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Sardegna giallo e nera
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E-book276 pagine3 ore

Sardegna giallo e nera

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Info su questo ebook

Prefazione di Ferdinando Imposimato
Omicidi, sequestri, fatti di sangue e serial killer, trent'anni di criminalità nell'isola più misteriosa d'Italia

Quando si parla di criminalità sarda si pensa subito ai sequestri di persona. I rapimenti dell’Anonima, tra gli anni Settanta e Novanta, sono stati una vera e propria piaga nazionale. Casi eclatanti, come quello del piccolo Farouk Kassam, hanno riempito le pagine dei quotidiani e sconvolto l’opinione pubblica mondiale. Negli ultimi trent’anni la cronaca nera è stata animata anche da episodi meno mediatici, eppure più feroci. È il caso di Mirella Anna Silocchi, lasciata morire di stenti dopo aver subito il taglio dell’orecchio, o quello di Alessandro Fantazzini, scomparso all’improvviso e mai tornato a casa. Ma la criminalità sarda non è fatta solo di sequestri. L’isola ha prodotto gruppi terroristici e spietati assassini, come quelli che hanno ucciso Vicky Danij, ragazza ungherese decapitata in un residence su ordine della moglie del boss di cui era amante; o quello mai identificato che ha ucciso Luisa Manfredi, figlia del celebre bandito Matteo Boe; o ancora quelli politici, come gli uomini di Barbagia rossa (succursale sarda delle BR) e del MAS (quel Movimento Armato Sardo ispirato dall’ideologia di Giangiacomo Feltrinelli). A volte invece è solo la follia o la sete di denaro a spingere un uomo a uccidere: è il caso di Sergio Curreli, killer seriale conosciuto come il Mostro di Arbus, che ammazzava anche su commissione.
Questo libro, chiaro e rigoroso al tempo stesso, ripercorre trent’anni di “vera” storia criminale sarda, studiando non solo i casi eclatanti di cui i media hanno già svelato ogni segreto, ma soprattutto quelli meno noti, che hanno segnato l’isola con ferite forse anche più profonde.

Attentati terroristici, sequestri di persona, omicidi…
Un’isola bagnata di sangue

Tra gli episodi criminali contenuti in questo libro:

La “campagna Peci” contro il pentitismo sbarca in Sardegna
Lula, il paese che ha vissuto per dieci anni nell’anarchia
Graziano Mesina e la nascita dell’Anonima Sequestri
Giorgio Calissoni, il primo mutilato dall’Anonima Sequestri sarda
Il caso Caggiari, un sequestro finito in strage
Matteo Boe colpisce sia in Sardegna che “in continente”
La “zona grigia” dei sequestri Melis e Soffiantini
I killer di “faccia d’angelo” nel carcere di Badu ’e Carros
Il natale dei morti ammazzati. L’uccisione di don Graziano Muntoni
Femminicidio. Il caso ancora aperto di Dina Dore


Gianmichele Lisai
è nato nel 1981 a Ozieri, in provincia di Sassari. Ha collaborato a varie antologie, scritto per riviste e curato, con Gianluca Morozzi, la raccolta di racconti Suicidi falliti per motivi ridicoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato, 101 misteri della Sardegna (che non saranno mai risolti) e Sardegna giallo e nera.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854156876
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    Anteprima del libro

    Sardegna giallo e nera - Gianmichele Lisai

    Prefazione

    Tra i vari temi, il libro di Gianmichele Lisai affronta in modo efficace ed esauriente il complesso fenomeno dei sequestri di persona a opera dei banditi sardi. E correttamente lo inquadra fin da subito in una dimensione politica – o socio-politica – oltre che di pura criminalità organizzata. Ad esempio, il racconto del tentativo dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, amico di Che Guevara e Fidel Castro, di trasformare la Sardegna in una nuova Cuba nel cuore del Mediterraneo costituisce il felice esordio del libro poiché introduce il lettore nel difficile e complesso campo dei sequestri di persona sardi, che ebbero sicuramente una valenza non solo di delinquenza diretta ad aggredire i patrimoni di grossi imprenditori e di proprietari terrieri, ma anche di ribellione contro il sistema di potere, responsabile di grandi diseguaglianze sociali a scapito di pastori, lavoratori e pensionati, costretti a vivere senza retribuzioni adeguate. I banditi sardi – e già l’espressione banditi è indicativa del tipo di delitto commesso in quegli anni Settanta – sentivano fortemente il valore popolare della loro azione, diretta a realizzare quella redistribuzione del patrimonio dei cittadini che lo Stato, lontano e assente, non era riuscito a garantire. E in Sardegna questa dimensione da giustizieri valorosi creò un enorme consenso attorno agli autori dei sequestri e la mancanza di collaborazione con gli inquirenti da parte della popolazione locale attorno ai rapitori, spesso rendendo impossibile raccogliere prove testimoniali e di altro genere. Tale sostegno alle azioni criminali, del resto, perdurò anche dopo che il leggendario e amatissimo Graziano Mesina rifiutò l’aiuto finanziario e ideologico del giovane editore milanese. E questo nonostante il bandito fosse convinto che la Sardegna venisse considerata dallo Stato italiano una specie di colonia da sfruttare e trattare senza alcun rispetto per i suoi abitanti, trascurando totalmente un’azione di sviluppo economico e ambientale. La politicizzazione della violenza si tradusse così anche nella diffusione del terrorismo brigatista nell’isola. Lisai fa riferimento in particolare alla nascita della colonia sarda della BR, che trovò vasti consensi in Sardegna anche presso i capi storici, arrivati molto presto nell’isola: nel 1977, ad esempio, ritroveremo qui alcuni dei protagonisti della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro.

    Ma a creare il mito della terra dei fuorilegge – e, al contempo, di persone che agivano per riscattare il destino dei più deboli – fu proprio, tra il 1966 e il 1968, come ricorda l’autore in questo suo bel libro, l’esplosione del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, ad opera principalmente di Grazianeddu Mesina. Tuttavia, sebbene il denaro ricavato da tali operazioni criminose dovesse servire soprattutto per darlo ai poveri, lentamente le azioni dei banditi divennero sempre più feroci e non risparmiarono donne, bambini, anziani.

    A quel tempo – siamo alla fine degli anni Sessanta – le cronache nazionali parlavano dei sequestri come di un delitto che aveva una dimensione esclusivamente sarda, e successivamente calabrese. Nessuno pensava che esso sarebbe, nel volgere di pochi anni, dilagato nella penisola, esportato dai banditi isolani, che avevano basi in tutto il territorio italiano. Anche io, all’epoca, ero tra i convinti assertori che quel tipo di reato non avrebbe mai attecchito nel continente. E nei miei anni milanesi, dove avevo lavorato un lustro come giudice istruttore al fianco di Gerardo D’Ambrosio, Giuliano Turone e Guido Galli, non ebbi modo di occuparmi di quel genere di crimine, né pensavo che me ne sarei mai interessato. Nel capoluogo lombardo avevo conosciuto una stagione di violenza politica: le prime manifestazioni studentesche, la violenza di piazza, il rinascente fascismo, mentre come giudice mi occupavo delle inchieste sulla malavita comune e sulle bancarotte. Ma il destino aveva deciso diversamente da ciò che pensavo e desideravo per il mio futuro, che volevo impegnato ma tranquillo. E soprattutto lontano dai contatti con la delinquenza organizzata di quel livello. Tutto cambiò quando fui trasferito nella capitale, tre anni prima della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro. In realtà, i primi anni romani trascorsero senza scossoni, né emozioni forti. Finché all’improvviso un nuovo crimine cominciò a flagellare anche l’Urbe: proprio quello dei sequestri di persona. Nell’ufficio istruzione il consigliere Gallucci non immaginava l’ampiezza del fenomeno. I rapimenti – come abbiamo già accennato – non erano una novità, però sembravano relegati a una criminalità locale. Il 15 aprile 1975, tuttavia, venne sequestrato Gianni Bulgari, il gioielliere più famoso del mondo, e nella capitale si scatenò una serie allucinante di reati simili, sebbene non legati all’Anonima. A quel tempo il codice di procedura penale attribuiva le inchieste più complesse al giudice istruttore, cui spettava ogni decisione, una volta sentito il PM. E questo accadeva mentre gli ostaggi erano ancora nelle mani dei banditi. Fu così che un giorno dell’estate del 1975, il consigliere istruttore Gallucci mi convocò nel suo ufficio per affidarmi dei casi di rapimenti di persona. E ancora, nel giugno del 1976, su richiesta del PM Vittorio Occorsio, incriminai una banda di marsigliesi e romani: Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini, Jacques Berenguer, tutti accusati dei sequestri Ortolani, Danesi, D’Alessio, Filippini e Ziaco.

    Dopo i marsigliesi, mi imbattei nei sequestri dei sardi in continente. Rimasi profondamente colpito dalla crudeltà dei banditi sardi. Alcuni ostaggi, infatti, furono uccisi dopo il pagamento del riscatto: Marzio Ostini, industriale, Nazzareno Fedeli, commerciante, Emanuele Riboli, di soli 9 anni, il conte italo argentino Alfonso De Sayons, scomparvero tutti. Così l’Anonima sequestri sarda dilagò, seminando terrore e morte. E distruggendo le famiglie delle vittime, in preda ai sensi di colpa.

    Lisai, dopo avere trattato con bravura casi di scomparsa degli ostaggi mai più ritrovati (tra cui proprio quello di De Sayons, di cui si insinua il dubbio che fosse stato un sequestro simulato per fini politici, e Marzio Ostini, scomparso a San Casciano Bagni), si sofferma anche su casi singolari come quello di Fabrizio De André e Dori Ghezzi: dopo mesi di prigionia, la coppia divenne essa stessa sostenitrice delle ragioni sociali dei loro rapitori.

    Ma molti altri sono i casi di rapimenti che videro coinvolti anche sulla penisola banditi sardi. Quasi tutti questi casi furono trattati da un grande magistrato: Luigi Lombardini, di cui ricordo lo straordinario impegno nella lotta ai sequestri di persona. Egli fu con me promotore di una legge del 1978 a favore dei rapitori che collaboravano con la giustizia e consentivano la liberazione degli ostaggi. Una legge fondamentale, che salvò molte vite umane. Ciò nonostante, morì suicida perché accusato di avere tentato di estorcere denaro ai familiari di una rapita. Ma, per un racconto più dettagliato della figura di Lombardini – come del resto della storia di tanti sequestri e di altri crimini consumati in Sardegna negli ultimi anni – rimando all’esaustiva analisi che Lisai ne offre nelle pagine che seguono.

    FERDINANDO IMPOSIMATO

    Introduzione

    Quando si parla di delinquenza sarda, la mente corre subito al periodo buio dei sequestri di persona, che hanno dato all’isola un triste primato criminale. E in questo libro, per ovvie ragioni, si dà un grande spazio all’argomento. Ma si è cercato di analizzare i casi singoli sulla base della loro originalità. Ovvero, nell’insieme dei sequestri avvenuti – quasi tutti qui riportati – sono stati approfonditi gli episodi che, in varia misura, si sono contraddistinti per qualche particolare, più o meno rilevante. Ad esempio, perché parlare del caso poco noto del conte Alfonso De Sayons e non sviluppare, allo stesso modo, il celebre sequestro di Augusto De Megni? Perché nel caso De Megni non vi è alcun giallo, mentre il caso De Sayons apre a una torbida ipotesi sull’identità della vittima che ci rimanda indietro di trent’anni (rispetto all’epoca dei fatti) ovvero alla Germania nazista, quando il conte, forse un gerarca del regime, potrebbe essersi macchiato di crimini atroci. E il suo rapimento, è avvenuto davvero o fu tutta una messa in scena per sfuggire alla cattura e a un processo per reati di guerra?

    Il sequestro, stando alle fonti ufficiali e alle dichiarazioni di chi condusse le indagini, ci fu davvero, ma il conte De Sayons, dopo il prelievo dei rapitori, sparì nel nulla e mai il suo corpo fu ritrovato, come i molti altri cadaveri di vittime dell’Anonima sequestri sarda.

    Per quanto riguarda i casi celebri, si è invece cercato di analizzarli non solo storicamente e cronologicamente, ma soprattutto per i loro aspetti peculiari: come andò veramente la liberazione del piccolo Farouk Kassam? E i casi Melis e Soffiantini, pur essendo avvenuti in zone diverse e per mano di bande differenti, da cosa sono legati?

    Questi sono solo alcuni degli argomenti trattati nel libro che hanno lasciato aperti troppi interrogativi.

    Ma la criminalità sarda non è fatta solo di sequestri. Il volume, infatti, si apre con un capitolo dedicato alla Sardegna eversiva. La popolazione dell’isola, più di quelle delle altre regioni italiane, è stata portatrice di un forte sentimento anti-Stato, in parte causato dalla pressante militarizzazione. Come diceva Fabrizio De André: «Ai sardi non piace la gente in divisa». Proprio questo sentimento anti-Stato ha costituito la linfa vitale del banditismo della zona e ha generato gruppi terroristici endemici come Barbagia rossa, presto divenuta la colonna sarda delle BR, o il Movimento armato sardo, nato sulla scia della campagna Peci per punire i collaboratori di giustizia, tramite l’uccisione dei loro familiari.

    Un’altra parte del libro, la terza, riporta invece alcuni casi di cronaca. Ne sono stati scelti dodici – anche in questo caso per le loro peculiarità – ovvero quattro per ogni decennio, a partire dal 1980, come l’omicidio di don Muntoni a Orgosolo, fatto insolito per la Sardegna, regione in cui, fino a quel momento, in quattrocento anni di storia erano stati uccisi meno di dieci preti. O ancora il caso dell’insolita morte di Barbarina Steri, avvenuta negli anni Sessanta ma sulla quale si è indagato seriamente solo negli anni Ottanta (un cold case), poiché la donna, deceduta in circostanze misteriose, era moglie di Salvatore Vinci, ritenuto dagli inquirenti, ai tempi, il potenziale Mostro di Firenze.

    Il volume tratta numerosi gialli e vicende di cronaca nera avvenuti in Sardegna o sulla penisola per mano di criminali sardi, a partire dagli anni Ottanta. Ma in certi casi, come nella seconda parte dedicata ai sequestri, è stato necessario analizzare episodi di periodi precedenti, per inquadrare socialmente e storicamente i fenomeni.

    GIANMICHELE LISAI

    PARTE PRIMA

    Sardegna eversiva

    La liberazione non cade dalle stelle.

    EMILIO LUSSU

    1.

    L’antefatto

    Una proposta di Giangiacomo Feltrinelli e il grande rifiuto di Graziano Mesina

    La Sardegna non è mai diventata, come sognava Giangiacomo Feltrinelli, la Cuba del Mediterraneo.

    L’idea dell’editore milanese di fare la rivoluzione partendo dall’isola s’infranse, prima ancora di nascere, contro un’errata lettura (almeno in quel momento storico) della realtà criminale locale.

    Durante una conferenza sull’America latina tenuta nel 1968 a Cagliari, al Giardino d’inverno, Feltrinelli lo disse senza troppi giri di parole: «La Sardegna vive oggi una situazione prerivoluzionaria, basta guardarsi attorno… Cosa pensate che sia, in fondo, il banditismo?»¹.

    Una risposta in merito, da un sardo, Feltrinelli l’aveva già ottenuta, prima di quell’incontro pubblico, durante un colloquio privato con lo scrittore logudorese Francesco Masala, di cui era editore. Masala, appreso il contenuto del discorso che Feltrinelli pensava di intavolare per l’occasione, aveva descritto all’imprenditore milanese, dal suo punto di vista, la vera natura del bandito sardo:

    Era secondo me un’analisi completamente sbagliata (quella di Feltrinelli, n.d.a.) sulla situazione prerivoluzionaria dell’isola che vedeva nel pastore un potenziale guerrigliero. Dissi a Feltrinelli che la Sardegna voleva liberarsi da sola con i suoi strumenti e i suoi metodi senza bisogno di acculturazioni terroristiche. In fondo, gli precisai, lui era un capitalista milanese e i banditi sardi (Mesina compreso), così cari a lui, non erano affatto dei guerriglieri, semmai dei neocapitalisti. Cioè degli espropriatori sardi che volevano accumulare soldi.²

    Ma in cosa consisteva, più precisamente, l’analisi errata di Feltrinelli a cui si riferisce lo scrittore sardo e cosa c’entra Graziano Mesina in tutto questo?

    Feltrinelli vedeva nella Sardegna una colonia, una regione oppressa dalla crescente occupazione militare di quegli anni. Questo era un dato reale; basti pensare che nel 1966, per contrastare sull’isola il dilagante fenomeno dei sequestri di persona, il capo della polizia Angelo Vicari aveva istituito il Reparto prevenzione antibanditismo, meglio noto con il nome di baschi blu. Un corpo speciale che fronteggiava i latitanti del Supramonte proprio come se fossero dei guerriglieri.

    L’editore si era persuaso che tale condizione contenesse il seme rivoluzionario e che i banditi-pastori locali avrebbero potuto coltivarlo. E tra i banditi locali, Graziano Mesina era il più esposto all’epoca, il più amato dagli isolani. Per questo Feltrinelli lo aveva individuato come primo interlocutore, come potenziale comandante delle truppe ribelli: un Che in erba, stando alla metafora cubana. Ma Mesina non si dimostrò interessato a un simile progetto: «Ho ricevuto un messaggio da Feltrinelli, diciamo pure la richiesta per un incontro, ma ho cortesemente declinato l’invito. La politica mi fa schifo»³.

    Tuttavia, l’ipotesi di un patto tra i banditi e i gruppi terroristici per un’azione congiunta sull’isola fu presa in seria considerazione dai Sevizi segreti, che si preoccuparono di verificarla tramite il funzionario del SID (Servizio informazioni difesa) Massimo Pugliese: «Era riuscito a entrare in contatto con lo stesso Mesina dalla cui voce, registrata segretamente, si era appreso che i latitanti non avrebbero appoggiato il terrorismo politico. Grazianeddu si sentiva brigante e non guerriero»⁴.

    Questo non significa che il popolo e i banditi sardi fossero privi di una carica ribelle. Anzi, il sentimento anti-Stato, nella situazione fotografata da Feltrinelli, era vivo e tangibile (soprattutto nelle zone interne dell’isola), ma slegato da matrici ideologiche volte a costituire un nuovo ordine.

    Il problema con l’autorità nasceva, più semplicemente, dalle ingiustizie subite.

    Anche Emilio Lussu, che pure nel 1969 appoggiò gli orgolesi nella ribellione (quando il ministero della Difesa tentò l’esproprio dei pascoli di Pratobello per insediarvi un poligono militare), rifiutava il dialogo – intellettuale in quel caso – con Feltrinelli. Come raccontato ancora da Francesco Masala: «Mi espresse (Feltrinelli, n.d.a.) il desiderio di conoscere Emilio Lussu, il personaggio, allora vivente, più significativo della cultura politica sarda. Io lo interpellai per telefono per sapere se voleva riceverlo, ma Lussu rifiutò dicendo che l’editore milanese era una persona con cui non voleva avere nessuno scambio di idee»⁵.

    Gli anni a seguire dimostreranno che le velleità di Feltrinelli e i timori dei servizi segreti non erano del tutto infondati. E forse il vero errore dell’editore milanese, morto nel 1972 in circostanze misteriose note alla cronaca, più che nella teoria, fu nella scelta dei suoi interlocutori.

    2.

    1978-1982

    Barbagia rossa

    1978. I primi attentati

    Nel 1974, a Nuoro, venne organizzato un corteo contro Giorgio Almirante. La protesta politica, anche in Sardegna, si tingeva di rosso.

    In quell’occasione, tra gli altri manifestanti, furono segnalati dalle forze dell’ordine due giovani orunesi, i cui nomi, Antonio Contena e Pietro Coccone, si riproposero presto all’attenzione dei carabinieri, più precisamente nel luglio del 1977, quando furono individuati come responsabili dell’assalto a un furgone postale nel nuorese.

    Era un periodo di tensioni, sia a livello nazionale sia a livello locale.

    Il 30 dicembre dello stesso anno un ordigno incendiario bruciò una delle porte del tribunale di Nuoro. La rivendicazione portava una firma: Barbagia rossa.

    Una serie di episodi analoghi – a volte non rivendicati e altre firmati da varie sigle – cominciò a delineare, in quegli anni, l’obiettivo dell’offensiva: le forze dell’ordine e più precisamente l’istituzione carceraria. Ma simili azioni apparivano scollegate, l’opera di piccole cellule indipendenti (indicativo in questo senso il fiorire di molteplici sigle di gruppi terroristici o sedicenti tali), e non il frutto di una strategia comune ascrivibile a un disegno di più ampio respiro.

    Dopo circa tre mesi, il 25 marzo del 1978, fu incendiato un furgone per il trasporto dei detenuti di Badu ’e carros. La rivendicazione, ancora una volta, non si fece attendere: Barbagia rossa confermava i suoi obiettivi e chiedeva la liberazione dei prigionieri del supercarcere nuorese.

    Il 17 aprile un ordigno esplose contro la caserma dei carabinieri di Gavoi. Il gruppo firmava così il suo terzo attentato in meno di quattro mesi.

    Nessun presagio particolare rispetto a queste vicende: Barbagia rossa continuava ad apparire come una delle tante piccole cellule indipendenti che richiamavano l’attenzione con attentati preoccupanti ma ordinari.

    Invece qualcosa stava cambiando nel panorama eversivo dell’isola.

    Prima di entrare nel processo di contaminazione subìto dalla criminalità locale in quel periodo, bisogna segnalare almeno un altro episodio di cui fu protagonista Barbagia rossa: la notte del 2 novembre 1978, tre uomini dell’organizzazione si introdussero nella stazione radar di Siamanna, in provincia di Oristano. Dopo aver colto di sorpresa e immobilizzato i quattro soldati di guardia,

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