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L'itinerante di K'hell-Imar
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L'itinerante di K'hell-Imar
E-book629 pagine8 ore

L'itinerante di K'hell-Imar

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Info su questo ebook

K’hell-Imar è un pianeta della Periferia Galattica, quasi sommerso da una selva impenetrabile che cresce fra le acque di una palude oceanica, popolata da terrificanti predatori. Per sopravvivere a questo spaventoso habitat, gli indigeni si aggrappano a credenze consolatorie, reiterando le stesse immutabili consuetudini. Nel villaggio di Ghul’ì-Po, in una famiglia osservante della Tradizione, nasce Athon. Molto presto l’insolito ragazzino manifesta chiari segni d’intolleranza nei confronti del torpore intellettuale dei consanguinei e delle loro superstizioni.

Quest’insofferenza lo spingerà ad arruolarsi in una pericolosa spedizione di minatori spaziali. Ha così inizio un’imprevedibile odissea, che nel mezzo di una

rivoluzione interplanetaria lo trasformerà, suo malgrado, in una sorta di leggenda vivente. Un eroe triste, che pagherà il trionfo dei propri ideali col sacrificio di tutti i legami affettivi, compreso l’amore di una donna fuori dal comune.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2013
ISBN9788898017461
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    Anteprima del libro

    L'itinerante di K'hell-Imar - Silvio Bonisolo

    Galassia...

    Primo Quadrante

    - PRODROMI -

    Settore α

    Athon di Ghul’ì-Po

    1

    La stanza era pervasa da una nebbiolina puzzolente che si faceva via via più irrespirabile; i suoi muri, corrosi e anneriti, denunciavano l’aggressione di secoli di attività umane... Uomini dal volto stanco, seduti attorno al lungo tavolo ingombro dei resti del pasto comune, fumavano pipe dalle forme bizzarre, conversando delle esperienze quotidiane.

    Sedute su cassapanche contro le pareti, le donne rammendavano e tessevano, ignorando le maleodoranti esalazioni prodotte dai loro compagni, mentre la più giovane si preparava a lavare le stoviglie, così come previsto dai costumi locali.

    Era da un pezzo che non si ritrovavano tutti insieme. L’anziano nonno si commuoveva di fronte ai tre figli, padri di famiglia nel pieno della maturità. Osservava, tra le spire di fumo, i vari nipoti già adulti, e qualcuno persino sposato, rimpiangendo i tempi in cui aveva il loro entusiasmo e il loro vigore. Ormai era solo un vecchio, incapace di sostenere le fatiche imposte alle nuove generazioni. Ancora rispettato e ascoltato, ma non più in grado di lavorare, cosa sempre più determinante nella vita del Villaggio... Ora, le decisioni spettavano al figlio maggiore, Thak’hor.

    Le famiglie avevano sempre fatto del lavoro il fondamento della struttura gerarchica, ma ciò non aveva mai impedito la celebrazione giornaliera del rituale del pasto comune. Purtroppo, dal momento in cui i cosiddetti Signori del Cielo erano scesi su K’hell-Imar, lavorare era diventato una tirannia che li obbligava ad allontanarsi sempre più dalle loro case, alle quali tornavano solo saltuariamente, esausti e abbruttiti.

    Ma, quella, era una giornata speciale... Solo il giovane Athon non ne era entusiasta, anche se gli altri, avvezzi alle sue stranezze, non vi avevano dato troppo peso.

    Seduto su uno sgabello sgangherato, Athon Grann guardava il proprio luogo d’origine dalla finestra della stanza conviviale. Gli aborigeni lo chiamavano Ghul’ì-Po, trappola per Ghull: una definizione soprattutto scaramantica... Più che tristezza provava autentica irritazione: la gioia dei

    consanguinei gli era irriducibilmente estranea. Quel giorno, in particolare, sembrava che tutte le famiglie locali si fossero accordate per onorare l’intimo cerimoniale, nel quale non coglieva più alcun significato viste le loro condizioni di vita attuali. E il fatto che tutto Ghul’ì-Po la pensasse diversamente non faceva altro che aumentare la sua sete di fuga da quella vita ottusa.

    Fuori dalla finestra, di fronte a lui, una casa incompleta... La famiglia che vi risiedeva si stava spremendo fra i campi di lavoro e la fatica profusa, durante il pochissimo tempo libero, tra il povero materiale edilizio disponibile. Tuttavia, anch’essi avevano osservato una sosta insolitamente prolungata per il pasto comune, tra le mura in costruzione.

    Materiale edilizio... Il volto di Athon fu solcato da un sorriso amaro. La sua gente continuava a costruire le proprie abitazioni con le solite cose, e le solite tecniche, dall’alba dei tempi. Neppure l’arrivo dei Signori del Cielo era servito ad accrescere le cognizioni di quel popolo, anzi...

    Mattoni, travi in legno, malta, imbracature di ferro, il minerale fondamentale per produrre l’acciaio, una rozza lega metallica realizzata più grazie alle tradizioni tramandate, che a un’effettiva conoscenza dei processi di produzione. Eppure, se paragonate all’evoluzione culturale degli indigeni, si trattava di tecniche avanzate, quasi fossero relitti di antichissimi saperi smarriti per ragioni ignote. Secondo le leggende, K’hell-Imar era uno dei maggiori centri di una civiltà estremamente progredita, figlia degli Itineranti, gli illuminati ministri dell’Intelligenza Creatrice, durante epoche remote di cui non restava che una vaga eco. Poi, per qualche oscura ragione, i divini abbandonarono il pianeta e la Galassia fu sconvolta da un’immane sciagura cosmica: quel Grande Cataclisma di cui i vecchi narravano con sacro timore, e che avrebbe negato agli uomini l’accesso alla conoscenza superiore.

    Athon Grann sentiva il cuore scalpitare al pensiero di come i nativi continuassero a concepire la loro miseria come volontà dell’Intelligenza Creatrice, l’idiota superstizione per la quale tolleravano i peggiori soprusi.

    Era dovuto alle insondabili determinazioni della sfuggente entità se ciò che restava loro non erano che arti primitive. Voler saperne di più era sacrilegio: semplici uomini non potevano padroneggiare saggiamente la Sapienza che aveva creato le macchine magiche. Pertanto, si continuavano a sfidare le insidie di un pianeta ingeneroso per procurarsi i materiali necessari alle attività produttive tradizionali.

    Ricavare l’acciaio, in particolare, era un’impresa ostica. Gli attrezzi, che Athon osservava nell’improvvisato cantiere dei vicini, avevano un valore ben superiore al loro aspetto. Le difficoltà iniziavano con la ricerca delle materie prime. La superficie di K’hell-Imar era prevalentemente coperta da paludi malsane dense di pericoli. Se i Villaggi fossero stati collegati da piste sicure, i maggiori scambi e la circolazione di uomini e idee avrebbero permesso alle popolazioni del pianeta di progredire più velocemente. Purtroppo, c’era di mezzo quello sterminato, orrendo acquitrino con la sua intricata flora... Al solo pensiero di affrontare le melme e gli asfissianti vapori, di sputare l’anima contro gli abnormi vegetali che intralciavano la navigazione a ogni metro, di rischiare di finire nelle fauci del Ghull o di mostri simili, gli aborigeni perdevano ogni velleità di avventura.

    Disgraziatamente, non sempre i Villaggi possedevano giacimenti di minerali ferrosi e, comunque, mai in misura adeguata ai bisogni.

    Occorreva varcare le palizzate che difendevano gli insediamenti dal terrificante anfibio carnivoro, organizzando spedizioni composte dai membri più forti e capaci delle famiglie. Non di rado, le missioni lamentavano tragici lutti, ma ciò rientrava nei costi che si dovevano sostenere per raggiungere lo scopo. Inoltre, l’approssimazione della lavorazione spesso impoveriva i risultati, e i due Mastri Siderurgici residenti procedevano senza preoccuparsi di trarre lezioni dagli errori.

    Così, il metallo assumeva un valore enorme. Gli oggetti in acciaio erano custoditi gelosamente, e la lega era diventata la moneta ufficiale negli scambi commerciali. Rubarla costituiva un reato pari all’omicidio. A quanto acciaio si doveva rinunciare per gratificare le prestazioni degli specialisti artigiani, piuttosto mal visti perché i soli a potersi assicurare senza rischi buone scorte dell’inestimabile materiale…

    I pensieri di Athon si interruppero bruscamente: qualcuno aveva inavvertitamente urtato la sua schiena. Si voltò. Era stata sua madre, intenta a liberare il tavolo dagli avanzi di kalakh, il cibo fondamentale nell’alimentazione degli indigeni, un pane realizzato con la farina ricavata dai tuberi di una particolare pianta, piuttosto diffusa nell’acquitrino. A sentire i vecchi, era passato parecchio tempo da quando i popoli di K’hell-Imar avevano imparato a coltivarla all’interno dei Villaggi. Tuttavia, il poco terreno disponibile costringeva la popolazione a un rigoroso razionamento dei raccolti, carestie permettendo. L’ambiente estremamente avverso rendeva ogni comunità una sorta di ecosistema quasi del tutto chiuso ad apporti esterni. Ci si doveva aggiustare con quanto si aveva e, in simili condizioni, la differenza fra ricchi e poveri era appena percettibile.

    Per questa ragione, così come la fabbricazione dell’acciaio e l’estrazione dei calcari destinati alla produzione delle malte, o l’abbattimento delle piante per travi e legname da riscaldamento, anche questa attività era

    condotta collettivisticamente.

    Nella Palude, era anche possibile trovare una strana sostanza oleosa dal colore nerastro. La tradizione delle arti le attribuiva grande importanza. I nativi la usavano per i lumi, tuttavia Athon sapeva che altrove quella primitiva forma di combustibile chiamata petrolio trovava impieghi più complessi, che difficilmente gli abitanti di Ghul’ì-Po avrebbero potuto conoscere o, comunque, accettato. Intanto, si continuava a cercare il petrolio, anche perché era una delle poche cose che disgustava persino il Ghull.

    Forse, egli stesso si sarebbe rassegnato a quel mortificante modo di vivere se non fosse venuto a contatto con realtà sconvolgenti. Tuttavia, riteneva che persino quella semplice presa di coscienza fosse preclusa agli indigeni, vista la sua congenita sclerosi mentale. Solo in rari casi, Ghul’ì-

    Po era stato costretto a cercare maggiori contatti con gli altri insediamenti per garantire la sopravvivenza della comunità, minacciata da crescenti squilibri numerici fra i due sessi. Ma le occasioni per tale rinnovamento erano talmente diluite nei secoli, che le trasformazioni finivano con l’essere quasi impercettibili. Senza poi considerare i casi in cui fattori imprevisti obbligavano il Villaggio ad accentuare ulteriormente l’isolamento e la vigilanza, determinando un triste regresso.

    Athon Grann ebbe un sussulto, quando il suo sguardo finì per posarsi su di un edificio che contrastava brutalmente col resto delle costruzioni.

    Le mura non erano di mattoni e calce come quelle delle altre case. Le loro linee erano curve e la superficie color bianco lucido rifletteva i raggi del sole di K’hell-Imar. Un tempo, quella costruzione non c’era: Athon era ancora un bambinello quando quegli esseri arrivarono. Da quel giorno, la dura ma serena vita dei suoi consimili sarebbe stata completamente stravolta... K’hell-Imar apparteneva al Regno Interstellare di Arkron. Gli indigeni lo sapevano benché non avessero mai subito le dirette attenzioni del Governo Centrale. Sapevano anche che gli Arkroniani avevano costruito alcune città favolose nelle salubri praterie del nord, e avevano accettato di buon grado il loro governo, perché li ritenevano prescelti dall’Intelligenza Creatrice. Peraltro, la loro presenza su K’hell-Imar era puramente formale, considerato il loro scarso interesse verso la Palude e i suoi residenti. Alla fine, però, gli abitanti della marcita si sarebbero accorti che i cosiddetti Angeli di Arkron non dovevano proprio essere gli eccelsi fra gli emissari dell’Onnipotente. Negli ultimi tempi, erano giunti nuovi straordinari Messi, dotati di macchine magiche di gran lunga superiori a quelle dei primi arrivati. Nonostante i Signori del Cielo non pretendessero di essere considerati i nuovi padroni del pianeta, gli uomini di Arkron sembravano obbedire a ogni loro volontà. E dal loro arrivo, la devozione verso l’Intelligenza Creatrice si era tramutata in una fede dettata dalla paura.

    Athon sapeva bene chi fossero davvero i misteriosi alieni, ma aveva perso ogni speranza di conquistare, sull’argomento, l’attenzione del padre Thak’hor o degli altri. Per tutti loro, ogni genere di fortuna come di sventura era dovuta all’Intelligenza Creatrice, benché ultimamente prevalessero soprattutto le avversità... Questi potenti stranieri avevano ottenuto dai governanti di Arkron il permesso di procedere allo sfruttamento sistematico delle risorse del pianeta. Gli indigeni avevano sempre visto le macchine volanti arkroniane sfrecciare sulle loro abitazioni, ma solo i Signori del Cielo avevano impiantato in ogni Villaggio basi operative. Non avevano modificato nulla della cultura, della tecnica e dell’organizzazione locali. Semplicemente, le avevano fatte funzionare secondo le loro nuove regole.

    Persino gli ingenui abitanti di Ghul’ì-Po avevano da tempo capito che gli Angeli di Arkron non erano più i padroni di K’hell-Imar e che le leggi imposte dai Signori del Cielo avevano reso l’adagio lavorare per vivere solo il ricordo di un’aurea età ormai tramontata. Fu un esponente stesso del governo a spiegare che gli stranieri erano incaricati di fare rispettare le nuove leggi, ma nessuno si era mai preoccupato di capire cosa ciò significasse veramente. Vedevano solo quali straordinari poteri avessero le macchine dei misteriosi alieni, che sapevano affrontare la Palude, talvolta persino trasformarla in una fertile pianura. Nessuno avrebbe potuto violare quell’inferno, se non la manifestazione della divinità nel mondo... L’Assoluto, finalmente, era tornato a rivelarsi.

    Perciò, la gente del Villaggio eseguiva timorosamente ogni loro ordine.

    Tutti gli uomini adatti al lavoro venivano organizzati in squadre e inviati a perlustrare la Palude palmo a palmo in cerca di giacimenti. In fondo, non facevano null’altro che quello che avevano sempre fatto, ma non più per se stessi. Ora, sputavano l’anima in ritmi di lavoro estremi, e tornavano a casa solo dopo settimane di fatica e di paura... Da parte loro, donne, vecchi e bambini sgobbavano quanto potevano per far sì che la terra continuasse a fruttificare, e che tutto quanto veniva un tempo assicurato dall’opera degli uomini in forze non scomparisse.

    L’ignoranza dei nativi era l’alleato più potente del cinismo di quegli spregiudicati affaristi galattici, che approfittavano delle loro superstizioni senza trascurare alcun particolare. Introdurre qualcosa di radicalmente nuovo nella vita di quella gente, ad esempio, avrebbe potuto produrre conseguenze impreviste. Occorreva mantenere sostanzialmente inalterato

    l’isolamento delle oasi umane per evitare l’insorgere negli indigeni di una nuova consapevolezza, potenzialmente eversiva. Così, le squadre di Operanti erano sempre composte da uomini dello stesso insediamento e non cooperavano mai con formazioni esterne. Anche per questo, i Signori del Cielo limitavano le opere di bonifica alle fasce adiacenti alle grandi praterie settentrionali, dove sorgevano le città divine. Rassegnati ai mutamenti del volere divino, gli indigeni andavano adeguandosi a un destino di sofferenze e di miseria sempre maggiori.

    Athon trattenne l’insofferenza crescente. Malgrado gli accuratissimi piani, i Sublimi avevano trascurato l’imponderabile che si cela in ciascun individuo. Non era più disposto ad accettare l’insipienza dei propri consanguinei, né era intenzionato a sopportare oltre l’ambiente dei Siti di Produzione costruiti attorno alle città delle praterie settentrionali. Essere un emarginato, un esaltato sognatore al quale nessuno avrebbe mai dato credito, gli permetteva opportunità che agli altri erano precluse. E aveva tutte le intenzioni di sfruttare fino in fondo il paradossale privilegio offertogli dalla sua condizione. Presto, sarebbe stato fra i pochi abitanti di K’hell-Imar a vedere la Galassia...

    Thak’hor iniziava a spazientirsi. Le spirali di fumo che si alzavano dalla sua pipa si facevano sempre più dense e frequenti. A Ghul’ì-Po, tutti i maschi adulti fumavano le foglie essiccate della pianta di Kalakh, la stessa che forniva loro il cibo principale, perché si riteneva che le essenze contenute da quella fibra possedessero principi terapeutici e regolatori del sistema nervoso. Tuttavia, in quel momento, pareva che il presunto toccasana proprio non funzionasse col capofamiglia. Dopo l’allegria del pasto comune, era diventato taciturno e pensoso, chiaro sintomo di preoccupazione. Athon... Quando mai avrebbe messo la testa a posto, abbandonando strane idee e voglia di avventura? Anche adesso, mentre i parenti trascorrevano lietamente quelle ore di sospirato riposo, continuava da più di un’ora a guardare immusonito fuori dalla finestra. Non era sempre facile tollerarne le bizzarrie: bel primogenito gli era toccato…

    Non c’era persona, in tutto il Villaggio, che non biasimasse le sue intemperanze. Sospirò. Danneggiare quel raro momento di tranquillità familiare sarebbe stato un crimine. Ma neppure poteva ignorare i suoi doveri di padre.

    ‹ Mi vuoi spiegare cosa stai rimuginando, Athon? Stai mettendo a disagio tutti!› esordì, infine, parlando stretto nel dialetto locale. Tuttavia, Athon sembrò nemmeno sentirlo. Thak’hor abbassò lo sguardo in atteggiamento di autocontrollo, ma le sue guance furono percorse da un sussulto. La moglie gli mise una mano sulla spalla per rassicurarlo, affettuosa.

    ‹ Possibile che ti costi tanto rispondere a tuo padre?› ripeté gravemente.

    ‹ Voglio sperare che la cosa non ti disturbi troppo!›

    Athon si voltò, con un forzato sorriso. ‹ Quello che sto pensando, temo che vi interessi poco o che, comunque, non siate in grado di capirlo›

    rispose amareggiato.

    Thak’hor sospirò ancora, più pesantemente questa volta. ‹ Non credi che sarebbe tempo di mettere un po’ di sale in zucca e comportarti come fanno tutti? Cosa ti costerebbe una vita normale, senza stravaganze e progetti irrealizzabili? Ormai, hai vent’anni, e ancora non hai pensato a farti una famiglia.›

    Sul volto di Athon, sparì il sorriso: rimase solo una smorfia. ‹ Mi costa proprio quello che hai detto. Lo squallore di questa vita ottusa, la vostra povertà d’immaginazione; pensare che non esista nulla oltre le vostre superstizioni. Non voglio marcire con voi. Voglio vivere; respirare l’aria aperta di un universo immenso, conoscere quello che mi può offrire. Me ne frego se tutto il Villaggio continuerà a considerarmi un matto: questo non è più il mio mondo.›

    Per un attimo, Thak’hor sentì ogni nervo del corpo scuotersi. ‹ Non esagerare, ragazzo...› lo ammonì. ‹ Anche se i Sublimi ti permettono di lavorare nei luoghi proibiti, resti un figlio della Palude. Nessuno può sfuggire al proprio destino. Per quanto tu vada lontano, la legge che governa le nostre vite ti riporterà là dove ha stabilito tu nascessi.›

    Lo sguardo di Athon si fece di aperta sfida. ‹ Per adesso, mi accontento di godere dei benefici che posso ottenere dai vostri protettori divini... o, forse, farei meglio a chiamarli oppressori?›

    Thak’hor scattò in piedi con i pugni chiusi come una morsa. ‹ Ora basta! Posso tollerare il disprezzo verso la tua famiglia, ma non posso permetterti di bestemmiare.›

    ‹ Marito, ti prego, mi avevi promesso che...› intervenne la madre di Athon, ansiosa di mantenere disteso il clima familiare.

    Thak’hor le lanciò un duro sguardo di minaccia. ‹ Donna, non ti intromettere quando discuto con mio figlio...› grugnì. Ma ciò permise ad Athon di contrattaccare.

    ‹ Mi rimproveri di essere ancora troppo giovane... è naturale che io non ricordi com’era la vita prima che i Signori del Cielo arrivassero a Ghul’ì-

    Po. Invece, ricordo benissimo le storie che mi avete sempre raccontato. Se non sono solo fantasie romantiche, non c’è dubbio che vivevate meglio allora di oggi› incalzò, sfidando lo strisciante sconcerto dei parenti.

    ‹ Cosa vorresti dire con questo?› lo interruppe Thak’hor a denti stretti.

    ‹ Quello che già sapete› replicò Athon elusivo. ‹ Voi siete sempre e solo stati nella Palude. Non avete idea di cosa sia il mondo al di fuori di essa.›

    ‹ Ti ripeto che non capisco cosa vuoi dire!› insistette Thak’hor, serrando ancor più energicamente le labbra sulla pipa.

    ‹ Semplicemente che non credo affatto alla favola che i cosiddetti Signori del Cielo siano emissari dell’Intelligenza Creatrice. Non sopporto la vostra mancanza di coraggio, né accetto di nascondermi dietro a una misteriosa divinità tutte le volte che ho di fronte cose che non mi so spiegare altrimenti.›

    Qualcuno iniziò ad alzarsi: non potevano fermarsi ancora in un luogo contaminato da un simile blasfemo. La madre si sentì stringere il cuore, constatando che i suoi sforzi stavano fallendo.

    Thak’hor si sforzò di sfumare la rabbia in un aspro sorriso. ‹ Se tu fossi uno qualunque, ti avrei già dato una bella lezione. Ne soffro, ma ormai ho perso ogni speranza di redimerti. Non mi resta che provare pietà per il terribile destino che certamente ti colpirà. Potrei punirti pubblicamente in modo esemplare, ma a cosa servirebbe? Voglio solo salvaguardare l’onore della famiglia e sperare che tu non abbia figli. Non è giusto che i tuoi fratelli paghino le conseguenze delle tue colpe, né sopporterei l’onta di avere come nipoti delle creature immonde.›

    ‹ Bell’onore!› esclamò Athon sarcastico. ‹ L’onore a cui ti riferisci era vivere del vostro lavoro! È stata proprio l’Intelligenza Creatrice a disonorarvi. Per premiarvi della vostra devozione, vi ha inviato questi suoi bravi messaggeri che vi lasciano solo le briciole...›

    Thak’hor era ammutolito. Il suo volto si era fatto cupo e teso: aveva persino smesso di fumare, limitandosi a stringere nervosamente la pipa fra le mani. Ormai, se ne stavano andando tutti, a parte la moglie, rimasta per evitare il peggio. Si chiedeva soltanto se dovesse ancora sopportare a lungo quell’oltraggio. Ma Athon continuava imperterrito a infierire.

    ‹ Il mio destino sarà certamente spietato, ma neppure voi siete al sicuro. So a cosa alludi con le tue minacce: purtroppo, le mutazioni prodotte dalle macchine magiche non colpiscono solo coloro che voi definite peccatori! In ogni caso, non sono il tipo che una donna vorrebbe...› disse, con amarezza. ‹ I tuoi toni non mi spaventano. La sola cosa che rende i Signori del Cielo superiori è l’aver avuto il coraggio di capire i segreti delle cose, senza paura di commettere sacrilegi. Sono le stesse leggende di K’hell-Imar a darmi ragione! Gli Itineranti del Tempio della Montagna che Tuona non erano, forse, esseri divini? Eppure, sembra avessero attitudini esattamente opposte a quelle dei vostri nuovi padroni.

    Possibile che l’Assoluto abbia cambiato opinione? Cosa abbiamo fatto di tanto grave per meritarci questi castighi? Proprio nulla, caro padre... questi non sono angeli: senza le loro macchine, non sono affatto migliori di noi.

    Per essere entità celestiali, si comportano in modo troppo simile ai peggiori fra i mortali. A proposito di creature immonde, se i Signori del Cielo sono veramente emissari dell’Intelligenza Creatrice, perché non impediscono che nascano gli Uròk?›

    Thak’hor lasciò cadere pesantemente la mano aperta sul tavolo, facendolo sobbalzare. ‹ Ora basta!› grugnì, sfogando la rabbia. ‹ Basta bestemmiare, Athon... Puoi fare quel che ti pare della tua vita, ma se hai pietà di noi, evita queste frasi sacrileghe e allontanati velocemente da questa casa. Uno che detesta a tal punto le proprie origini non è che un rinnegato. Se proprio tieni tanto alle tue idee, faresti meglio a sparire dalla Palude o, meglio, dal pianeta stesso. Quanto sei folle! Cosa credi di poter fare da solo: forse, cambiare il mondo? Anche se ciò che dici fosse vero, non hai alcuna possibilità di cancellare quello che sei. Ora vattene. Hai già fatto danni abbastanza, e sappi che non vorrò rivederti finché non ti sarai ravveduto.›

    Athon non si fece pregare. Si alzò di scatto, afferrò le proprie poche cose e si diresse deciso verso l’uscio di casa. Ma, arrivato sulla soglia, si voltò ancora una volta verso Thak’hor lanciandogli un ghigno beffardo.

    ‹ Non sai quanto sei nel giusto, padre. Sto proprio per lasciare K’hell-Imar, in effetti. Non sono che uno schiavo, proprio come tutti voi; ma il fatto che mi consideriate solo un piccolo mostriciattolo mi permette di andare dove non vi è concesso. Voi, nella vostra rettitudine, adorate gli angeli del Supremo; io, blasfemo e miscredente, ammiro le loro dimore.

    Voi aspirate ai loro paradisi nella vita ultraterrena; io già in questa posso entrare laddove nessun altro dei miei consanguinei potrebbe anche solo lontanamente sperare. Posso farlo, perché Loro sanno che nessuno di voi crederebbe a ciò che potrei raccontare. Per un anno, ho lavorato nelle città delle Bianche Praterie. Ora, mi hanno reclutato per una missione sugli asteroidi metalliferi, e io non mi sono opposto. Almeno, potrò provare l’emozione di un viaggio interstellare... Forse, il tuo auspicio verrà esaudito: è molto probabile che tu non mi veda più...› e sospese il discorso in una pausa carica di enfasi, divertendosi a osservare l’espressione disorientata del proprio genitore. Poi, concluse acido: ‹ Preferisco vivere poco ma intensamente, che a lungo come un decerebrato.›

    Se ne andò, sbattendo la porta. La madre iniziò a singhiozzare.

    Nonostante tutto, era suo figlio... l’Intelligenza Creatrice le avrebbe mai

    perdonato questo amore malinteso? Disperava al solo pensiero. Ma le ultime parole di Athon le rimbombavano nel capo ossessivamente: e se davvero non lo avesse più rivisto? Righe di lacrime le solcarono il volto magro, enfatizzandone le rughe.

    Malgrado la tensione, Thak’hor si commosse. Quando vedeva la moglie piangere in quel modo, ricordava perché molti anni prima si era innamorato di lei. Il volto sofferente di quella donna era una delle poche cose che avevano il potere di ammorbidire il suo austero temperamento.

    Così, si riscopriva capace di sentimenti come tutti gli altri. E la cosa gli piaceva... ‹ Ho cercato di controllarmi come mi avevi chiesto. Non è servito a nulla, come non è servita la sua lunga assenza da casa. Che altro dovrei fare per salvarlo? Nessun altro capofamiglia sarebbe stato paziente come me.› La abbracciò, cercando di consolarla, anche se, poco avvezzo com’era alle dolcezze, il suo gesto risultò goffo. ‹ Su, su... basta piangere!›

    la incitò. ‹ Perché prendersela tanto, quando gli altri ragazzi ci danno tutte le soddisfazioni che vogliamo? Forse questo ti aiuterà a dimenticare i dispiaceri che Athon ci ha dato.›

    La donna si asciugò le lacrime. Già, Athon era davvero imperdonabile.

    Eppure, erano proprio la sua inquietudine, i suoi illeciti desideri, persino il suo ostinato ateismo a renderlo speciale... Come uno scrigno di indecifrabili ricchezze che gli altri fratelli, nella loro normalità, purtroppo non possedevano. Non se lo sarebbe saputo spiegare, ma solo Athon il ribelle la sapeva rendere in qualche modo orgogliosa di essere madre.

    2

    All’interno della stiva, c’era circa un centinaio di uomini sparpagliati in gruppetti. Alcuni sedevano sul pavimento polveroso o sui contenitori delle merci; altri erano distesi o raggomitolati in angoli nascosti. L’aria stantia rivelava che il grande vano non era stato esposto all’atmosfera esterna da un certo tempo, e che i riciclatori d’ossigeno funzionavano male. Nel complesso, l’ambiente offriva uno spettacolo tetro e deprimente, debolmente illuminato da un impianto realizzato in economia.

    Sproporzionatamente grasso rispetto alla piccola statura, Rahn Kondar sedeva goffamente a terra, con la schiena appoggiata a uno dei cassoni.

    Nonostante lo sgraziato aspetto dovuto a una disfunzione ormonale congenita, aveva il volto ingenuo e paffuto di molti bambini. E, in barba ai suoi quasi trent’anni, era proprio eccitazione infantile quella provata, mentre estraeva un sacchetto dalla tasca destra del malconcio cappotto.

    Incurante della dozzina di sguardi puntati su di lui, estrasse una ciambella fatta di una farina scura e grezza. L’aspetto era rivoltante, ma in mancanza di meglio... D’altra parte, erano passate ventiquattro ore dall’ultimo pasto, quindi non era il caso di essere schizzinosi. Così, affondò con voluttà i denti, ignorando la sgradevole sensazione procurata dal contatto del palato con la cellulosa. Non ebbe il tempo di iniziare a masticare, che percepì il sommesso gorgoglio di uno stomaco assalito dai crampi della fame. Non era il suo a brontolare... Si voltò e osservò lo strano individuo seduto accanto, col capo chino sulle ginocchia e nascosto da un mantello scuro.

    ‹ Ehi, grassone! Non hai mai sentito il detto dai da mangiare agli affamati?› lo apostrofò rudemente un tizio dall’aspetto inquietante, mentre il gruppo attorno prorompeva in uno sguaiato ludibrio.

    Il volto di Rahn Kondar si riempì d’imbarazzo, mentre guardava alternativamente il poco allettante contenuto del sacchetto e quell’immobile sagoma scura. Poi, un moto di rabbia scosse la sua proverbiale codardia. Non aveva mai visto neppure una di quelle facce, né costoro potevano certo dire di conoscerlo. Come si permettevano di sghignazzare in quel modo?

    ‹ Che cavolo volete da me... lasciatemi in pace! A voi non capita mai di avere fame?› replicò aspramente, tra lo scricchiolio dell’affondo dei denti nel grezzo amalgama. Neppure si accorse del pallore che pervase i volti dei compagni del suo indesiderato interlocutore.

    Gli occhi di quest’ultimo si erano accesi di un lampo di ferocia. ‹

    Maledetto bastardo...› grugnì, scattando in piedi come una molla. Ma due dei suoi lo bloccarono immediatamente. ‹ Lasciatemi stare, figli di... quel porco deve sapere con chi sta parlando! Ricordatevi chi è il capo qui!›

    minacciò, dimenandosi selvaggiamente per liberarsi dalla presa.

    ‹ Certo, sei tu il capo, Darr-Ell... Ma ragiona: a che ti serve spaccargli le ossa? Adesso, nessuno ci controlla, ma allo scalo i Metandroidi lo scoprirebbero subito e ci ammazzerebbero senza aspettare un secondo›

    cercò di calmarlo un altro. Poi, con un ghigno sinistro, soggiunse: ‹

    Potremo sistemarlo quando nessuno potrà scoprirci!›

    Il torvo Darr-Ell seguì il suggerimento, ma continuò a fissare l’ingenuo Rahn Kondar. ‹ Per ora, ti è andata bene, grassone! Ma non credere che sia finita. Io mi ricordo di chi mi calpesta i piedi, dovessero passare altri cent’anni prima di rivederti› sibilò, mentre tornava a sedersi.

    Rahn sbiancò. Si voltò per guardare di nuovo il suo misterioso vicino: pareva dormisse, tant’era incurante di ogni cosa. Come, peraltro, tutti in quella maledetta stiva... ‹ Oh maledizione!› esclamò a voce bassa, di nuovo vinto dalla vigliaccheria. Capiva che quelli non scherzavano affatto

    e che era solo... L’unica cosa che si sentiva erano le cantilene dei vari ubriachi. ‹ Maledetti ubriaconi› balbettò, trangugiando l’ultimo boccone ‹

    Almeno cantassero qualcosa di più allegro...›

    Darr-Ell e compari ripresero a sghignazzare, rivolgendogli nuove minacciose allusioni. ‹ Ingozzarsi come un maiale non è il solo modo di vincere la paura, grassone! Se tu sapessi cosa ti sta aspettando, berresti forse più di loro.›

    Rahn richiuse il residuo di ciambella nel sacchetto e se lo rimise in tasca: i denti gli battevano incontrollatamente. Benché sapesse di essere al sicuro finché restavano sull’astronave, quelle parole lo terrorizzavano.

    Possibile che bastasse così poco a generare tanto odio? Si precipitò sul primo a caso, nel disperato tentativo di fare breccia nel muro di apatia e indifferenza che lo circondava. ‹ Ehi, amico... svegliati, per favore›

    implorò vanamente un tizio che sonnecchiava a pochi metri da lui, scuotendolo per la spalla. ‹ Tu... sì, forse tu mi ascolterai› ripeté scompostamente a quello successivo. Ne ottenne un insulto. Si voltò e vide un anziano che lo guardava attentamente. Gli si prostrò di fronte, rapito dal senso d’impotenza. ‹ Ma perché nessuno si accorge che quelli mi faranno la pelle appena potranno? Almeno tu, vecchio, fai qualcosa per difendermi!›

    L’altro gli rispose con una smorfia piena di sarcasmo. ‹ Senti, pivellino, credi che io sia scemo? Non ho alcuna voglia di mettermi nei guai… Posso solo darti un consiglio: la prossima volta, prima di aprire bocca, stai attento a con chi hai a che fare. Ti eviterai ulteriori grane.›

    Si accasciò sconsolato, mentre le risate dei suoi avversari gli rimbombavano nelle orecchie. ‹ A quanto pare, non c’è nessuno a cui freghi qualcosa del tuo problema› lo incalzarono.

    Arrancò verso il suo posto iniziale, e lì si raggomitolò atterrito in posizione fetale. Poi, nascondendosi fra le ginocchia, balbettò: ‹ Ma voi chi siete? Perché tutti vi temono tanto?›

    ‹ Devo proprio ammettere che, per una sporca volta, avevi ragione Garth. Inutile aver fretta di sistemare il grassone, quando ci possiamo divertire con lui fino ad Haitesh...› commentò sarcasticamente Darr-Ell, tra l’entusiastica approvazione della ghenga. Il sinistro personaggio si avvicinò a Rahn Kondar che divenne ancora più pallido e tremante.

    Quindi, gli afferrò in una presa d’acciaio le guance, avvicinandogli il volto a un centimetro dal naso. ‹ Chi vuoi che sia uno che ha una faccia come questa, grassone?› sibilò.

    Rahn era sull’orlo di un collasso nervoso. ‹ Non... non so, signore...›

    gemette.

    Darr-Ell esplose in una risata ancora più rumorosa delle precedenti.

    ‹ Avete sentito, ragazzi? Non ho ancora capito se questo è tonto o se lo fa apposta. Forse, se parlo chiaro ti passerà la voglia di scherzare.›

    Rahn agitò debolmente le mani come per schermirsi. ‹ Le giuro che non la sto prendendo in giro, signore› singhiozzò, sforzandosi di tenere lo sguardo fisso sul volto deturpato di Darr-Ell, che a ogni parola gli alitava addosso una nauseante flatulenza.

    I suoi denti, quasi mai lavati, erano neri: molti erano spezzati, altri mancavano del tutto. Una profonda cicatrice gli solcava la guancia sinistra da sotto l’occhio fino all’angolo delle labbra, descrivendo un ampio arco.

    ‹ Tieniti forte grassone, perché potrebbe venirti un infarto... Io e i miei amici abbiamo ucciso, rapinato e stuprato decine di volte, prima di finire nel penitenziario di Nuth. Per tutti, la stessa condanna: prima, dieci anni di lavori forzati, poi l’esecuzione. In carcere, c’è la legge della giungla: qualcosa che i cagasotto come te non possono nemmeno immaginare; ma io c’ero abituato da sempre... Così, mi sono fatto rispettare, ed eccomi a capo di una banda di bravi ragazzi, con i quali ho messo sotto i galeotti della mia sezione. Tutti costretti a farmi spazio per i lavori meno faticosi, i pasti migliori. Abbiamo corrotto con poco secondini miserabili, per avere ore di aria in più e favori di ogni tipo. Al punto che speravamo di trovare l’occasione per scappare con la loro complicità… Purtroppo, qualcuno fece una soffiata e poco ci mancò che ci giustiziassero prima del tempo.

    Invece, l’abbiamo fatta franca. Proprio allora, ai Mediogalattici venne l’idea di fare una proposta a quei bastardi Arkroniani: Ehi, ragazzi... , devono aver detto loro, non sprecate il patibolo per quelle canaglie: abbiamo bisogno di uomini per le miniere spaziali. Voi ce li lasciate gratis e noi, ogni tanto, ve li riportiamo per dimostrarvi che non hanno fatto scherzi. A meno che non rimangano spiaccicati sotto qualche sasso volante! Ma, per ora, siamo riusciti sempre a scamparla, alla loro sporca faccia... Beh, adesso che ti prende palla gonfia?›

    Darr-Ell mollò la presa, vedendo che Rahn Kondar aveva gli occhi sbarrati come se avesse appena appreso la propria condanna a morte. ‹

    Co... come sarebbe a dire spiaccicati da qualche sasso volante ? I Mediogalattici a me non hanno detto niente...›

    Inutile descrivere gli effetti che quella domanda provocò sullo smaliziato Darr-Ell. ‹ Questo tipo è veramente incredibile, ragazzi...›

    contenne a stento le risate. ‹ È chiaro che sei una recluta, un novellino, oltre che a un cagasotto. E pure tonto... Di sicuro, avrai creduto a ogni balla che i Mediogalattici ti hanno raccontato, per convincerti ad andare a fare il verme dentro a quei maledetti asteroidi.›

    ‹ A me hanno detto che la mia vita sarebbe cambiata, che avrei potuto fare qualcosa di eccezionale!› protestò Rahn Kondar, ricordando l’orgoglio che quella proposta gli aveva suscitato. Dopo anni di umiliazioni dovute alla deformità, finalmente un’opportunità importante.

    Gli occhi di Darr-Ell furono attraversati da una luce demoniaca. ‹ E tu, povero idiota, hai pensato di aver trovato il biglietto fortunato... Ma guardati!› grugnì tornando a premergli le guance. ‹ Guarda di che razza di uomini i tuoi salvatori hanno riempito questo cargo spaziale! Ubriaconi persi, tagliagole, ladri, sbandati, pazzoidi, rifiuti umani che non sono riusciti a integrarsi nemmeno nella sottocasta degli Operanti... Qui c’è il peggio di K’hell-Imar. Che razza di lavoro privilegiato vuoi che i Mediogalattici abbiano riservato a della feccia come noi? Pensi che non abbiano visto che scherzo della natura sei?›

    ‹ Certo che lo hanno visto...› lo interruppe una voce giovane e insolitamente limpida per quell’ambiente di disperati. ‹ Ma non è il caso che tu continui a ripeterglielo.›

    Era stato il misterioso uomo avvolto nel mantello nero, dopo tanto silenzio... Darr-Ell ebbe un impeto d’ira. ‹ Amico, non sopporto i rompiscatole quando parlo, soprattutto se chi si intromette non ha fatto altro che sonnecchiare per... oh, diavoli dell’Inferno!›

    Darr-Ell arretrò di scatto, pervaso da un’espressione di terrore inedita su di un volto come il suo, che sembrava piuttosto fatto per terrorizzare gli altri. L’uomo si era tolto il cappuccio e gli aveva appoggiato una mano sulla gamba. Il suo aspetto non lasciava dubbi sulla sua infausta provenienza: le membrane tra le dita, l’incarnato tendente al verde pallido... ‹ Un troglodita arboricolo!› urlò, come se avesse visto la morte in persona.

    Quel grido diffuse il panico tra quanti sedevano nei paraggi. Aggrediti da una paura paralizzante, iniziarono a strisciare all’indietro, spesso finendo uno addosso all’altro.

    ‹ Un demone delle Paludi...› continuava a urlare Darr-Ell. ‹ Toccarlo vuol dire rischiare le malattie peggiori!› gracchiava, mentre lo stesso Rahn Kondar si era allontanato di almeno tre metri dall’indesiderato compagno.

    Infine, indietreggiando alla cieca, il pregiudicato cadde rovinosamente addosso a uno dei suoi compari.

    Athon Grann li osservò con tristezza. Ancora una volta, la stessa scena... Purtroppo, non gli era riuscito di tenersi in disparte. Né si rammaricava dell’ingratitudine manifestatagli dal povero Rahn Kondar...

    Sorrise amaramente. In barba a tutte le leggende di cui suo padre andava convinto, non si poteva certo dire che quella rappresentanza di creature celestiali facesse onore alla fama che circondava le loro terre di origine.

    Ancora una volta, constatava come persino gli abitanti delle praterie nutrissero ogni sorta di superstizioni sui misteriosi uomini palustri. Ma, là in mezzo, c’era forse qualcun altro che si stesse ponendo lo problema?

    ‹ Tu... Ricorda che non ti uccidiamo solo perché toccarti significa maledizione sicura...› strillò il vecchio che, poco prima, aveva rudemente respinto le richieste di aiuto di Rahn Kondar.

    Athon osservò quel dito malfermo puntato contro di lui, e avvertì la tristezza acuirsi... Al di là dell’isolamento fisico, era la solitudine spirituale a riuscirgli intollerabile. Ignorando gli sguardi allucinati che lo penetravano da ogni parte, si volse verso lo smarrito Rahn, anch’egli solo, oggetto ormai trascurato di un’ostilità cieca.

    Appena vide quella faccia verdognola girarsi verso di lui, scattò all’indietro come una molla. ‹ Fermo...› balbettò parando le mani avanti. ‹

    Non voglio assolutamente mischiarmi con tipi come te...› disse, in una maldestra imitazione di Darr-Ell. Darr-Ell... Il solo pensiero lo fece immediatamente tornare sui suoi passi. Anzi, gli richiamò alla mente un pettegolezzo che aveva spesso sentito nei mesi precedenti, ma che non aveva mai preso sul serio. ‹ Un momento...› bisbigliò. ‹ Ho sentito parlare di un giovane delle paludi che lavorava in un’Installazione ai bordi della pianura del Nord-Est› proseguì a bassa voce. ‹ Alcuni dicevano che la convivenza con i diavoli verdi non è, poi, così terribile› e trangugiò saliva.

    ‹ Naturalmente, credo sia una leggenda...› mentì, celandosi dietro allo stereotipato disprezzo che gli abitanti delle pianure nutrivano verso i loro fratelli palustri. ‹ Ma... sei forse tu quel tizio?›

    Athon diede uno sguardo alla minacciosa compagnia. Per fortuna, le incaute parole di Rahn Kondar non avevano affatto alleviato il terrore scatenato dal suo volto verdastro. ‹ Può darsi› gli rispose, infine. ‹ Ma ti conviene continuare a non esserne troppo sicuro› e tornò ad abbassare la testa sulle ginocchia, sotto al liso mantello.

    Rahn Kondar esitò per qualche minuto. Infine, decise che una malattia lo avrebbe ucciso senz’altro più lentamente di quanto avrebbero fatto Darr-Ell e compagni. Tanto valeva scegliere il male minore... Si sedette al fianco del giovane, finendo di sgranocchiare quel poco che gli restava della provvista di cibo.

    La paura del gruppo si trasformò in indifferenza. Il ridicolo Rahn era comunque segnato: non valeva la pena accanirsi contro di lui per rischiare il contagio a propria volta. I due si trovarono isolati dal gruppo: attorno a loro, si era formato il vuoto per un raggio di una decina di metri. Ma, soprattutto, il silenzio... Fraintendendolo come fine delle ostilità, Rahn

    Kondar chiese quale fosse la loro prima destinazione.

    ‹ Neppure questo sai, pivello?› grugnì con insofferenza Darr-Ell. ‹

    Diglielo tu, vecchio... io non ho tempo da perdere con gli idioti!›

    ‹ Nella tana del lupo: lo sanno tutti!› sbuffò l’anziano. ‹ Ad Haitesh, la capitale di Sargan, dal pazzo... E adesso non seccare più.›

    Settore β

    Gli antitetici ecosistemi di Haitesh

    1

    L’atmosfera del locale era soffocante, a causa dell’acre odore del fumo e dell’inverosimile sovraffollamento. C’era chi fissava con sguardo abulico l’ennesimo bicchiere di liquore, prima di arrendersi all’ubriachezza. E c’era chi all’ubriachezza si era già arreso e si appoggiava mollemente al muro, privo di lucidità. Altri, invece, urlavano esagitati perché le cose andavano male al gioco.

    In un angolo, Athon Grann osservava malinconico quello spettacolo di abbrutimento non certo migliore dell’ignoranza degli indigeni di Ghul’ì-

    Po. Quello era il primo giorno in cui poteva uscire dagli hangar di addestramento e, malgrado fosse al verde, non aveva resistito alla tentazione di fare un’escursione nelle zone adiacenti ai Ricoveri.

    Camminare non costava nulla e la curiosità era troppo forte per restare a marcire là dentro. Tuttavia, ciò che aveva visto di Haitesh fino a quel momento non gli suonava affatto nuovo. Anche se qui tutto era smisuratamente più grande e complesso... Improvvisamente, le ante a scomparsa di un siparietto si aprirono in un’esplosione di effetti luminosi.

    Sembrò che i frequentatori di quello strano antro fossero di botto rapiti dalla stessa animale eccitazione. Perfino i più sbronzi erano schizzati in piedi, come rianimati da una forza superiore. Athon sbarrò gli occhi perplesso.

    Gli accecanti riverberi erano svaniti. Su un minuscolo palco di cinque o sei metri quadrati, una figura femminile, inguainata in un monoabito a rete che ne esaltava le conturbanti fattezze, iniziò a muoversi sinuosamente, scatenando gli ululati e le più svariate forme di apprezzamento del pubblico. Era una professionista della seduzione: accarezzandosi voluttuosamente il corpo, si liberò di quella sorta di seconda pelle che la avvolgeva. Quel corpo svelato riassumeva tutto quanto riposa nelle fantasie sessuali del maschio tipico: quello grezzo, animale, che ama millantare improbabili exploit erotici. Infatti, c’era ben oltre la volgarità in quei seni grandi e perfetti ma innaturalmente rigidi, in quelle gambe tornite culminanti in natiche di alabastro, in quella vita da

    vespa priva di smagliature... C’era tutta l’artificialità chirurgica di un prodotto accuratamente confezionato per ottenere uno scopo preciso: infuocare gli ormoni e accecare l’intelligenza. Intanto, la massa turbolenta moltiplicava, a ogni evoluzione, commenti sempre più espliciti.

    Un vecchietto gagliardo si fece largo tra la calca, con gli occhi fuori dalle orbite per l’eccitazione. Il suo volto, infiammato dai capillari rotti dall’abuso di alcool, esprimeva intenzioni ben chiare. Molti risero sonoramente...

    ‹ Ehi nonno, lascia stare! È roba troppo dura per i tuoi denti bucati, quella...› lo sfotterono.

    ‹ Silenzio, mocciosi!› urlò, alticcio. ‹ Fate largo... Avete ancora molto da imparare!› insistette, esaltato dall’entreneuse che lo invitava con un eloquente gesto dell’indice. ‹ Aspetta bambina... vedrai come ti divertirai con papà!› gracchiò, lanciandosi contro il palco. Allungò le mani per aggrapparsi ai polpacci della donna, ma non riuscì ad arrivarci. Lo strato d’aria che li separava prese a crepitare e il suo corpo decadente fu respinto di un paio di metri da una barriera di invisibile energia.

    Tutto il bar scoppiò in una risata tale da farne tremare i muri. ‹ Te l’avevamo detto che non era roba per te!› gli ripeté un altro, indicandogli l’ingresso in scena di un aitante spogliarellista, che iniziò un duetto con la donna.

    Accompagnati da boati da stadio, i due diedero vita a un vero e proprio spettacolo pornografico. Ogni momento della copula era consacrato dagli incitamenti di gente smaniosa di dar sfogo alle proprie frustrazioni. Forse, pure alla miseria della propria vita sessuale... Athon era ammutolito, combattuto tra il senso di disgusto e la spiacevole consapevolezza di scoprirsi eccitato a propria volta. Aveva sempre pensato che certe attività fossero confinate nelle camere da letto... Ancora una volta, doveva constatare come la sottomissione impedisse alle creature intelligenti di elevarsi. Lì non si sentiva a proprio agio. Ma, forse, non era il solo.

    Il solito spettacolino hard-core con tanto di pubblico istupidimento. Era capitato nel momento meno adatto per cercare di lenire quei sintomi sinistramente familiari. In quel posto sembrava di stare in una scatola di sardine; si soffocava... Ram’ah si appoggiò affannato al muro, arrendendosi al crescente malore.

    In una frazione di secondo, si sentì come se fosse vuoto spaziale. Di nuovo posseduto da quell’orrendo festival di incubi a occhi aperti, non percepiva più la pressione della calca, né l’aggressione della ripugnante mistura di gas. Con la fronte imperlata di sudori freddi, cercò di reagire alla nausea: gli sembrava di roteare vorticosamente, precipitando in un baratro senza fondo. Inorridito, si vedeva cadere nelle fauci incandescenti della mostruosa piovra nucleare che maneggiava per ore, tutti i giorni.

    Urlò disperatamente: di sicuro nessuno l’avrebbe udito, là dentro.

    Tuttavia, proprio mentre stava per essere fuso dal magma, si sentì tratto in salvo da un paio di braccia, forti e provvidenziali. Il delirio svanì...

    Guardò con gratitudine l’insolito volto verde-pallido che lo fissava pietoso. Proprio in quell’istante, ebbe termine lo show che aveva elettrizzato il locale.

    ‹ Ringraziando il cielo, è finita anche stavolta!› sospirò Ram’ah.

    ‹ Proprio un brutto divertimento...› confermò lo sconosciuto con una pronuncia insicura.

    Ram’ah ebbe un attimo di perplessità, poi rise di gusto. Evidentemente, il suo soccorritore aveva frainteso la causa del malore. ‹ Ah, vuoi dire quella roba là? No... non mi scandalizzo per così poco! Cose del genere si vedono in ogni angolo degli Agglomerati...› S’interruppe bruscamente, di fronte allo sconcerto dell’altro. ‹ Beh, non ti ho ancora nemmeno ringraziato› disse. Poi, lo guardò meglio. ‹ Tu non devi essere di queste parti, vero?›

    Il giovane rispose con una frase di circostanza della lingua sarganiana, confidando sul poco che aveva compreso di quelle parole. ‹ Io sono Athon Grann di K’hell-Imar› fece timidamente.

    Ram’ah spalancò la bocca, sorpreso. ‹ Perbacco... Salvato dall’odiato nemico Arkroniano!› esclamò dandogli una pacca sulle spalle. ‹ Il nostro illuminato monarca ci insegna a disprezzarvi come se foste

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