La città del jazz
Di Vania Russo
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Anteprima del libro
La città del jazz - Vania Russo
Indice
Introduzione di G. Luca Baldi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e a avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o, se reali, sono usati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone è del tutto casuale e involontario.
VANIA RUSSO
La città del jazz
collana Talia
La città del jazz
si è classificato al terzo posto al Premio Lorenzo Da Ponte
2017
concorso letterario riservato a romanzi musicali inediti.
Copyright © 2018 Diastema editrice
Tutti i diritti riservati.
ISBN 978-8896988-57-2
Introduzione
Un crudele omicidio che ha tutte le sembianze di un’uccisione rituale, scuote un quartiere residenziale della tranquilla provincia veneta. Il corpo di Wilhelm Cat Gatti, noto e apprezzatissimo jazzista negli anni dell’immediato dopoguerra, viene ritrovato reclino sui tasti del suo pianoforte, col collo fratturato e stretto da una delle corde dello strumento.
Siamo nell’autunno del 1978, l’Italia è ancora sotto shock per il sequestro e l’omicidio Moro; in quegli stessi mesi la legge 180, passata poi alla storia come legge Basaglia, decreta la chiusura dei manicomi.
È il capitano dei carabinieri Enrico Verri che viene incaricato di risolvere il caso, un’indagine che lo trasporterà inaspettatamente dalla Treviso degli anni di Piombo alla Genova dei primissimi anni Quaranta. Un viaggio a ritroso nel tempo e nella memoria che gli consentirà di scoprire non solo il colpevole dell’omicidio, bensì anche il mistero della morte di una giovane, avvenuto trentacinque anni prima: Carla Galvani, la talentuosa e bellissima cantante della jazz band della vittima, i Gatti neri, scivolata, secondo i giornali del tempo sui binari della ferrovia mentre tentava di fuggire in Svizzera.
In un’Italia appena entrata in una guerra tanto temuta quanto non desiderata, profondamente ferita dalla promulgazione delle leggi razziali, Genova sembrava protesa verso i suoni che provenivano da oltre oceano, unica via di fuga da quel presente drammatico e soffocante: «Il mare aveva portato una musica nuova dalle Americhe».
Vania Russo con La città del jazz riesce a costruire una storia affascinante che cattura dal primo istante, nella quale la musica è protagonista assoluta. La sua scrittura risuona, con precisione ed efficacia, del jazz degli anni Trenta e Quaranta, ne rende le sfumature, la bellezza, le sonorità. Fa venire davvero voglia di ascoltare la band dei Gatti Neri e di rivivere luoghi e giorni della storia italiana poco frequentati dalla narrativa.
La brezza marina, le voci del porto, i vicoli e i caruggi di Genova, fanno da splendida cornice a questo giallo avvincente che scorre veloce al ritmo di un’improvvisazione jazz.
G. Luca Baldi
Capitolo I
Treviso, settembre 1978
L’abitazione segnalata era in via Filippo Brunelleschi: accerchiata da villette con giardini e palmizi, si distingueva nettamente per il rosso pompeiano delle pareti, che la rendeva simile a una casa cantoniera, una di quelle storiche costruzioni in cui un tempo alloggiavano i cantonieri, cioè gli addetti alla manutenzione dei canton, le vie del Regno d’Italia, case divenute punto di snodo strategico durante il periodo fascista. Alle finestre degli edifici accanto apparivano e sparivano fugacemente le facce stravolte dei vicini curiosi, insospettiti dall’andirivieni dei carabinieri, in divisa color cachi, che avevano scrupolosamente delimitato, con i nastri segnaletici, tutta la zona intorno alla palazzina.
Il giardino dell’edificio, un parco piuttosto ampio, era invaso da alti cespugli, per lo più oleandri dalle infiorescenze viola ormai scolorite, mentre, negli angoli probabilmente più luminosi e soleggiati durante il giorno, s’alternavano macchie di sfrontati settembrini e cuscini di umili violette. Poco oltre, presso la soglia d’ingresso della villa, c’era un legnoso glicine sfiorito, con grappoli già lunghi e gonfi di semi. Scarmigliato e privo di un sostegno sicuro cui avvinghiarsi, restava parzialmente appeso a una pergola sgangherata che faceva da spalliera a un angolo, chiuso da una panchina arrugginita e da due sedie di legno con la seduta in vimini consumata, pencolanti e disusate. L’aria era ricca dell’olezzo sintetico del respiro dell’asfalto ancora caldo e dell’odore resinoso e balsamico delle siepi di cipresso.
Il capitano dei carabinieri scese dall’Alfetta blu e chiuse la portiera. Con la rigidità e la fermezza di un atto dovuto, rimase fermo accanto all’auto e perlustrò la strada con un’occhiata esperta e rapida, quanto bastò a verificare che i suoi uomini, come da protocollo, avessero correttamente provveduto a far transennare tutti gli accessi, piazzando i posti di blocco nelle due direzioni di marcia e, soprattutto, spingendo indietro i curiosi.
Era sera inoltrata, l’aria rinchiusa in un barlume di luce morente e, mentre Treviso si addormentava, era arrivata una chiamata anonima: una voce scontrosa e ruvida li avvisava di aver notato qualcosa di strano in via Filippo Brunelleschi, aggiungendo quei pochi dettagli utili a trovare l’interno, e niente altro.
Così gli uomini del Reparto Operativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Treviso si erano recati immediatamente sul posto, ben sapendo che il primo sopralluogo, e l’eventuale repertamento successivo, erano le fasi più complesse e delicate all’inizio di ogni indagine. Quando il capitano arrivò al portone d’ingresso della palazzina a tre piani, i due carabinieri fermi sulla soglia si tesero come corde di violino, scattando ritti sull’attenti, alzando il braccio destro, mano a visiera, colpo di tacchi, saluto militare.
– Comodi, – disse lui, andando oltre, quasi senza guardarli.
– Capitano, non c’è corrente, – avvisò uno dei piantoni, ricco accento siciliano, porgendogli una torcia d’ordinanza. – Il quadro generale è bloccato, un elettricista sta provvedendo.
– Grazie, Caruso, – rispose, proseguendo solo dopo aver attivato la pila.
Come da regolamento, sfruttò il percorso di entrata e di uscita limitato dai nastri di segnalazione, tragitto obbligato per evitare la contaminazione della scena del crimine. Oltre il portoncino di legno trovò un’anticamera ristretta, arredata con un appendiabiti e un mobile a specchiera, sul ripiano del quale era ammassata in modo scomposto una pila di quotidiani, su cui sbiadivano le notizie sgualcite dei giorni precedenti. Diede una zelante occhiata, scompaginando i giornali con la mano avvolta nel nero del guanto: La Tribuna di Treviso
, Il Gazzettino di Treviso
, Musica e Jazz
; puntò la torcia e il fascio lineare di luce fredda, conica, si agganciò alle scritte e alle immagini in copertina.
– Musica e Jazz, – mormorò incuriosito, sottraendo la rivista al mucchio – 4 novembre 1945.
Era un vero pezzo da collezione in formato tabloid. La copertina ritraeva una bellissima donna, con i capelli raccolti a fare da cornice scurissima intorno a un viso d’angelo, disegnato in un ovale soave, pallido; gli occhi grandi erano spalancati in un impeto di vivacità e gioia, sembravano parlare e sorridevano proprio come le labbra colorate d’un tono marcato, probabilmente un rossetto corallo che il bianco e nero della carta non poteva restituire alla memoria. Prigioniera del fascio di luce appariva come un cereo spettro.
Lesse la notizia poco sotto la foto della donna che titolava L’ultimo canto della Galvani. E continuava con un breve sommario:
A due anni dalla morte di Carla Galvani, virtuosa cantante della Jazz Band Gatti Neri, la verità su quanto accadde sembra dover restare per sempre sepolta con lei e celata ai nostri occhi indagatori.
Scese tra le righe dell’articolo:
Secondo la versione ufficiale, la talentuosa cantante sarebbe scivolata sui binari alla stazione di Milano, battendo mortalmente la testa, mentre cercava di salire in tutta fretta sul vagone che l’avrebbe condotta in Svizzera. Pare che fosse sola. È stato davvero uno sciagurato incidente? Oppure qualcuno ha voluto mettere fine alla vita di questa giovane donna per qualche ignoto motivo? Perché mai si trovava sulle rotaie?
A tutt’oggi non sono ancora stati trovati testimoni disposti a riferire qualcosa sull’accaduto. Arduo è il compito di chi indaga! E la verità langue.
– Capitano Verri…
Si voltò, riemergendo dalla pagina. Gli occhi azzurri, chiarissimi, furono attraversati dal fulgore della torcia che il giovane appuntato teneva inspiegabilmente ad altezza viso.
– Maiano, abbassa la luce, – ordinò rigido.
– Sì signore, subito signore, – eseguì l’altro.
– Dov’è il cadavere della vittima?
– Al piano di sopra, – rispose il giovane carabiniere, in evidente stato d’ansia.
– Qualcosa non va?
– Chiedo il permesso di uscire, capitano. Ho bisogno di prendere aria.
Verri lo fissò con una certa severità, ma non se la sentì di infierire. Il ragazzo tremava come se avesse percepito, anche lui, la presenza di un fantasma.
– Va’ pure, ma vomita fuori dal perimetro della casa, non inquinare la scena. E possibilmente non nei cassonetti o li farò setacciare a te.
– Comandi signore… vado signore…
Uscì di corsa, urtando quasi il superiore. Verri lo fissò con disappunto e poi, evitando di toccare la balaustra dell’ampia scalinata in marmo bianco, iniziò a salire i gradini, facendosi luce con la pila. A metà rampa fu colto dallo spiacevole e ben noto odore post mortem, in quel caso talmente intenso e solforoso da denunciare in maniera inequivocabile che il dramma doveva essersi compiuto parecchi giorni prima.
Iniziò a dare un senso alla reazione del giovane appuntato.
Proseguì, registrando mentalmente ogni cosa, operando in base all’esigenza di quel primo sopralluogo: osservare, individuare, raccogliere tutti quegli elementi utili alla ricostruzione del fatto, elementi che poi sarebbero irrimediabilmente andati persi.
Sulla soglia della stanza fu abbagliato dal flash della macchina fotografica che uno dei suoi uomini stava usando per documentare la scena, i rilievi e tutto il resto. Le numerose torce erano state posizionate per illuminare in modo opportuno il delitto. Si sfiorò gli occhi infastiditi, quindi, tolto il berretto di ordinanza, lo mise sotto il braccio e si inoltrò, valutando la situazione.
Il salone era in ordine. A destra dell’ingresso c’erano un sofà, forse di velluto verde con i braccioli in legno scuro, e due poltrone identiche ai