuele II, duca di Savoia. Inizialmente nessuna porta sbarrava l’ingresso al palazzo, ma la carica che il padrone di casa ricopriva non favoriva certamente l’affetto del popolo, così nel 1675 il conte Trucchi ordinò in gran segreto un portone a una manifattura parigina, facendo scolpire su di esso figure tali da intimorire i malintenzionati e completandolo con un batacchio che raffigurasse un diavolo cornuto. I pesanti battenti furono trasportati e montati nottetempo alla chetichella, nel più assoluto silenzio. Quando, la mattina successiva, i sudditi trovarono l’accesso al palazzo sbarrato da Satana in persona, conclusero che l’odiato funzionario avesse stipulato un patto con il diavolo, il quale aveva costruito e sistemato il portone in una sola notte. Nacque così la fama sinistra del palazzo, che fu confermata da alcuni fatti misteriosi che avvennero entro le

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