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La figlia di Caino, Volume II
La figlia di Caino, Volume II
La figlia di Caino, Volume II
E-book204 pagine3 ore

La figlia di Caino, Volume II

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Info su questo ebook

Il Golem è ancora libero

Justine lotta contro i propri demoni e perde.

A ogni scontro la sua anima si fa sempre più nera e il mostro che si cela nel suo cuore brama di uscire e di ardere tutto ciò che ha di più sacro e insostituibile.

Riuscirà Justine a liberarsi dalle catene che la trascinano, sempre più a fondo, nel cuore della Conca?

Oppure cederà alle lusinghe della sua crudele anima immortale?
LinguaItaliano
EditoreMyth Press
Data di uscita15 dic 2022
ISBN9788885465183
La figlia di Caino, Volume II

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    Anteprima del libro

    La figlia di Caino, Volume II - Natascia Norcia

    CREDITI

    Prima Edizione Digitale – Ottobre 2022

    Vi invitiamo a visitare la nostra pagina facebook e quella dell’autrice Natascia Norcia e a lasciare un commento sulla vostra esperienza di lettura.

    Qualsiasi riferimento a cose o persone reali è puramente casuale. Alcuni contenuti di questo libro possono risultare espliciti e molto forti. Ne è pertanto consigliata la lettura a un pubblico maturo.

    www.mythpress.eu

    Myth Press® è un marchio concesso in esclusiva a

    Creative Place via Giulio Salvadori 28 – 52100 Arezzo

    Editore Luigi D’Acunto

    Curatore editoriale Mirko Biagiotti

    Redattore Filippo Gliozzi

    Illustrazione di copertina Diana Mercolini

    Autrice Natascia Norcia

    ISBN 9788885465176

    Natascia Norcia

    La figlia di Caino

    Volume II

    A mia figlia.

    Se non saprai in cosa credere, credi sempre in te stessa.

    Prologo

    L’origine del male

    Il fiume scorreva placido e scorre ancora oggi, lambendo le colline e attraversando la conca.

    Aria calda oggi, resa più calda dal fumo delle ciminiere delle tante fabbriche. Aria calda ieri, malsana e irrespirabile a ridosso di un’ampia palude malefica. Si racconta di una piaga malarica, di una orrenda viverna che imputridiva l’aere col suo fiato mefistotelico. Si racconta di una città antica e piena di paure, di uomini e donne che morivano agli angoli bui delle strade o lungo i sentieri di campagna, perché raggiunti e divorati in poco tempo da uno strano morbo; una di quelle malattie che consumano con rapidità tanto voi quanto chi vi sta attorno, una di quelle malattie che talvolta richiedono di scegliere tra il dolore altrui e il proprio. Si raccontano storie. Molte di queste sono pura finzione: sono leggende, metafore di una realtà ben poco poetica e sognante. Si racconta di paure, esorcizzate nella finzione di una indifferenza che poteva solo sciogliersi in mesto pianto tra le mura silenziose di una casa dove si cercava conforto e riparo e il modo migliore per nascondere ciò che non andava rivelato.

    In una data incerta, in pieno Medio Evo, ma sicuramente molti anni or sono, il Consiglio degli Anziani dell’antica città umbra annessa allo Stato Pontificio trovò un giovane coraggioso disposto a sacrificare la propria vita per salvare la città. Il giovane cittadino con la sua spada e lo scudo al braccio, proprio come un San Giorgio che trionfa sull’antico splendore pagano, si diresse risoluto verso la palude per uccidere l’orribile bestia che tanto faceva tremare tutti. Una lotta feroce contro una creatura forse demoniaca, una bestia talmente orrenda da esser quasi fantastica. Era forse la viverna causa della malaria, o il suo ruolo era semplicemente quello di fare da guardiano a qualcosa di ben più dannoso di insetti e acqua putrida? Il drago venne quindi ucciso da quello spavaldo cittadino con la complicità di un sole splendente che accecò la bestia grazie a uno scudo brillante, e finalmente le terre circostanti trovarono sollievo: l’aria si fece respirabile e le valli che circondavano il vecchio acquitrino, inizialmente prive di qualsiasi forma di vita, si riempirono di case e gente rumorosa.

    Può anche essere che la bonifica di quelle terre sia stata resa possibile da dei meno fantasiosi lavori di deviazione di altri corsi d’acqua. Fatto sta che, a prescindere dalle cause, quelle zone non avevano conosciuto prima di allora vitalità alcuna. Realtà ingegneristica o coraggio virile che fosse stato, in quella zona restava comunque qualcosa; restava nel sottosuolo, ormai imbrigliata dalle bonifiche, fin dentro la città stessa, come uno strato di fango immobile, in attesa di ribollire. All’esterno in pochi riuscivano a percepire quella strana aura spettrale che aleggiava dopo il crepuscolo; non c’erano spiegazioni plausibili per il pianto improvviso dei bambini, i balzi dei gatti spaventati nel buio o il belare nella notte delle pecore negli ovili. Il verde delle colline, il profumo della campagna e il sorriso aperto e genuino della gente mitigava quella strana atmosfera lugubre che ogni tanto si faceva strada, serpeggiando tra i più miserabili. E le persone non si facevano travolgere dalla paura, dimenticavano di dover temere qualcosa, di dover diffidare di alcuni strani sconosciuti. Il cuore verde di una terra fatta di apparenza e di illusioni, realtà orribili e finzioni perfette, riuscì nei secoli a mantenere il giogo dell’ignoranza leggero come una piuma.

    Case, templi, teatri, chiese, basiliche. Il tempo trascorreva lento attorno alla conca. I mattoni si accumulavano, creando un concerto di occhi luminosi nella notte. La gente viveva, amava, moriva, continuando a riempirsi la bocca e le mani di buoni propositi e voltando spesso lo sguardo davanti alle cattive azioni. Come ovunque accadeva e come ovunque accade ancora oggi, giusto o sbagliato che sia.

    Ma in alcuni posti, si poteva cogliere una nota diversa, non stonata, semplicemente fuori dal coro. Lungo l’antica via Flaminia, che collegava la conca alla Roma antica, un vecchio lembo di strada rivela ancora antiche pietre, pietre che sotto il sole si infuocano come braci ardenti, mentre alcune restano gelide come ghiaccio; qualcuno dice ci sia seduto sopra uno spirito che non voglia esser disturbato. Sotto gli orti della città di Narni, di fronte a rocche e monasteri immersi nel verde e nel silenzio, pulsa feroce il ricordo di morti violente e ingiuste in nome di un Dio buono e misericordioso. Tra gli alberi dei boschi della Somma la selva cela mistici altari. Nei boschi stanno le bestie, tra i morti stanno i folli, tra la gente stanno i cainiti, ovunque, in modi diversi, ma sempre con lo stesso identico scopo.

    Qualcosa di oscuro aleggia e vive indisturbato nel territorio della bassa Umbria, presenze che tuttavia esistono da sempre, come preservate e plasmate da un fango malevolo, come infettate da una sottile malattia che, per quanto inesorabile, non conduce alla morte, ma a qualcosa di più orribile. E come per il drago e l’eroe che lo uccide, così anche le creature più strane sono state raccontate in modi diversi, talvolta sotto forma di semplici folletti dispettosi per invitare i più semplici a non inoltrarsi in alcune zone da soli. Gente umile e generosa, gli umbri non amano nemmeno metter paura; preferiscono sperare di non incontrare mai nulla che possa turbarli, ucciderli o, peggio ancora, dannarli.

    Era l’anno 1881 quando cominciò a farsi strada il pensiero che tutta quell’acqua che correva rapida lungo le valli andasse usata per qualcosa di utile, oltre che per lavare i panni e bagnare i campi. I telai erano stati collegati alle turbine e il cotone correva veloce dai fusi alle macchine. In breve nacque un piccolo polo chimico e la città iniziò a svegliarsi presto non più solo per andare a vangare la terra. Le sirene delle fabbriche suonavano e la gente correva da tutti i piccoli borghi; l’aspettativa di vita sembrava migliore in città con un lavoro in fabbrica, senza aver sempre la zappa in mano e senza dover sempre badare al tempo. Ma c’era un altro tempo che dettava legge lì dentro, al chiuso: un tempo fatto di noia, stanchezza e, spesso, anche di soprusi. L’euforia per la nascita delle fabbriche travolse tutta la giovane nazione. Correva l’anno 1883, dopo l’Unità d’Italia la commissione di indagine sullo stato delle industrie del ferro aveva scelto Terni come sede ideale di un impianto siderurgico di livello nazionale. Nella decisione avevano pesato favorevolmente l’esistenza di una fabbrica d’armi piuttosto apprezzabile, una fabbrica per manufatti in ferro e tubi in ghisa, e soprattutto la notevole disponibilità di risorse idriche, che si era appena cominciato a sfruttare. La conca aveva acqua, era lontana dal mare e quindi sicura e piena di gente pronta a produrre ferro. Nel 1884 il tale Stefano Breda firmò l’atto fondativo della società degli alti forni e diede il via ai lavori per la realizzazione di una acciaieria di vaste dimensioni; sulla scorta dell’esempio delle grandi fabbriche inglesi, si decise di fare fin da subito le cose in grande. Iniziarono quindi gli scavi per le fondamenta della fabbrica e la gente, soprattutto quella più colta, corse a vedere quello che veniva fuori dalle prime operazioni: resti umani, frammenti di una vita passata molto antica, vasellame, utensili in ferro, e grandi fosse con resti di ossa. Tutto ben raccolto e stipato in casse numerate, i resti umani debitamente sepolti secondo il santo uso cattolico, il materiale catalogato minuziosamente in attesa di finire in un bel museo che negli anni sarebbe stato ignorato dai più. Ma la cosa che più stupiva negli scavi era la presenza del fango: uno strano fango viscido nel sottosuolo, la cui consistenza era con ogni probabilità, secondo gli esperti, dovuta a una falda acquifera e alla presenza di particolari minerali e gas nel sottosuolo.

    Nel tramestio delle innumerevoli persone che lavoravano agli scavi e ai primi lavori di edificazione della acciaieria c’era un ragazzo che si chiamava Rocco. Era molto alto, e per evitare che gli prendessero la vanga alla quale aveva cambiato il manico, per metterlo più lungo, lo aveva dipinto di rosso. Rocco era l’operaio con la vanga rossa. Aveva ventun anni e si dava un gran daffare per spalare terra nel cantiere, nella speranza di essere notato per la sua buona volontà ed essere chiamato a fare poi l’operaio. Ogni mattina, lasciava a casa sua moglie col suo bambino piccolo, e un orticello che aveva deciso di non curare più per vangare terra che non avrebbe dato alcun frutto. Rocco aveva vangato per ore sotto un sole di aprile fin troppo caldo, e ogni poco si fermava per asciugarsi il sudore dalla fronte; forse era davvero troppo caldo in quella primavera esageratamente afosa, o forse era colpa di quegli strani miasmi che salivano dalle zolle rivoltate, come una strana esalazione solforosa. Quel giorno, ormai rimasto solo nel cantiere, quando ebbe assestato l’ultimo colpo lo zelante Rocco, desideroso di cambiare vita, si vide aprire la terra sotto i piedi, come se in una grotta sottostante fosse crollato il soffitto tutto di un colpo. Rocco si ritrovò ad almeno cinque metri sotto terra; sopra di lui, una volta di pietra occhieggiava verso il cielo che andava tingendosi di rosso. Nessuno lo aveva visto cadere e nessuno sembrava sentire le sue grida. Rocco, con le gambe spezzate, rantolava e piangeva con il viso sporco di terra e lacrime, fino a quando la finestra sul cielo divenne scura e illuminata solo da piccoli astri lontani. La moglie intanto aveva messo un piatto a coprire la minestra e iniziava a preoccuparsi per il ritardo. Rocco aveva smesso di piangere; rannicchiato sulla terra gelida, cercava di non avere né paura né freddo, di non soccombere al dolore delle sue gambe rotte, di non credere ai suoi occhi e di non morire di paura. Nell’oscurità della grotta una strana presenza si muoveva, silenziosa e leggera; sarebbe potuto essere un fantasma, un qualche strano spirito di uno dei tanti morti di cui avevano trovato le ossa, magari era proprio l’uomo la cui anima aveva abitato in quel cranio con cui Rocco, assieme ai suoi compagni, aveva giocato a calcio senza alcun rispetto. Ma non era uno spirito, si sa che gli spiriti possono solo spaventare, non fanno del male ai vivi.

    Vestito di un lungo saio logoro e una tipica tonsura da francescano sulla testa, emerge dall’oscurità un uomo dal viso pallido e scavato. Gli occhi sono incavati e cerchiati di scuro e brillano come quelli di una bestia selvaggia; ha mani ossute e bianche con lunghe dita nodose e artigli affilati, il corpo è sottile ed esile ma emana forza, sembra senza vita, eppure dimostra vigore.

    Rocco non riesce a urlare perché il terrore gli stringe la gola, l’uomo si abbassa verso l’infermo e gli parla piano: «Non dovete disturbarci, non dovete mai farlo». Rocco bagna i pantaloni come un bambino spaventato, mentre la strana creatura gli mette una mano sul viso e con l’altra lo solleva a sé; poi, Rocco piomba nella totale oscurità.

    Prima dell’alba Rocco era in piedi nella grotta, stanco e dolorante, ma consapevole di quanto gli fosse appena accaduto: i racconti dei vecchi spesso non erano solo favole, doveva solo trovare il modo di non spaventare troppo la moglie che sicuramente era a casa in ansia perché non era tornato la sera prima. E Rocco la ritrova seduta al tavolo addormentata, quella donna, spettinata e misera come una bambina troppo vecchia, una mano mollemente abbandonata nella culla del suo bambino, che non appena sente il padre che posa lo sguardo su di lui si sveglia piangendo disperato.

    Rocco ha solo il tempo di sentire il pianto di suo figlio un’ultima volta e di vedere il volto di sua moglie sfigurato dallo spavento; non parla, non urla nemmeno, stringendo forte al petto la sua creatura. Rocco comprende che non può restare. Deve solo trovare un posto dove potersi nascondere, dove non poter esser disturbato, dove tutti quelli come lui, da sempre, potevano vivere nell’ombra. Per quel giorno sarebbe bastata la cantina della sua casa, da dove avrebbe sentito la moglie piangere disperata, poi sarebbe dovuto scappare al calar della notte; non avrebbe potuto aiutarlo nessuno, nessuno avrebbe potuto capire o aver pietà di lui, perché lui stesso avrebbe imparato a non averne di nessuno.

    Solitudine

    Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia.

    Jean-Paul Sartre

    Rientrata in casa da sola, Justine si comporta come un automa. Si toglie i vestiti di dosso e li infila in un sacco nero dell’immondizia. Prepara la vasca con acqua calda e sali profumati, e mentre questa si riempie si infila sotto il getto violento della doccia per lavare via tutto il sangue che le è rimasto sul viso, sul collo, sulle mani, per cancellare qualsiasi traccia della nottata appena trascorsa. Acqua che lava i resti di ferite non sue, ma non arriverà mai a ripulire la sua anima, i suoi nervi, la sua testa. Quello che è fatto è fatto, non si cancella.

    Immersa per ore nella penombra, non sa bene se stia dormendo o pensando. Il rubinetto è sempre aperto a mantenere la temperatura dell’acqua sulla soglia del sopportabile per quanto scotti, ma continua ad avere freddo. Gli occhi chiusi, come a cercare conforto nel buio delle palpebre serrate; strani lampi davanti a sé, strane visioni. L’unica cosa certa è che è sola, e non vuole restarci.

    Anche se è quasi mattino, si decide a chiamare Edoardo; non sa dove sia, non sa se è alla Maison, nella Conca o chissà dove. In fondo è l’unica persona che possa rintracciare al telefono, quella che la raccatta da terra e, a modo suo, la consola e non la fa sentire una reietta abbandonata. Eppure stanotte si è abbandonata da sola, da perfetta idiota; ha quasi voluto decretare la sua condanna al macello, senza più un fedele cane da guardia è alla mercé di quell’uomo senza ritegno, di se stessa e della sua indolenza.

    «Sono io»

    «Lo vedo…»

    «Sei nella serra?»

    «Sì…»

    « Dovresti andar via di lì, è quasi l’alba…»

    «Lo so»

    «Edoardo… Ho ucciso André…»

    Un dialogo privo di qualunque tensione.

    «Era ora…» risponde Edoardo che mette giù, senza aggiungere altro.

    Dopo appena dieci minuti arriva a casa il suo mentore, coperto da un mantello fino alle sopracciglia; era a pochi passi da lei, gli è bastato chiudersi due porte alle spalle e aprirne una terza.

    Justine è in piedi davanti alla porta della sua camera; l’ampio accappatoio color glicine la tiene al caldo, per quanto possibile. I capelli sono ancora bagnati, il viso umido di nuovo pianto, trema. Se prima da sola aveva paura, ora, con Edoardo lì davanti, è terrorizzata. Chiamarlo e informarlo di ciò che aveva fatto era il risultato della sua totale mancanza di senno; forse non ne aveva mai avuto.

    Edoardo viene avanti con un ampio sorriso, prima di arrivare da lei la saluta: «Amore mio, lunga notte…», ma appena di fronte a lei la schiaffeggia in pieno viso. Justine barcolla, ma non fa in tempo a cadere che la bestia la afferra.

    La prende per i capelli, si avvicina al suo orecchio e le sussurra con tono soddisfatto: «Adesso sei sola amore mio, sola… Ora nessuno verrà a battere il suo pugno sulla porta… Nessuno ti consolerà quando ti lascerò ansimante… Sei sola… e sei solo mia…»

    A differenza di tutte le altre volte, Justine non si abbandona mollemente al volere del suo padrone: cerca di divincolarsi, sfugge alla sua presa, ma lui la segue per il salotto, un vaso rovina a terra e si frantuma, Justine sta per cadere e si aggrappa a una tenda per sostenersi, staccandola per metà. Non sa per quale motivo stavolta vorrebbe fermarlo, forse è perché sa che, senza nessuno dall’altra parte del muro, difficilmente Edoardo si arresterà. I cuscini del divano volano

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