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I grandi delitti italiani risolti o irrisolti
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E-book1.053 pagine22 ore

I grandi delitti italiani risolti o irrisolti

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Info su questo ebook

I più terribili fatti di sangue del nostro Paese

Dal mostro di Firenze al massacro del Circeo, da Marta Russo all'omicidio di Cogne

La diffusione della criminalità è una piaga sociale.
Ogni nuovo rapporto fotografa con spietata nitidezza un fenomeno che non si riesce a controllare, e che istilla inquietudine negli italiani, minando la pace sociale. L’ansia verso uno scenario quasi apocalittico colpisce infatti molti cittadini, sgomenti – complice anche la risonanza data dai mass media – di fronte al dilagare della violenza non solo per le strade, ma anche dentro le sempre più rischiose mura domestiche. Nel mondo gli omicidi si verificano soprattutto tra le fasce a basso reddito, con una maggioranza di vittime tra i 10 e i 29 anni; in Italia, i cosiddetti “omicidi di prossimità”, ossia quelli che colpiscono familiari, amici, conoscenti, vicini e colleghi, sono un fenomeno grave quanto quello della criminalità organizzata. Le cause sono l’instabilità mentale, la frustrazione, l’incapacità di superare un evento stressante o doloroso. L’omicida sembra agire in preda a un raptus, ma in realtà si è gradualmente convinto di essere perseguitato dalle persone a lui più vicine, e non trova altra soluzione se non uccidere, e spesso, suicidarsi.

I più terribili fatti di sangue del nostro Paese, analizzati con l’aiuto della statistica e della criminologia. Quali sono le motivazioni che generano la spaventosa pulsione a uccidere?

• Leonarda Cianciulli: la saponificatrice di Correggio
• Massacro al Circeo
• La banda dei sassi
• Strage in Vaticano
• Il branco di Leno
• La decapitata di Castel Gandolfo
• Firenze. Un solo “mostro”
• Via Poma, 7 agosto 1990
• I delitti dei tassisti
• Cogne, una storia infinita
• Omicidio nella setta

...e molti altri inquietanti delitti


Andrea Accorsi
È nato a Legnano nel 1968, giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio cronaca in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, ha scritto una decina di libri e saggi, tra cui ricordiamo Bande criminali e – insieme a Daniela Ferro – Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano, Le famiglie più malvagie della storia, Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia, Milano giallo e nera e, con Massimo Centni, I grandi delitti italiani risolti o irrisolti.


Massimo Centini
È nato a Torino nel 1955, laureato in Antropologia culturale, collabora con alcune università e musei italiani e stranieri. È autore di numerosi studi di antropologia tra i quali ricordiamo L’uomo selvatico e La sindrome di Prometeo. Con la Newton Compton ha pubblicato, oltre ad alcuni libri sulla storia e la cultura del Piemonte, Misteri d’Italia, Torino criminale, e con Andrea Accorsi I grandi delitti italiani risolti o irrisolti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854162150
I grandi delitti italiani risolti o irrisolti

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    libro di facile lettura, con delitti più o meno conosciuti. lo consiglio

Anteprima del libro

I grandi delitti italiani risolti o irrisolti - Massimo Centini

Parte prima

Delitti risolti

La tragica fine della Contessa Lara

La Contessa Lara è il nome d’arte di Eveline Cattermole, moglie del conte Francesco Eugenio Mancini (da cui ha ereditato il titolo), ufficiale dei bersaglieri, noto per aver partecipato alla presa di Roma.

Lei ha velleità letterarie e sa scrivere bene: è autrice di poesie e romanzi, ma soprattutto è collaboratrice di alcuni giornali sui quali si firma con lo pseudonimo Contessa Lara.

Nata a Firenze nel 1849, a diciotto anni pubblica la sua prima silloge poetica, Canti e ghirlande; allora la sua vita è tutta rose e fiori e l’attività letteraria la rende famosa in numerosi circoli e salotti. In uno di questi, quello della contessa Maffei, conosce il giovane tenente Mancini: un amore a prima vista che sfocia naturalmente nel matrimonio il 5 marzo 1871.

Convincere i nobili genitori del conte non è cosa facile, ma alla fine l’amore sembra trionfare.

Dopo le nozze la coppia si trasferisce a Milano, dove Francesco Eugenio è in forza. Lui ben presto fa carriera e si concede tranquillamente ogni genere di svago, ignorando la giovane sposa che, lontano dalla sua città, trova sollievo solo nell’attività letteraria.

Ma la scrittura, il poetare e il disquisire di questioni filosofiche non sono naturalmente sufficienti all’isolata Evelina, che comincia a guardarsi intorno alla ricerca di qualche evasione extra-letteraria.

L’evasione si chiama Giuseppe Bennati di Baylon, granduca, impiegato presso il Banco di Napoli. La loro è una relazione clandestina che non è facile tenere nascosta, soprattutto a uno come il tenente Mancini, particolarmente esperto di queste cose...

E così il marito scopre la tresca: ne ottiene la prova nel modo peggiore, sorprendendo Evelina e Bennati avvinti nel vortice dell’alcova.

Scoppia la sceneggiata: schiaffi, insulti e l’immancabile sfida a duello. Due giorni dopo il bancario cade fulminato da un colpo di pistola in mezzo alla fronte.

Evelina è distrutta: il grande amore è morto per colpa sua, il suo matrimonio è finito. Si dice in giro che abbia tentato il suicidio, qualcuno ipotizza sia partita per l’Africa al seguito di alcuni missionari, ma lei, molto più semplicisticamente, è rientrata a Firenze.

La città non è più quella che ha lasciato: o meglio, non è più così per lei. La madre si è risposata (è al quarto matrimonio) e non la vuole intorno, il bel mondo che frequentava prima di sposarsi non ha gradito l’affronto fatto al capitano Mancini: quindi gli amici si sono ridotti drasticamente.

Evelina, con non poca intraprendenza per un donna di quel periodo, parte per Roma alla ricerca di fortuna nel mondo del giornalismo. Ci riesce. Riesce anche a trovare qualcuno con cui dividere lavoro e quotidianità: si chiama Giovanni Alfredo Cesareo. È un giornalista come lei e insieme trascorrono dieci anni. Un’esistenza in comune fatta di alti e bassi, anche se i bassi spesso sono la maggioranza. E così tutto finisce.

La Contessa Lara è una donna come tante, con un passato sentimentale tormentato, ma desiderosa di ritrovare un po’ di serenità, forse di rifarsi una vita. La speranza si riaccende nell’inverno del 1889 quando, sempre a Roma, conosce il pittore Giuseppe Pierantoni. L’ambiente è quello di sempre, frequentato da intellettuali e perdigiorno, artisti e illusi.

Pierantoni campa alla meglio disegnando vignette per alcuni giornali dopo aver abbandonato il posto in ferrovia. È sorretto dal sacro fuoco dell’arte e ostenta idee rivoluzionarie alte. Insomma è un artista tout court, uno di quelli che sanno sfruttare molto bene il loro fascino. E poi aveva dieci anni in meno di Evelina, che se ne innamorò perdutamente...

Pierantoni sembrava un grosso cucciolo, molto bisognoso di protezione. Almeno così l’intendeva Evelina. Aveva in verità bisogno di tutto, di abiti, di cibo, perfino di tubetti di colore e di tele da usare per i suoi dipinti. Lui non avrebbe voluto dipendere da lei, neppure per un centesimo, ma accettava per farla contenta [...] Un giorno, quasi all’improvviso, Pierantoni mutò carattere, cioè (dissero poi al processo i testimoni) si rivelò per quello che era veramente: un fallito che speculava sui sentimenti di una donna che s’era sentita andare alla deriva e le era parso di trovare una base solida su cui poggiare in quella relazione (L. Cecchini, 10 grandi processi d’amore e di morte, Milano 1965, pp. 15-17).

Insomma, per la Contessa Lara ci sono tutte le premesse per aggiungere un altro fallimento sentimentale al suo già sofferto curriculum. Eppure la donna tiene duro: accetta di buon grado il brutto carattere del suo amore subendo in silenzio una sorta di dittatura sentimentale. Non si ribella alla continua richiesta di denaro, alle botte e agli insulti. Gli amici che le sono più vicini cercano di aiutarla, ma lei rifiuta ogni tipo di collaborazione e continua così la sua sofferta esistenza.

Nell’estate del 1895, Evelina si concede una vacanza sulla riviera ligure, a Santa Margherita, dove conosce il tenente di vascello Ferruccio Battali. L’incontro non sembra casuale, almeno così la pensa quella donna sofferente, il cui cuore è travolto da un dolore profondo, quel dolore che riesce a capire solo chi ha provato gli effetti del cinismo e del disinteresse da parte del partner.

L’amore dura qualche giorno: è intenso e travolgente. Ma poi Ferruccio deve imbarcarsi e andare per mare. Tutto si svolge come nella migliore tradizione dei romanzi rosa, con finale drammatico e giuramenti di amore eterno. Infinito. Lui le scrive molte lettere già dal giorno della partenza, lei si ferma ancora un po’ nell’albergo di Santa Margherita, mentre lentamente settembre avanza con le sue giornate più corte e i primi vagiti di un autunno ormai alle porte. Ben presto ritorna a Roma.

In stazione l’attende Pierantoni: è un incontro freddo e da subito Evelina fa presente la sua intenzione di interrompere la relazione; questa volta è decisa e il pittore comprende che non c’è nulla da fare. Giuseppe è naturalmente molto contrariato: difficile dire se si tratta di amore o di interesse, certo è che intende dare battaglia.

Dopo alcuni appostamenti aggredisce in strada la cameriera di Evelina, strappandole di mano le lettere che la sua padrona le ha affidato perché le imbucasse. Nella corrispondenza trova una missiva diretta al tenente Battali.

Pierantoni si presenta dalla donna con quella lettera dando inizio ad una vera e propria sceneggiata: lei non si scompone e impugna una piccola pistola invitandolo ad uscire, lui le salta addosso e parte un colpo. La Cattermole è ferita mortalmente, la pallottola è entrata in pieno ventre, per lei non c’è scampo. L’assassino, compresa la situazione, rivolge l’arma contro sé, ma riesce solo a ferirsi di striscio.

I giorni seguenti sono un interminabile via vai di parole, necrologi e articoli sui giornali. Poi cala il silenzio.

Gli organi di informazione ritornano ad occuparsi della vicenda un anno dopo, nel novembre 1897, quando alla Corte d’Assise di Roma ha inizio il processo. Immediatamente si formano due fazioni: da una parte Pierantoni, considerato un poveretto plagiato da una donna senza scrupoli; dall’altra c’è chi invece vede nel pittore un losco individuo senza né arte né parte, mosso esclusivamente dal proprio interesse.

Il pubblico ministero va subito giù pesante nei confronti dell’imputato: «Pierantoni aveva capito che Evelina Mancini stava attraversando un momento difficile psicologicamente, perché sentiva che l’età le stava pesando addosso e la piegava. Con arti basse aveva sfruttato a proprio vantaggio questo stato di debolezza per cavarne denaro. Non qualche pranzo o qualche vestito, come diceva la difesa, ma denaro, tanto denaro».

Inoltre l’accusa sostiene che l’uomo avrebbe premeditato di uccidere l’amante mettendo in scena il tentativo di difesa.

La Corte dà un colpo al cerchio e uno alla botte condannando Pierantoni a undici anni e otto mesi di reclusione, riconoscendogli però l’attenuante della provocazione.

Sulla Contessa Lara cala il sipario.

Il delitto Murri: il tribunale nei giornali

Ci sono delitti che non hanno nulla di straordinario in sé, né dal punto di vista del numero delle vittime, né da quello del modus operandi e neppure da quello del movente, eppure acquistano un’eco enorme destinata a lasciare un segno profondo nella storia del crimine.

Il caso che ci accingiamo a descrivere è uno di questi e la sua eco è determinata, come nel caso dell’omicidio di Wilma Montesi (1953) – sul quale ci soffermeremo in un capitolo successivo –, soprattutto dal coinvolgimento di persone legate al mondo della politica. In ragione di questo legame i commentatori coevi e in seguito alcuni storici hanno in più casi strumentalizzato le vicende criminali comuni, al fine di dimostrare l’esistenza di un teorema pro o contro, costituito dalla stampa, dai giudici o dall’opinione pubblica.

Alla base vi è sempre l’intenzione di dare priorità ai princìpi e alle ideologie dei commentatori utilizzando un caso di cronaca nera come tanti (l’omicidio Montesi è in questo senso emblematico) per dimostrare che un complice – della condanna o dell’assoluzione – è da ricercare nella generica società, o meglio in una parte di essa, quella che esprime pensieri e idee opposte a quelle del commentatore.

Nello specifico del caso Murri, noi cercheremo di lasciar parlare i fatti, senza subire il condizionamento contro di molti giornali dell’epoca e neppure quello pro di storici e cronisti che hanno sostenuto l’esistenza, in molti casi con limitati argomenti, di una condanna confermata per motivi politici.

Cerchiamo quindi di ripercorrere i fatti nel modo più ordinato possibile, partendo dal tardo pomeriggio del 2 settembre 1902 a Bologna, mentre è in corso una seduta del consiglio comunale.

Uno dei consiglieri è Tullio Murri, un avvocato che non esercita ed è stato eletto nella lista socialista: in città è noto soprattutto perché figlio di Augusto Murri, uno dei luminari della medicina dell’università cittadina.

Un inserviente gli comunica di andare subito nel corridoio dove c’è una signora che ha urgente bisogno di vederlo. Si chiama Teresa Cicognani: è la portiera dello stabile di via Mazzini 39 dove vive la sorella di Tullio, Teodolinda (ma nota come Linda) con il marito, il conte Francesco Bonmartini, e i figli.

In breve la Cicognani descrive i fatti: dall’appartamento dei Bonmartini proviene un odore insopportabile che lentamente si è insinuato anche negli altri alloggi. Il fatto è particolarmente strano perché in quel periodo la sorella di Murri e la famiglia dovrebbero essere ancora in vacanza.

Appena giunto sul pianerottolo Tullio non può che constatare il fatto e, non possedendo la chiave, si rivolge alla polizia che procede ad abbattere la porta. All’interno dell’appartamento, nella camera da letto, c’è il cadavere in decomposizione del conte Francesco Bonmartini: si comprende immediatamente che è stato ucciso con una serie di coltellate. Sono tredici, il che, naturalmente, esclude ogni possibile ipotesi di suicidio, come qualcuno aveva sostenuto a seguito della difficile situazione caratterizzante il rapporto tra il conte, la moglie e la famiglia della consorte. Ma su questo punto saremo obbligati a ritornare.

Continuiamo ad osservare la scena del delitto. All’interno dell’appartamento c’è molto sangue; vi sono anche alcuni indizi che sembrerebbero far pensare ad una rapina, forse a seguito di un incontro occasionale che il conte potrebbe avere avuto con una donna: un portafoglio senza denaro, un paio di mutandine femminili e tracce di lotta.

Le coltellate, la maggior parte mortali, sono penetrate in profondità e quattro hanno trafitto il collo, recidendo la carotide.

C’è ancora un singolare indizio: un biglietto rinvenuto nel portafoglio del conte: «Caro conte, sta bene per giovedì 26, anche l’ora, desidero però che tu ti trovi alla porta di via Pusterla, perché in quel posto si è molto veduti dagli inquilini di fronte. Intanto non mi resta che baciarti tanto. Distintamente tua B.».

Sappiamo che mentre Bonmartini viene ucciso, la sua famiglia si trova in vacanza al Lido di Venezia; lui era rientrato il 28 agosto dalla città lagunare con il treno: è stato visto dalla portiera salire con dei bagagli. Però da allora non è stato visto da nessuno, fatto che non ha suscitato alcuna perplessità visti i frequenti viaggi del conte e soprattutto la presenza di una porta di servizio che si apre sul vicolo Pusterla, e che quindi permetteva al Bonmartini di escludere il portone principale per entrare ed uscire.

Nella sostanza gli inquirenti ipotizzano tre piste da seguire:

a. Il conte, al suo rientro, trova più persone nel suo appartamento (forse un uomo e una donna) sorpresi a rubare: ne segue una colluttazione e il Bonmartini viene ucciso.

b. Come il caso a, solo con l’aggiunta che i due intrusi non immaginavano il rientro del proprietario e quindi se la prendono comoda, forse si concedono un riposino (il letto è sfatto) e si mettono in libertà.

c. Il Bonmartini, dopo il suo arrivo, scende dalla parte di vicolo Pusterla per far salire una donna (?), o qualcuno con cui aveva un appuntamento (?) e che alla fine si trasforma nel suo assassino.

I giornali non risparmiano l’enfatizzazione dei fatti. «Il Resto del Carlino» il 2 e il 3 settembre annuncia: «Il misterioso assassinio di via Mazzini. Un conte trucidato e derubato»; accentua i toni noir l’«Avvenire d’Italia» con la seguente precisazione: «in città è insistente la voce che il furto sia simulato e che si nasconda un atroce mistero».

Malgrado tutto però, il caso, dopo qualche giorno, sembra sgonfiarsi come dicono i giornalisti, e infatti il delitto del conte in via Mazzini 39 passa dalle prime pagine a quelle interne con sempre minore spazio.

Sembra proprio che il suo destino sia quello di finire tra i tanti casi irrisolti e seguire la via dell’archiviazione.

Però, come in una detective story, c’è il colpo di scena. Il 10 settembre, una settimana dopo l’omicidio, Tullio Murri si costituisce ai carabinieri di Ala di Trento, mentre sua padre lo denuncia come autore del delitto del conte Bonmartini avvenuto nel corso di un colloquio ben presto degenerato in colluttazione.

Immediatamente entrano in scena nuovi personaggi: la prima è Rosa Bonetti indicata come complice nell’omicidio, è la donna di servizio di Linda e l’amante di Tullio; la seconda è proprio Linda, sorella di Tullio e moglie della vittima. Sulla donna c’è un’accusa gravissima: sarebbe il mandante dell’omicidio.

I giornali si buttano a pesce sulla vicenda. Le colonne di alcuni quotidiani italiani si colmano di illazioni e di accuse che vengono sistematicamente lanciate sulla famiglia Murri senza esclusione di colpi. Si parla di rapporti torbidi, addirittura di relazioni incestuose.

È un carosello di scandali che viene fagocitato dall’opinione pubblica ben presto divisa tra colpevolisti e innocentisti.

Si mantiene super partes «Il Corriere della Sera», unica voce dichiaratamente schierata in difesa di Murri è «L’Avanti», per ovvi motivi, vista la militanza di Tullio nel Partito Socialista.

La gente sembra colta «da uno di quegli attacchi di fanatismo, di superstizione, di furore persecutorio, che erano così frequenti una volta»: a scrivere è Guglielmo Ferrero – autore della prefazione al libro di A.G. Bianchi, Autopsia di un delitto, 1906 – che paragonava l’atmosfera di quei mesi a quella respirata tra la folla ai tempi dell’Inquisizione.

Le indagini comunque continuano e non sono avare di colpi di scena. Tre giorni dopo l’arresto di Tullio Murri, viene fermato e trattenuto Pio Naldi, un giovane medico affetto da un’incontrollabile passione per il gioco. Confessa di aver partecipato al delitto, anche se fornisce indicazioni poco chiare e incoerenti.

Ma non è finita.

C’è un ulteriore aspetto che scatena la macchina scandalistica: si tratta della scoperta di un piccolo appartamento in vicolo Pusterla affittato ad un certo Luigi Ferrari, un nome fittizio, dietro il quale in realtà si cela il dottor Carlo Secchi, un medico cinquantenne piuttosto noto a Bologna che è stato allievo del professor Murri.

Secchi risulta l’amante di Linda Murri e quell’appartamento veniva utilizzato per i loro incontri amorosi... Ci sono tutti gli elementi per i cacciatori di tresche e per le fantasie del partito dei colpevolisti.

Prima di andare avanti è però necessario un inciso per meglio mettere a fuoco questa relazione. Quindi ritorniamo indietro nel tempo, alla fanciullezza di Linda Murri, per poi risalire al suo infelice matrimonio.

Linda (nata il 12 settembre 1871, prima di lei vi era Tullio, morto bambino a seguito di un attacco di epilessia; nacque quindi un altro maschio, chiamato Tullio in ricordo del primogenito scomparso) fin da piccola soffriva di molti malanni, inoltre il suo carattere era piuttosto introverso, chiuso. Nel 1886, ancora bambina, conobbe il dottor Secchi: era un medico giovane, con vent’anni in più di Linda; il professor Murri aveva molta stima per quel ragazzo e cercò di aiutarlo a far carriera. La piccola Linda si affezionò morbosamente al Secchi; ci furono alcune innocenti carezze, qualche parola. Era certamente poco per parlare di amore, ma evidentemente la situazione turbò i Murri che, nel 1889, invitarono il giovane dottore a sospendere le visite perché la figlia dimostrava un interesse sproporzionato nei confronti del Secchi.

Significativa è la lettera del professor Murri in risposta ad una missiva di Secchi informato della questione: «Parrebbe che noi, lasciando correre, avessimo fatto male; anzi saremmo stati noi che, lodandola molto, avremmo ispirato in Linda il sentimento che ebbe per lei. Prima di tutto è stato che ella non creda quello che noi affermammo, cioè che di quel sentimento non ci eravamo accorti mai. Ne sospettavamo solo da pochissimo. Invece mi fu detto che ella se n’era accorta tre anni fa e ciò veramente mi è dispiaciuto, perché mi pare che almeno me ne avrebbe potuto prevenire».

I genitori di Linda cercarono di convincere la figlia che il distacco era la strada migliore perché, in estrema sintesi, quel giovane medico non era un partito adatto a lei.

E mentre la giovane soffriva veramente per quell’allontanamento, il destino mosse le sue pedine. Il fratello di Linda si ammalò di morbillo e la ragazza, per evitare il contagio, fu mandata a Padovana, da Teresa Crovato, un’amica di famiglia.

In quella piccola città conobbe il conte Francesco Bonmartini, suo coetaneo, simpatico e amabile. Il conte fece una corte molto serrata alla giovane: ne furono informati i genitori che guardavano compiaciuti quel nobile veneto, ricco, onesto, rimasto orfano da bambino e allevato da un ecclesiastico legato alla sua famiglia.

Linda, forse spinta dai genitori, dalla madre in particolare, nel 1892 accettò di fidanzarsi con il conte; ma la più stretta frequentazione del Bonmartini convinse la ragazza che forse quell’uomo non era adatto a lei: dalla loro corrispondenza (pubblicata nel 1905 con il titolo Dalla leggenda alla verità) trapelano le incertezze di Linda, la sottile volgarità di Francesco, ma vi è anche la traccia concreta dell’amore dell’uomo per la futura moglie, che negli scritti definisce «angelo mio», «mio ideale»...

Malgrado tutto si arrivò all’altare: il 17 ottobre 1892 i due si unirono in matrimonio e, dopo un breve viaggio di nozze, la coppia si stabilì a Padova, nella casa del Bonmartini.

In breve vennero a galla le differenze: soprattutto sul piano culturale, infatti Linda era una donna sensibile che amava l’arte e la poesia, Francesco era privo di istruzione e anche il suo retaggio nobiliare pareva far acqua da tutte le parti.

Quando, nell’aprile 1894, nacque una bimba, Maria Augusta, il matrimonio era già in crisi: il ménage si aggravò proprio a seguito di quella nascita, soprattutto in relazione al fatto che il Bonmartini sperava in un maschio.

Nel frattempo il conte decise di laurearsi in medicina: una scelta quanto meno suggestiva se si considera che non aveva titolo di studio. Come vedremo, aveva intenzione di avvalersi del suocero per accelerare la carriera di studente e, successivamente, per trovare una solida occupazione al seguito del padre della moglie.

Aveva però fatto male i conti. Infatti il professor Murri non ne volle sapere di favorire l’accesso del genero all’università perché privo dei titoli necessari; il conte cambiò strategia e con qualche artificio riuscì a farsi ammettere all’università di Camerino. Dopo aver frequentato il primo anno in quella città, passò all’università di Bologna dove, nel frattempo, si era trasferito con la sua famiglia.

Intanto era nato un altro figlio, un maschio questa volta, per la soddisfazione dell’ego paterno.

A Bologna vivevano in via Zanfoni: per Linda fu certamente meglio perché si trovava vicina alla sua famiglia; in particolare era legata al fratello che intanto si era laureato in giurisprudenza e militava tra le file dei socialisti.

Di contro però con Francesco le cose andavano di male in peggio e si giunse alla separazione legale: era il mese di ottobre del 1899. Cogliendo l’occasione della separazione, sulle colonne de «L’Avanti» apparve un duro articolo sulla posizione universitaria del Bonmartini che fu costretto a cambiare alcuni atenei, fino ad approdare a Roma, dove in seguito ebbe modo di laurearsi.

Su di lui, che, non dimentichiamolo, sarà la vittima, si scagliarono accuse di ogni genere sul suo comportamento nei confronti della moglie; dalle pagine del suo diario abbiamo però una opposta visione dei fatti:

Fa la vittima [la moglie, n.d.a.]. Ieri sera mi disse che in sei anni di matrimonio non si è ancora abituata a vedermi fare per lei i servizi più umilianti (vuotarle il suo sterco tutte le volte che lo fa in camera da letto). Io le risposi che mi basta li gradisse come prove d’affetto. Mi rispose che li gradiva. Da quest’estate non ebbi da lei alcun amplesso.

[...]

Avuta la prima delusione amorosa dieci anni fa e l’essere stata trascurata fin da bambina nello intestino, cose tutte che le devono avere ora prodotto questa nevrastenia così forte. Io ho la coscienza di aver fatto il possibile per i miei figli, essendomi umiliato davanti a lei ed ai suoi, permettendo a tutti loro che esagerassero i miei difetti. Tutto per non far perdere ai figli o la madre o il padre. Se non fosse ammalata si dovrebbe dire che è cattiva, o che il suo animo, disposto a lenire le pene degli altri, è insensibile quando si tratta di suo marito, il quale però fa il possibile di accontentarla.

[...]

Il padre, della sua felicità non si è curato. È un egoista che per la smania di popolarità fa il socialista; invece è conservatore della più bell’acqua. Mercanteggia in carne umana, facendosi pagare L. 1090 ogni consulto; se non gli si dà quello che vuole lascia crepare allegramente; non si muove. Suo fratello, un anarchico-socialista, di professione fannullone, non gode stima di nessuno.

Accuse pesanti, forse frutto di uno sfogo, forse millantate, forse messe lì in bella mostra, forse in parte vere. Non lo sapremo mai.

Già un anno prima della separazione, sempre a seguito dei disegni imponderabili del destino, Linda ebbe modo di incontrare il dottor Secchi. Fu una rimpatriata tra il medico ormai realizzato professionalmente e una donna sofferente che non riusciva a dimenticare il primo amore. Poi divenne qualcosa di più serio, una relazione vera e propria di cui era al corrente Tisa Borghi, la cameriera di Linda. Adulterio quindi!

Oggi siamo abituati a ben peggio purtroppo, ma allora le cose andavano diversamente. Linda, in seguito, nel suo memoriale scriverà: «Quando ho incontrato l’uomo che dovevo amare, mi ero già separata da mio marito fisicamente e moralmente!...». Una separazione di fatto, però non ancora ufficializzata dal tribunale.

La relazione continuò e si fortificò: Carlo seguiva Linda anche nei luoghi di vacanza e nel 1901, quando la donna si trasferì in via Mazzini 39 a Bologna, lei cercò, come abbiamo visto, un appartamento attiguo per il dottor Secchi.

Proprio in quell’anno, Francesco Bonmartini si laureò in medicina; Tullio prese una seconda laurea e iniziò la carriera politica, arrivando alla carica di consigliere provinciale, battendo per oltre mille voti Giosuè Carducci: segno questo, ci pare, della popolarità di Tullio.

Sembrava l’atmosfera giusta per tentare un riavvicinamento della coppia: fu Tullio a svolgere il ruolo principale.

L’impegno di tutti sortì qualche effetto e così Linda, Francesco e i bambini andarono tutti a vivere nell’appartamento di via Mazzini 39. Casa in comune ma camere separate.

La nuova vita in comune si rivelò un fallimento: sembra che Francesco volesse ad ogni costo una raccomandazione dal professor Murri per entrare a far parte del corpo dei suoi assistenti. Ma ciò che ottenne furono solo rifiuti.

Il conte allora comunicò alla moglie la sua decisione di trasferirsi a Padova con i figli.

A questo punto possiamo ritornare ai giorni dell’istruttoria nei confronti dell’assassinio del Bonmartini.

Il 25 giugno 1903 viene arrestato anche il dottor Secchi perché accusato di essere complice di Tullio Murri. Ma la complicità non riguarda direttamente l’omicidio del 2 settembre 1902, bensì un tentato omicidio risalente ad alcuni mesi prima: la vittima designata è sempre lui, il conte.

Ritorniamo al mese di agosto. In pieno marasma familiare, Linda, il marito e i figli sono in vacanza a Venezia e con loro c’è anche la governante Rosina Sonetti. Li raggiunge il fratello Tullio per una breve visita, ha con sé del curaro. Alcuni giorni prima Carlo Secchi gli ha mostrato gli effetti su un agnello e in seguito ha fornito, tramite tale Tisa Borghi, una siringa.

Si delinea quindi un piano: Tullio vuole uccidere il cognato, con la collaborazione della Sonetti.

In pratica intenderebbe avvelenarlo per simulare una morte naturale, ma il progetto fallisce e Murri rientra a Bologna.

La situazione intorno a questo preteso tentativo di omicidio è effettivamente un po’ caotica, ma soprattutto è poco chiara.

Di certo si tratta di un fatto importante poiché, sostiene l’accusa, dimostrerebbe la premeditazione di Tullio Murri in relazione all’omicidio del 2 settembre e non l’effetto di un raptus, o di una discussione degenerata.

Per la magistratura la rosa dei colpevoli si restringe a cinque persone: Tullio e Linda Murri, Pio Naldi, Carlo Secchi e Rosa Sonetti.

Nei mesi successivi vengono a galla altri nomi, spesso suggeriti dai giornali, ma i grandi accusati restano loro.

Così la ripartizione dei ruoli secondo la Corte d’Assise di Bologna:

Linda Murri: mandante;

Tullio Murri: esecutore;

Pio Naldi: esecutore;

Carlo Secchi: complice;

Rosa Bonetti: complice.

Contro di loro un anno di indagini e oltre diecimila pagine di testimonianze e interrogatori.

Il processo riaccende gli animi e la fantasia della gente: i colpevolisti e gli innocentisti si danno battaglia, condizionano l’opinione pubblica anche gli organi di informazione.

E così, nel febbraio 1904, la Procura di Bologna chiede alla Corte Suprema della Cassazione il trasferimento del processo in altra sede: le cause sono da ricercare nell’atmosfera creata soprattutto dai giornali intorno al caso Murri.

La sede giudiziaria indicata è Torino, in prima battuta la Cassazione aveva scelto Cuneo, poi sostituita perché priva delle condizioni necessarie per far fronte ai problemi pratici determinati da quel dibattimento.

Il processo è difficile, come si evince scorrendo i documenti dell’istruttoria e come posto in rilievo da chi ha studiato il caso (C. Nasi, Processo Murri. Come e da chi fu ucciso Francesco Bonmartini, Torino 1905; V. Morello, I delitti della gente onesta, Torino 1905); A.G. Bianchi, Autopsia di un delitto, cit.

L’accusa attacca immediatamente: sostiene la tesi del disegno criminoso, oltre a Linda pone, tra i mandanti, anche Augusto Murri e il fratello Riccardo. Il professor Murri e il fratello sono però prosciolti già in fase istruttoria.

Il problema, per l’accusa, è dimostrare che Tullio non ha ucciso accecato dall’ira davanti all’arroganza del Bonmartini, deciso a trasferirsi a Padova con i figli e ignorando ogni attenzione per Linda.

Tullio non nega di aver cercato di confondere la scena del crimine al fine di porre in evidenza tracce che potessero far pensare ad un furto conseguente ad un intrigo femminile.

Contro il Murri c’è la testimonianza di Pio Naldi, che afferma di essere andato con Tullio nell’appartamento di via Mazzini 39 dove cercò di far cambiare idea all’amico senza però ottenere alcun risultato. A quel punto lasciò la casa e la città, poi continuò il viaggio in direzione di Livorno e quindi si trasferì a Genova dove si costituirà alla polizia.

In pratica la sua procedura apparentemente caotica, di fatto, gli procurò un solido alibi.

In realtà Naldi è una persona fragile (tenterà il suicidio perché pentito di aver accusato Murri) e le sue dichiarazioni lasciano tutti abbastanza perplessi, anche se sono certamente destinate ad imprimere scosse forti al processo. Tra l’altro, il giovane medico racconta che nei giorni precedenti l’omicidio di Bonmartini, lui e Murri entrarono nell’appartamento di via Mazzini 39: ad aprirgli la porta c’era Rosa Sonetti, che possedeva copia delle chiavi di casa.

I due trascorreranno la notte nella casa in attesa del ritorno del conte. Poi, nel tardo pomeriggio, il Naldi andrà via.

Tullio Murri continua a negare ogni premeditazione, ma via via aggiunge nuovi particolari. Dopo l’omicidio sarebbe andato a Cattolica in compagnia di Rosa Sonetti, dove avrebbe buttato in mare il coltello usato per l’omicidio e altre prove, tra le quali oggetti insanguinati.

C’è però una tesi dell’accusa che va considerata: la vittima era un uomo di corporatura robusta, alto circa un metro e ottanta e pesante cento chili, quindi è molto probabile che ad accoltellarlo non sia stata una sola persona.

Su questo punto non ci sarà accordo fino alla fine, ma si tratta di un aspetto fondamentale per la posizione del Naldi.

Per i giudici non bisogna dimenticare l’episodio del curaro e il fallimento del tentativo di omicidio a Venezia. Inoltre, un veleno dello stesso tipo è scoperto casualmente nel piccolo alloggio affittato da Carlo Secchi vicino a quello dei Bonmartini.

Veleno, tradimento, rapporti torbidi: ci sono tutti gli elementi per storie noir d’appendice.

Emblematico è un articolo apparso sul quotidiano torinese «La Stampa» nei giorni del processo:

Questa donna apparve meravigliosamente criminosa, più ancora che per volgare delitto, per la sua assoluta mancanza di senso morale, mancanza che difficilmente appare più completa e più mostruosa nelle delinquenti celebri studiate dal Lombroso. Un’anima senza luce: né come signorina, né come moglie, né come madre.

Essa fornica col primo che le si presenta dinanzi quando il marcato istinto sessuale apre nella sua mente nuovi orizzonti di vita. Non ha amato Secchi perché l’abbia scelto fra molti, ma perché era quegli che, fra gli estranei, frequentava più spesso la casa ed era in rapporti con lei come maestro di ginnastica. Se non incontrava il Secchi si sarebbe innamorata del cocchiere o del domestico: un amore di sensi che rimane fedele sol perché ha avuto il primo e desiderato soddisfacimento e perché il ricordo delle ebbrezze passate la eccita più di qualsiasi novità. E poi nel Secchi ha trovato l’anima gemella, un’anima volgare nel più assoluto senso della parola.

C’è qualcosa di perverso in queste parole, ci sono arroganza e volgarità che danno un’idea chiara del modo in cui molti giornalisti si arrogano il titolo di giudici, o forse di inquisitori. Ma soprattutto, nel caso riportato, quelle righe lasciano trasparire un livore tale che non riesce a mascherare il malessere che travolge l’estensore dell’articolo.

A parte le accuse gratuite vomitate dai gazzettieri, il processo riesce comunque ad andare avanti: l’accusa si sforza di riuscire a dimostrare che Linda Murri di fatto è il mandante dell’omicidio del marito. Contro di lei vi sono anche quattro avvocati di parte civile nominati dal curatore dei figli Bonmartini:

La difesa di Linda si oppone alla costituzione di parte civile in questa forma che presuppone la sua colpevolezza e mette i figli contro la madre senza che questi ne abbiano neppure consapevolezza, ma la Corte d’Assise di Torino respinge tutte le eccezioni al riguardo e, durante il processo, un grave incidente tra l’avvocato Callegari della parte civile e Linda Murri per le accuse durissime proferite dal legale provoca una reazione disperata della donna che lascia l’udienza urlando e piangendo. È un aspetto significativo del processoche appare a senso unico giacché dà per scontata l’acquisizione in sede istruttoria di prove che in realtà non ci sono: la costituzione di parte civile da parte del curatore presuppone la colpevolezza della madre che è tutta da provare, sicché l’avvocato Callegari e i suoi colleghi si uniscono all’accusa nel tentativo di allargarne i confini del processo, di citare episodi che hanno poco a che fare con la vicenda centrale nel tentativo di dipingere a fosche tinte la personalità indubbiamente complessa di Linda ma, così facendo, mettono ancor più in luce le contraddizioni dell’istruttoria e il pregiudizio dei giudici contro quella che era stata la moglie di Francesco Bonmartini (N. Tranfaglia, Un delitto di gente per bene. Il processo Murri, in Storia d’Italia, vol. XII, La Criminalità, a cura di L. Violante, Torino 1977, p. 540).

Ancora una volta il processo cerca prove nel passato degli imputati, gira il coltello in ferite mai sanate e prodotte da anni di incomprensioni, malattie, divergenze, falsità. Ingredienti utilizzabili ad hoc in un caso come il processo Murri, ma che sono reperibili nelle biografie di gran parte delle famiglie in cui luci e ombre avvolgono inesorabilmente gli alberi genealogici.

Lasciando a latere le tesi dei colpevolisti e degli innocentisti, per molte persone qualificate presenti al processo e per numerosi studiosi del caso Murri, l’omicidio non era un’idea di Linda, ma maturò nella testa di Tullio che, stanco di vedere la sorella soffrire, decise di mettere fine all’agonia, alla quale avrebbe fatto seguito la perdita dei figli che, stando alla situazione creatasi, forse erano destinati a seguire il padre.

Il processo, iniziato a Torino il 21 febbraio 1905, si articola in 104 udienze nelle quali scorrono 420 testimoni: in sei mesi di dibattito sono portate prove e persone (oltre 80 ricostruzioni dell’azione sulla vittima effettuate sui cadaveri), non mancano le tesi e soprattutto le domande.

La folla si accalca per assistere al processo, viene anche stampata una cartolina postale per ricordare l’avvenimento e la poetessa Ada Negri dedica a Linda Murri la poesia Per l’omicidio:

[...]

Tu cerchi, nel sogno, due teste

di bimbi – i tuoi bimbi – lontani:

non v’è sangue sulla tua veste,

non v’è sangue sulle tue mani.

[...]

Chi sa? T’assolveranno, o Madre.

Chi sa? Ti daranno ai figliuoli.

Fra un grumo di sangue ed un carcere

oh, sarebbero troppo soli.

Per la Corte non ci sono dubbi: Tullio Murri è accusato di essere l’esecutore materiale del delitto in complicità con Pio Naldi (trent’anni ciascuno); Carlo Secchi, così come Linda Murri, sono riconosciuti complici del delitto: su di loro il peso del macigno accusatorio della relazione (dieci anni ciascuno).

Rosa Sonetti viene riconosciuta colpevole di favoreggiamento per aver aiutato il Murri a liberarsi del coltello e delle prove (sette anni e sei mesi).

Alla fine mancano il mandante e il movente; tutto è sorretto dalle affermazioni di Tullio Murri: una lite, una lotta, tredici coltellate.

Linda, malgrado le accuse terribili di cui è stata fatta segno, non viene riconosciuta come il mandante: è una piccola ma importante vittoria.

Il carcere per lei è cosa breve: esce dopo otto mesi, nel maggio 1906, graziata da Vittorio Emanuele III perché, diranno le malelingue, il professor Murri aveva guarito la principessa Mafalda da una malattia ritenuta inguaribile da molti medici.

La Sonetti esce nel 1908, è minata da problemi psichici, muore quattro anni dopo. Nel 1910 Carlo Secchi muore in carcere; Tullio Murri esce nel 1919, in suo favore sono intervenuti in tanti, nomi autorevoli come Eleonora Duse, Matilde Serao, Gaetano Salvemini, Giosuè Carducci, ma soprattutto tanta gente comune. Con Tullio esce anche Naldi.

Murri dedica il resto della sua vita alla scrittura.

Con Linda muore la verità. Una verità massacrata soprattutto dalla stampa dell’epoca:

Se si esclude, e solo in parte il Corriere della Sera di Albertini e l’Avanti che vedeva un noto esponente socialista al centro della vicenda, possiamo dire che si scatenò per anni un vero e proprio coro di retoriche difese della morale, di accuse poi rivelatesi del tutto infondate, di invenzioni vere e proprie destinate a coltivare la curiosità dei lettori meno provveduti [...] Durante tutto il processo a Torino quasi tutti i giornali non fecero che echeggiare gli argomenti dell’accusa e della parte civile senza valutarle minimamente, con il desiderio evidente di chiudere al più presto la vicenda seppellendo per sempre gli imputati. Non ci fu in altri termini nessun tentativo di prender le distanze dalla polizia e dai giudici, di esercitare un ruolo obiettivo e neutrale in un caso che pure presentava punti oscuri e pagine tutt’altro che chiare (N. Tranfaglia, op. cit., pp. 551-552).

Ma soprattutto nessuno aveva cercato di capire il movente e di individuare il mandante, o i mandanti. Ammettendo che ci fossero. Forse il caso Murri fu solo uno dei tanti che travolgono le famiglie di tanto in tanto. Ancora oggi.

Nel 1974 Mauro Bolognini dirige un film sul caso Murri, si intitola Fatti di gente perbene, tra gli attori ci sono Giancarlo Giannini e Catherine Deneuve. Poi ritorna il silenzio.

Il caso Olivo: un delitto quasi perfetto

Nella tragica e triste storia dell’assassinio di Ernestina Beccaro ci sono gli ingredienti per un giallo d’altri tempi, con tanto di cadavere tagliato a pezzi e rinchiuso in una valigia che, dopo essere stato apparentemente celato agli occhi di tutti, riappare con il classico colpo di scena.

Quella valigia fatta sparire nel mare di Genova riaffiora nelle acque della città ligure nel maggio 1903, aprendo la strada a mille illazioni, ipotesi più diverse, non mancando di evocare addirittura Jack lo Squartatore...

Si ipotizza anche un regolamento di conti tra contrabbandieri. Poi salta fuori un barcaiolo, una sorta di taxista del mare di allora, che si ricorda di aver portato al largo un signore distinto, «con baffetti e vestito nero», certamente non di Genova, che aveva al seguito una grossa valigia. Lo ricorda bene quell’uomo, poiché durante il tragitto la valigia cadde in acqua e il passeggero non sembrò affatto colpito dall’incidente.

La valigia ripescata svela agli inquirenti il suo macabro contenuto: un cadavere sezionato, senza visceri, con il volto orribilmente sfigurato e la testa rasata: forse un tentativo per rendere irriconoscibile la vittima; forse un’azione rituale praticata negli ambienti della mala; ma non va neppure esclusa la pista del maniaco.

Mancano inoltre numerose parti del corpo, forse perché non fu possibile contenerle nella valigia in cui l’assassino aveva inserito una generosa quantità di naftalina. Probabilmente credeva che quel prodotto avesse l’effetto di rallentare il processo di decomposizione!

La polizia vaga nel buio: è solo a conoscenza del fatto che qualcuno, quasi certamente giunto da fuori città, aveva affittato una barca e si era liberato dell’ingombrante valigia. L’aspetto di quell’uomo non ha nulla di anomalo: si tratta di una persona come tante, con baffetti e vestito nero.

Dall’analisi dei resti gli anatomopatologi stabiliscono che la vittima era una donna, di discreta altezza e con età compresa tra i trenta e quarant’anni. Un po’ poco.

I periti osservano che l’autore del crimine deve avere delle nozioni di anatomia, visto il modo in cui era riuscito a disossare il cadavere: forse un macellaio, o addirittura un medico.

Il nome di quella donna tagliata a pezzi e gettata in mare sarebbe rimasto anonimo per sempre se la polizia di Milano non avesse ricevuto una strana lettera anonima.

Nello scritto un inquilino del caseggiato di via Macello avverte le forze dell’ordine della scomparsa della signora Ernestina Olivo: la donna non si vede da alcune settimane, mentre il marito, Alberto Olivo, a chi gli chiede informazioni della moglie, risponde che la donna si trova a Biella, in Piemonte, presso dei parenti.

La faccenda però non convince l’estensore della lettera che affida così i propri dubbi alla questura.

Le indagini hanno inizio in sordina: la donna scomparsa si chiama Ernestina Beccaro, nativa di Biella, e sposata con Alberto Olivo di Udine; la prima cosa da fare è andare a vedere nella cittadina piemontese dove abitano gli anziani genitori della signora Olivo.

Sono due contadini che non la vedono da quasi un anno; ricevono di tanto in tanto qualche lettera, sanno che la figlia dovrebbe venirli a trovare in agosto. Di Ernestina quindi nessuna traccia. Le indagini si trasferiscono a Milano: Alberto Olivo naturalmente è il primo indiziato.

Viene osservato con discrezione: la sua vita è semplice e abitudinaria. Vive nella casa di via Macello e lavora nella fabbrica di ceramiche Richard Ginori, in località San Cristoforo: tutte le mattine esce dal portone di casa e si dirige in azienda, dove svolge il suo lavoro di ragioniere.

Alla sera rientra, dopo una breve sosta per comprare pane e altri generi alimentari; si chiude il portone alle spalle e si ritira in casa fino al mattino. Una vita da single, molto isolata.

Sembra un uomo tranquillo: eppure sua moglie non è mai arrivata a Biella, dove lui continua a dire che si trova.

Intanto la polizia raccoglie indizi e prove. Olivo è nato a Udine nel 1856 da una famiglia borghese che gli consente di raggiungere un buon livello di istruzione per l’epoca: arriva al liceo, ma poi si ferma. Prova con l’esercito ed entra a far parte del Genio, arma in cui rimane per oltre tre anni: in quel periodo è ricoverato più volte in ospedale per crisi di epilessia.

Ritornato civile ha al suo attivo un diploma, conosce tre lingue, è abilissimo in matematica e grande lettore di libri.

A 33 anni lascia la nativa Udine per Milano: nella metropoli è certo di trovare fortuna, forse il successo. Lo trova: almeno così gli sembra. Fa il contabile e guadagna 175 lire al mese: è uno stipendio di tutto rispetto per quegli anni.

Nel tempo libero si dedica alla lettura dei classici, studia matematica pura e scrive poesie. Gli inquirenti vengono a sapere che aveva studiato un po’ di medicina, ciò non significa che abbia dimestichezza con i ferri del chirurgo, però è già qualcosa.

Dalla portinaia gli investigatori ottengono qualche informazione sulla moglie: è una donna arrogante, tutto l’opposto del marito. Abitano in quella casa da quando si sono sposati: lei è un’ex cameriera che aveva conosciuto Alberto nella trattoria in cui l’uomo era solito cenare. Ben presto, dopo il matrimonio, tra i due le cose si sono messe male. Lei non risparmia scenate al marito che, agli occhi dei vicini, appariva una specie di martire. Ernestina invece è la cattiva e la sua scomparsa, pur non passando inosservata, non aveva suscitato particolari apprensioni; salvo per l’autore della lettera anonima.

Secondo la portinaia, la donna era stata vista l’ultima volta il 14 e il 15 maggio; proprio in quei giorni si era confidata: entrata nella guardiola si era seduta davanti ad un caffè e aveva parlato di quanto fosse difficile vivere con Olivo, un uomo avaro all’inverosimile che la considerava ignorante e buona a nulla.

Lei aveva deciso: si sarebbe rimessa a studiare e forse avrebbe lasciato il marito. La sua scomparsa è quindi da porre in relazione ai progetti di separazione? Forse. Però non si spiega l’atteggiamento di Olivo: perché avrebbe più volte affermato che la moglie era a Biella, anche se ciò non corrispondeva al vero?

Probabilmente per imbarazzo, anche se il suo atteggiamento suggerisce qualche approfondimento. Olivo viene interrogato sull’assenza della moglie e offre subito la reiterata versione di Biella: quando il commissario gli fa presente che in quella città la signora Ernestina non è mai stata vista, cade dalle nuvole e si finge preoccupato.

Poi qualcuno sfrutta un vecchio trucco: «abbiamo trovato il cadavere», asserisce con convinzione un ispettore e Olivo spiffera tutto. Dopo un ennesimo litigio, come sempre determinato da questioni di soldi (questa volta si trattava del costo delle lezioni private che Ernestina prendeva da un’insegnante in pensione), la discussione era degenerata: «io avevo in mano il coltello da cucina, col quale avevo tagliato il limone, un coltello triangolare, lungo, e lo stavo asciugando per riporlo. Intanto m’ero avvicinato alla porta della camera e sentivo che l’avversione che provavo da tempo per mia moglie si era tramutata in odio, in odio violento. Come vide che avevo in mano il coltello mi si scagliò contro piena di furia: la colpii. Si accasciò subito, al primo colpo».

Dopo quell’episodio in fondo non così anomalo nella casistica dei delitti consumati tra le mura domestiche, dove un semplice coltello da cucina può trasformarsi in un micidiale strumento di morte, Olivo descrive per filo e per segno le fasi dello smembramento del cadavere della moglie.

Per quattro giorni, al ritorno dal lavoro e dopo aver cenato, l’uxoricida aveva dissezionato il corpo, cercando di farne entrare la maggior parte nella valigia in cui aveva già posto della naftalina.

Per alcune parti però non vi era posto perché, come dirà nel corso del primo processo, «Ernestina era ingrassata molto negli ultimi due anni...».

Alla fine era comunque riuscito a sbarazzarsi del resto attraverso il gabinetto di casa.

Nel corso della descrizione delle singole fasi di quell’allucinante processo di eliminazione del cadavere, Olivo è impassibile, lucido. Stessa lucidità che dimostra nel descrivere il viaggio a Genova in terza classe e poi il percorso fino al porto con quel pesantissimo bagaglio.

Subito aveva pensato di disfarsene gettandolo nel Naviglio: ma poi aveva scelto di andare a Genova per essere sicuro di non lasciare prove. Si era anche accanito sul volto della donna al fine di renderla irriconoscibile. Al porto aveva fatto finta di essere un viaggiatore che doveva attendere alcune ore prima di una coincidenza e, dopo aver contrattato il prezzo, si era affidato ad un barcaiolo per compiere un giro del porto.

Con l’aria del turista, si era sistemato a poppa con la sua pesante valigia. Al largo, approfittando di un attimo di distrazione del barcaiolo, aveva inscenato la caduta del suo carico in acqua. Era certo di aver portato a termine il delitto perfetto. Ma non era così...

Ritornato al molo si era accomiatato dal barcaiolo un po’ stupito per l’atteggiamento di quello strano passeggero; aveva quindi deciso di fermarsi in trattoria per una bella frittura di pesce. Dopo aver mangiato era salito sul treno per Milano, con calma, come un turista. In serata era rientrato nel suo appartamento. Quasi certamente nessuno dei suoi vicini si era accorto della sua assenza.

Olivo era stato molto attento a non lasciare tracce e anche quando la polizia dispone un sopralluogo nell’alloggio di via Macello, non trova alcuna traccia per legare l’uomo all’omicidio di Ernestina. Sarà lui a consegnare il coltello usato per uccidere la moglie agli inquirenti: «Immagino che lo dovrete portare via. La povera Ernestina dormiva sul lato sinistro del letto, io dall’altra parte: quando entrai col coltello in mano, e non avevo pensato affatto di ucciderla, lei fece un balzo e arrivò qui, a metà stanza, dov’ero io».

Il processo ha inizio il 1o giugno 1904, oltre un anno dopo l’omicidio. Olivo ripercorre le singole fasi del suo crimine senza alcun tentennamento: è freddo e cinico.

La difesa tenta la carta dell’infermità mentale:

Noi abbiamo qui un uomo che senza alcun dubbio ha commesso il delitto ascrittogli: è un uomo che ha una cultura confusa e vasta, è intelligente ma incoerente. Scrive trattati di matematica e di fisica (o almeno così li definisce lui stesso) e poi nella costruzione del suo crimine dimentica che un corpo umano in putrefazione, stipato in una valigia e buttato in mare, inevitabilmente viene a galla. Viene a galla perché la differenza di peso specifico glielo consente e, oltre tutto, perché quel corpo racchiuso, decomponendosi, produce dei gas. Un uomo veramente intelligente e sano di mente mai avrebbe commesso un errore simile. Questa è la prova che noi offriamo alla Corte a sostegno di quello che abbiamo conclamato fin dalle prime battute di questo processo: Olivo è un folle e come tale deve essere giudicato.

La proposta però non trova d’accordo né i giudici, né l’imputato, che si sente offeso nell’onore vedendosi accomunato ad un qualunque pazzo. Olivo ha di sé un’alta considerazione, quindi è naturale che ritenga inaccettabile la proposta del difensore.

La sentenza stupisce tutti: Olivo non viene riconosciuto colpevole dell’omicidio della moglie; si prende una condanna a dodici giorni e 125 lire di multa per occultamento di cadavere.

In altre parole la morte di Ernestina Beccaro non era un omicidio, ma un incidente: quindi non un uxoricidio intenzionale.

Il sociologo Scipio Sighele, dalle colonne dell’«Illustrazione Italiana» avrà parole di fuoco per quel verdetto:

Lo scempio che Alberto Olivo fece del corpo della moglie morta è la prova suprema dell’intenzione omicida che guidava i suoi colpi sul corpo della moglie viva. Era quindi naturale che né il pubblico ministero né la parte civile pensassero a offrire ai giurati l’ipotesi della preterintenzionalità. Sarebbe stato non solo un rimpicciolire, ma un falsare la causa. La spiegazione più semplice e più vera dei non rari verdetti assurdi dei giurati consiste nella dolorosa constatazione che quelle dodici energiche persone non sanno sempre quello che fanno, chiuse nella camera delle deliberazioni, quando devono amministrare la giustizia.

Il ricorso in Cassazione da parte della Procura annulla il processo e Olivo ritorna in carcere. Tutto da rifare: solo qualche mese dopo, in novembre, si ritorna in aula.

Tra i periti questa volta c’è anche Cesare Lombroso: il suo parere è considerato qualcosa di più di una perizia. Il professore ripercorre la biografia dell’imputato, ponendone in rilievo le tappe più tipiche che avrebbero determinato frustrazioni insanabili destinate a strutturare una personalità caratterizzata da una inesauribile certezza nella propria superiorità.

Lombroso, pur non ipotizzando l’infermità mentale, pone in evidenza che quell’imputato comunque era affetto da alcune nevrosi, forse preludio a qualche più grave patologia psichiatrica.

La giuria si chiude in camera di consiglio per soli diciotto minuti. Quando rientra in aula tutti sono stupiti. Lo stupore arriva ai massimi livelli quando i giurati confermano la prima sentenza: Olivo è innocente. Dopo qualche anno otterrà anche di cambiare nome e si risposerà.

Scompare così per sempre, lasciando dietro di sé una magistratura stravolta da quella sentenza ancora oggi considerata un enigma nella storia della giustizia. Forse la conferma che il delitto (quasi) perfetto è possibile...

Il caso Tarnowska: dalla Russia con tradimento

In certi giorni di settembre Venezia è meravigliosa: la canicola estiva è in parte passata e la città, ancora baciata dal sole, sa far brillare i suoi colori. Tutto è più nitido. Più vivo.

Sarebbe stata una bella giornata anche quel 4 settembre 1907 se la città lagunare non fosse stata travolta da un omicidio destinato a lasciare una traccia profonda nell’opinione pubblica.

Nelle prime ore del mattino un gondoliere entra nel comando di polizia: è spaventato e sostiene di aver sentito sparare a Palazzo Maurogonato; è convinto che sia accaduto qualcosa di grave.

L’ispettore Orzini (allora gli ispettori erano detti delegati) raggiunge il luogo sospetto con un paio di agenti, servendosi direttamente della gondola del testimone. Rapidamente il gruppo è sul posto; davanti al palazzo si è raccolta molta gente: quasi sempre indice di un grave avvenimento.

Il delegato entra in casa e scopre che il proprietario, il conte Paolo Kamarowski, un nobile russo che da circa un anno abitava a Palazzo Maurogonato, è a terra ferito e rantolante. Immediatamente intervengono gli infermieri che trasferiscono la vittima in ospedale.

Intanto, i poliziotti cercano di ricostruire i fatti. Unica testimone è la cameriera che, malgrado lo stato di shock, trova la forza di raccontare quanto accaduto.

Poco prima delle otto qualcuno suona alla porta e la donna scende ad aprire.

Il conte dorme ancora. Alla porta appare un uomo che chiede alla cameriera di svegliare il padrone di casa: «Ditegli che c’è un amico venuto dalla Russia apposta per parlargli, è una cosa importante». Si presenta, ma la donna non comprende il nome. L’ospite viene fatto accomodare nel vestibolo; intanto appare il conte che, vedendo il visitatore, gli si fa incontro quasi volesse abbracciarlo. Invece quest’uomo estrae una pistola e gli spara al ventre da breve distanza. Il conte cade e si rivolge all’aggressore: «Non avevi altro modo per vendicarti... Sai bene che ho un bambino di otto anni e che da poco è rimasto orfano di madre. Ora tu lo privi anche del padre».

A quel punto l’aggressore sembra disperato: si rivolge alla cameriera, invitandola a chiedere aiuto. Poi rivolge l’arma contro se stesso e spara, ma la pistola si inceppa. Allora corre verso l’esterno urlando: «Salvatelo, salvatelo». E scompare.

Il conte intanto è in ospedale e al suo capezzale è giunto il console russo Deseundy: il nobile è grave, però ha detto di essere stato colpito da un certo Naumow e che le motivazioni sarebbero da ricercare nelle sue annunciate nozze con la contessa Maria Tarnowska.

Figura chiave della vicenda, Maria è nata nel 1877 a Otrada, nei pressi di Kiev: la sua fanciullezza è stata travolta dalla malattia (per alcuni anni fu semicieca) e da un padre tiranno che certamente influenzò negativamente il carattere della figlia. La Tarnowska infatti, per tutta la vita, cercò di far soffrire gli uomini, perché in ognuno di loro probabilmente il suo inconscio individuava quel padre burbero da punire.

A quattordici anni il primo scandalo: un insegnante è innamorato di lei, lo ha provocato con il suo atteggiamento, il risultato determina il ritiro della ragazza dal collegio e l’accusa al docente di essere una specie di mostro.

La giovane continua gli studi con una istitutrice privata e consolida l’amicizia con il giovane conte Andrei Wyrubov, amicizia che via via diventa un rapporto sentimentale vero e proprio.

Ma qualcosa non funziona: infatti Andrei immagina una vita serena con tanti figli e un impegno nel sociale, consacrato all’assistenza dei poveri e dei malati. Maria invece sogna un’esistenza agiata, fatta di viaggi, feste, frequentazioni del bel mondo.

L’irrefrenabile ragazza lascia che Andrei immagini il suo mondo; lei invece passa da un ricevimento all’altro, frequenta teatri e concerti fino a quando trova quanto cerca. È il conte Vassili Tarnowski con il quale, dopo un breve periodo di rapporto semi-clandestino, si sposa con il consenso dei genitori e lasciando Andrei nel più profondo sconforto.

Il matrimonio della ragazza (da cui acquisirà il nome al femminile Tarnowska) con il conte si rivela presto poca cosa: il marito la tradisce continuamente e la lascia sola per lungo tempo. Lei, dopo un iniziale periodo in cui soffre moltissimo, decide di non abbattersi e si circonda di spasimanti e ammiratori.

Il conte non cambia vita neppure quando la moglie è incinta; le sono vicini Piotr Tarnowski, fratello del marito, e Vladimir Stahl: entrambi segretamente innamorati della donna.

La nascita del piccolo Tioka non cambia la situazione: anzi il conte è particolarmente contrariato perché sperava che il nascituro fosse una femmina!

La coppia lascia il figlio ai nonni e intraprende un viaggio in Italia, dove il conte intende prendere lezioni di canto; al loro seguito vi è anche l’ultima amante di Vassili, Olga Kralberg.

Per Maria la situazione è insostenibile: con il marito che si ritrova e l’esperienza vissuta con il padre, la sua vita è devastata dalla tristezza e soprattutto priva di costruttive esperienze che possano farle apprezzare gli uomini.

Piotr, fragile al cospetto del fratello e consapevole che il suo amore per Maria non avrà mai un futuro, si impicca. Per certi aspetti è la prima vittima della Tarnowska.

Intanto Maria è di nuovo incinta: la gravidanza è difficile e la donna soffre molto. Crede di dover morire e quindi decide di incontrare Andrei per chiedergli scusa per averlo abbandonato. Forse intende allacciare una relazione con il suo primo amore. L’incontro è però caratterizzato dal totale disinteresse dell’uomo, che afferma di essere felice e per nulla interessato alle lusinghe di Maria.

Nel frattempo nasce Tatiana, è il mese di marzo 1896.

Stanca di essere tradita dal marito, Maria diviene l’amante del conte Alexis Bozewski, noto come «il più bell’uomo della guardia dello Zar». La tresca è nota a tutti, ma tutti fanno finta di non sapere. Anche Vassili.

Poi una sera, quando i coniugi Tarnowski, con alcuni amici, tra i quali il conte Alexis, escono dall’Ermitage, accade l’imprevisto: Vassili spara a bruciapelo all’amante della donna.

Bozewski è ferito gravemente al collo e viene portato in ospedale accompagnato da Maria.

Tarnowski si costituisce, ma in seguito sarà assolto dall’accusa perché vittima dei tradimenti della donna e quindi spinto a compiere l’insano gesto! Contraddizioni delle umane leggi...

Ci sarebbero tutti gli elementi per un feuilleton ottocentesco: però si tratta di cronaca tragicamente vera.

La convalescenza del conte Bozewski è particolarmente difficile e per un anno la Tarnowska gli sta accanto e lo accudisce amorevolmente: tutto è inutile perché Alexis muore, dopo mesi di sofferenze. Si vocifera che l’amante di Maria si sia ucciso con una dose letale di morfina, ma nessuno approfondisce la questione.

La donna ritorna a Kiev, ma la sua situazione non è facile: il marito si è preso la figlia e ha lasciato il figlio Tioka ai genitori della moglie. Madre e padre di Maria non vogliono che la figlia abiti nella loro casa e liquidano la faccenda con una rendita di cinquecento rubli al mese.

La Tarnowska alloggia all’Hotel François di Kiev, ha con sé il figlio e un futuro con poche speranze. Si rivolge all’avvocato Donat Prilukov per ottenere l’annullamento del matrimonio e l’affidamento dei figli. In breve Maria ottiene l’annullamento, però Tania è affidata al padre. Parte alla volta di Roma, ha pochi soldi e soffre per la dipendenza da morfina da cui è travolta.

Appena arrivata in Italia è raggiunta dalla notizia della morte di Vladimir Stahl, uccisosi con il veleno perché, malgrado la sua totale abnegazione e l’amore profondo, è sempre stato ignorato dalla bella Tarnowska, che però non ha esitato a richiederne l’aiuto in varie occasioni.

Infatti Stahl era medico e ha offerto la sua fattiva collaborazione quando Alexis Bozewski giaceva ferito per i postumi del colpo di pistola sparatogli dal conte Tarnowski. È probabile che sia stato proprio Stahl a fornirgli la dose fatale di morfina per Alexis e ad aver iniziato Maria al consumo della sostanza stupefacente.

Comunque, può essere considerato un’altra vittima della contessa.

Intanto Maria conduce la sua esistenza disperata da un albergo all’altro, riesce gradatamente a liberarsi dalla dipendenza della morfina, però ha iniziato a fare uso di cocaina. Spende più di quanto dispone e spesso interviene in suo aiuto l’avvocato Prilukov, che paga i conti e l’assiste con una cura che non può essere solo professionale...

I due diventano amanti e per oltre un anno l’avvocato mantiene lei e il figlio, cercando di offrirle una vita serena: ma come sempre in Maria scatta qualcosa di perverso che la induce a colpire chi vorrebbe aiutarla. E così si accanisce su Donat, scegliendosi amanti occasionali e viaggiando in continuazione mentre lui è costretto a Kiev per seguire il suo lavoro.

Mentre la Russia è sul baratro della rivoluzione, nel dicembre 1904, Maria conosce il conte Pavel Kamarowski, un uomo da poco rimasto vedovo e la cui moglie è stata compagna di scuola della Tarnowska. Ha anche un figlio della stessa età di Tioka. Sembra un segno del destino.

Nel frattempo l’avvocato Prilukov conferma a Maria di aver speso ogni suo avere per consentirle di vivere agiatamente e di aver confessato alla moglie la sua relazione. La signora Prilukov chiede la separazione. Ma c’è dell’altro: sempre alla ricerca di denaro, Donat ha sottratto dei soldi ai clienti e per tale reato è stato denunciato e cacciato dall’ordine degli avvocati.

È un uomo distrutto. Poiché le disgrazie non vengono mai da sole, Maria contribuisce ad accrescere il fardello che pesa sull’avvocato raccontandogli della relazione intessuta con Kamarowski.

Ma anche dal peggio del peggio, c’è chi riesce a trovare un’occasione per ribaltare la sorte: gli avvocati in questo sono dei maestri.

Lasciando da parte l’etica e la deontologia, Maria e Donat architettano una piccola truffa ai danni dell’ignaro Kamarowski.

E così la donna presenta l’avvocato al nuovo spasimante, indicandolo come un vecchio amico di famiglia dal quale ha ottenuto dei prestiti.

La trappola scatta subito: infatti il conte Kamarowski afferma di conoscere di fama l’avvocato Prilukov e di considerarlo persona un po’ losca. Di certo se lei non avesse fatto fronte al suo debito quell’uomo non le avrebbe dato tregua fino alla sua completa soddisfazione. Con gesto nobile si offre di saldare ogni sua pendenza e le firma un congruo assegno.

Ma il gesto non è completamente disinteressato se prestiamo fede a quanto Maria scrive a Donat nei giorni immediatamente successivi: «Ti prego, risparmiami di riferirti quello che ha poi preteso da me, nella sua stanza da letto. Sono esausta. Se gli telegraferai che i tuoi affari a Strasburgo stanno ottenendo anche soltanto un modesto successo, fuggirò da Vienna, come nei giorni in cui dovevo abbandonare gli alberghi di

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