L'Estate Dei Mondiali
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L’estate dei mondiali narra anche una vicenda personale e familiare complessa, su cui si stagliano l’Italia di Mazzola e Rivera raccontata dagli articoli di Gianni Brera, la musica dei Rolling Stones alla radio e il primo LSD del nostro Paese.
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Anteprima del libro
L'Estate Dei Mondiali - Luca Valerio Borghi
1975).
1.
In quella valle alpina che il fiume Isarco scava da secoli di secoli, un imperatore tedesco fece un giorno inchiodare una fortezza perché fosse a guardia, a giogo, a serravalle degli italiani che minacciavano di riprendersi il Triveneto austriaco nelle guerre ottocentesche. Fu in quella fortezza, diventata italiana dopo la prima guerra mondiale secondo il trattato di Saint-Germain, che il soldato semplice Mario Zuian, friulano di Andreis, entrò in forza al Sesto Reggimento Alpini Brigata Tridentina, il 24 maggio del 1966, prendendo servizio come autiere presso la caserma Garibaldi che occupava il fortilizio.
Era, quella valle, e lo è tuttora, un cuneo di Italia in una selva tedesca, ed erano, quelli, anni crucciosissimi tra italiani e atesini. Coi loro nomi teutonici, svevi, asburgici, con la loro parlata sassone e la loro durezza luterana in un animo cattolico, i germanofoni che vivevano da Bressanone a Prato Drava non volevano saperne di Italia e di italiani, pur trovandosi in una regione dove la maggioranza parlava il toscano o il ladino o un dialetto simile al veneto.
Si era addirittura creata una fazione tutta indipendentista chiamata Südtiroler Volkspartei per fare scudo a sud dell’Adige al seme italico, alla sua lingua senza iati e all’industrializzazione con cui quell’estraneo meridione che era l’Italia incombeva al bucolico Tirolo.
Era in corso un conflitto latente, freddo come la guerra che in quegli anni segava il mondo in due metà di opposti, guerra che in quell’Alto Adige apparentemente quieto ed evangelico fu chiamata dei tralicci
, quando decine di reticolati luciferi che alimentavano fabbriche italiane furono fatti esplodere in buona e cattiva fede. Si rivendicava così, o si credeva di farlo, l’indipendenza di ciò che i barbuti e mostacciuti Kaiser viennesi avevano denominato Deutschsüdtirol: il Sud Tirolo tedesco.
Mario, di tutto questo, sapeva poco o punto.
Quando non guidava le truppe a Monguelfo, a Brunico, a San Candido, da una caserma all’altra della Val Pusteria verso i poligoni di tiro e le esercitazioni, quando non trasportava vettovagliamento, quando non si incolonnava in una lunga fila di mezzi militari che salivano in cima al passo delle Erbe o al passo Furcia per pattugliare la zona o semplicemente per confermare la presenza dell’Arma e dello Stato italiano, Mario non faceva che tenere in ordine l’autocarro, verde come i ramarri che d’estate buttavano la testa nei fori delle rocce lungo i sentieri del suo Bosplans, se lo sentivano arrampicarsi in cima al suo monte Raut.
Quando aveva le sue ore di franchigia, si toglieva il cappello piumato, mangiava un panino con lo speck allo spaccio militare per cinquanta lire e si fumava una Marlboro di Giancarlo, che suo padre l’ingegnere, a Milano, aveva i soldi e a suo figlio gli mandava le stecche intere. Se poi aveva la libera uscita, Mario scendeva con gli altri della camerata giù all’unico bar del paese, a bere una Coca o una piccola Forst con un dito di schiuma in cima.
Ma la cosa che a Mario piaceva fare di più era starsene a guardare la vetta del Sass de Putia incastonato in quella dentatura di granito che si chiamava Dolomiti mentre ascoltava in radio, sul secondo canale, la Hit Parade di Dodo Santi. Niente era come la vista di quella rupe sontuosa e sghemba tra le balze nere, tutta neve e cristallo in una notte di luna alla guardia, e niente era come sentire Paint it black dei Rolling Stones, in radio, mentre lucidava il camion Fiat militare.
A casa, quando sarebbe tornato dopo la naia, lo aspettava un lavoro nella latteria di barba Bepi
, suo zio, se non gli fosse bastato il carattere per scendere dalle forre della Val Cellina, che chi ci viveva ci restava invischiato come un tordo nella ragnaia. Oppure gli sarebbe toccato di andare a cercare lavoro come operaio nelle coltellerie di Maniago o alla Zanussi di Pordenone, dove facevano addirittura i televisori. Ma avrebbe dovuto lasciare sua madre lassù che, sola già senza un marito e senza un figlio, sarebbe rimasta anche senza l’altro se fosse andato via anche lui.
Giancarlo di Milano questa scelta e quella piccola angoscia delle scelte che ti lascia, a volte, fisso nel vuoto ad anelare straniato non l’aveva, lui che il padre gli aveva trovato un lavoro da perito chimico alla Plasmon e che a settembre, finita la leva, tornava a casa e usciva con le ragazze gonna sopra il ginocchio e Campari al Caffè Radetzky, lui che andava a sedersi in tribuna a San Siro a veder giocare l’Inter di Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez e Corso, campione d’Italia.
Anche Francesco detto Ciccio dopo il militare non avrebbe avuto scelta e sarebbe tornato a Cersosimo, in Basilicata, in tempo per la raccolta delle olive e poi per l’aratura e la semina e la raccolta dell’anno dopo, e avrebbe per sempre girato la marra, l’aratro, la tramoggia, il cerniglio nel cerchio del podere del padre e del nonno, come il padre e il nonno e il padre del nonno facevano dai tempi della Magna Grecia.
Giuti invece, che era il matto della camerata, l’addetto alle radiocomunicazioni della Garibaldi, un veneto con la faccia da apache mescalero, avrebbe aperto un laboratorio di riparazioni radio-tv, il primo di Conegliano, lui che aveva già iniziato in caserma a far vedere com’era bravo a mettere insieme i pezzi di tre transistor e tirare fuori una radio che prendeva il secondo canale Rai quando trasmettevano la Hit Parade.
E proprio Giuti, che oltre all’elettronica si vantava anche di sapere come distillare una specie di grappa dalle patate rosse, perché l’aveva visto fare a suo padre coi mosti di Bianchetta trevigiana e diceva che coi tuberi si poteva fare la stessa cosa, tirò fuori una sera l’ampolla giallognola nella quale aveva raccolto forse un quarto di litro di quella sua acquavite di patate e di alcol naturale