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Percussor: I delitti del Reame Pisano
Percussor: I delitti del Reame Pisano
Percussor: I delitti del Reame Pisano
E-book223 pagine2 ore

Percussor: I delitti del Reame Pisano

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Info su questo ebook

Reame Pisano, anno 1637. Trecentocinquanta anni dopo la vittoria di Pisa nella Battaglia della Meloria.
Un gruppo di nobili ordisce un complotto per rovesciare Banduccio III della Gherardesca, attuale sovrano ed erede di quell’Ugolino che trasformò l’antica repubblica marinara in un regno. Per metterlo in atto, convocano un potente negromante e incaricano Percussor, il più famoso sicario del reame, di recuperare gli “ingredienti” necessari a lanciare il sortilegio.
Spetta al colonnello dei Reali Moschettieri, il prode Manfredi Gambacorti, e al suo fido aiutante, il mago giudiziario Gentilini, risolvere l’intrigo, coadiuvati da una giovane sensitiva e da un sergente delle Guardie di Città.

Un appassionante romanzo con cui Marco Bertoli gioca con la Storia, dipingendo un magistrale affresco di una Pisa inedita e magica.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2019
ISBN9788831910248
Percussor: I delitti del Reame Pisano

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    Anteprima del libro

    Percussor - Marco Bertoli

    1285.

    PROLOGO

    Mare Toscano, Secche della Meloria, 6 agosto 1284.

    La mattina era splendida. Nel cielo azzurro si stagliava il disco abbacinante del sole che incendiava con una moltitudine di scintille la superficie color cobalto del mare. Dalla linea di costa soffiava una brezza quasi inavvertibile.

    Giornata ideale per navigare, avevano pensato nel soffuso chiarore dell’alba uomini in armatura che adesso, a bordo di cento e più galere, erano impegnati in un combattimento accanito. Sventolando insegne con croci bianche o rosse, le navi erano strette in una mischia furibonda e mortale, dimentiche delle geometriche formazioni mattutine come degli iniziali attacchi di rostro e delle repentine schivate in punta di remo. Ora esisteva soltanto un magma caotico di legname, metallo e carne che spandeva urla belluine, scricchiolii di assi spezzate e stridore di acciaio.

    Giornata ideale per morire, rifletté il Signore generale della guerra di mare Albertino Morosini, mentre apriva con una finta la guardia dell’avversario. Un attimo dopo affondò la spada nel pettorale di cuoio del guerriero che lo aveva attaccato con la sfrontata baldanza della giovinezza.

    La certezza di abbattere quell’avversario dall’aria stanca e canuta sotto lo zuccotto di ferro svanì negli occhi del nemico. Dolorosa sorpresa, cognizione dell’errore commesso, nostalgia di un ultimo bacio si avvicendarono come rapidi barbagli in iridi nocciola, che si spensero nel momento in cui un fiotto di sangue gorgogliò dalla bocca.

    Estratta la lama, Morosini riprese fiato, oscillando il braccio destro, indolenzito dalla fatica e tremante per la tensione. Gli anni che si sentiva addosso cominciavano a esigere il loro prezzo: il prossimo scontro poteva essergli fatale. Scosse il capo per scacciare quel pensiero di malaugurio, quindi approfittò della pausa per detergersi il sudore dal viso e controllare l’andamento dello scontro. L’istinto di combattente e l’esperienza di condottiero lo tranquillizzarono: stava volgendo in favore della sua parte. Lo die di Santo Sisto avrebbe consegnato una nuova vittoria alle armi pisane. Si concesse l’abbozzo di un sorriso.

    «Mio Signore, guardate!»

    Il richiamo risuonò soffocato per via dell’elmo indossato dall’ufficiale che aveva richiesto la sua attenzione, ma l’inequivocabile tono d’allarme lo spinse a voltarsi. Seguì con lo sguardo la direzione indicata dalla mano protesa del comito e il suo corpo rabbrividì sotto la cotta di maglia nonostante la calura agostana.

    Sbucate dal nulla numerose vele interrompevano la piatta uniformità dell’orizzonte: sul fondo bianco spiccava minacciosa la croce carminia di San Giorgio. Erano almeno una trentina e si stavano avvicinando, fameliche di unirsi al massacro.

    *

    Sul palco di comando della galea Orgoglio pisano un vegliardo a capo scoperto osservò pensieroso quell’improvviso, e tuttavia non inatteso, dispiegarsi di velature. Sembravano puntare verso di lui e le navi disposte sulla sinistra dello schieramento della flotta, legni che, in obbedienza ai suoi ordini, erano rimasti ai margini dello scontro, limitandosi a rintuzzare gli svogliati assalti del nemico.

    «Si può sempre contare su Benedetto Zaccaria» commentò all’indirizzo dell’armigero immobile al suo fianco. «Non manca mai all’appuntamento, che si tratti di vendere allume siriaco a Málaga, d’impiantare un nuovo fondaco di mastice a Costantinopoli oppure di fiondarsi in una battaglia navale».

    Avvezzo al sarcasmo di quel viso crudele che confluiva in un naso simile a uno sperone di ferro, il sottoposto non batté ciglio.

    Nulla del conflitto interiore che agitava un animo la cui brama di potere era sostenuta dai pilastri dell’intrigo e dell’inganno trapelò dalla figura del vecchio aristocratico. Tutto il suo travaglio era condensato in un’unica domanda: A quale parola mantenere fede?

    Attese in silenzio, sinché le imbarcazioni avversarie furono a meno di sei gomene di distanza, poi esplose: «Al diavolo! Accada quel che accada».

    Ringhiò un comando. Il guizzo sconcertato di un sopracciglio accolse l’ordine, perché non era quello che l’ufficiale cui era stato indirizzato si aspettava, nondimeno l’uomo si precipitò a eseguirlo, sbraitando con tutto il fiato che aveva in gola: «A pieno bordone!»

    Mentre il tamburo iniziava a scandire un ritmo veloce, le pale di un centinaio di remi s’immersero all’unisono nell’acqua, iniziando la vogata d’attacco. La galea scattò in avanti, tranciando le onde in un ribollire di schiuma.

    Pochi istanti dopo, il resto dell’ala seguì la sua ammiraglia, muta di veltri affamati sulle orme del capobranco.

    1

    Dintorni di Firenze, gennaio 1637.

    Ritta davanti alla finestra dello studiolo, l’alta figura fissava la bufera di neve che imperversava all’esterno. Il turbinio dei bianchi cristalli era così folle da nascondere alla vista non solo i tetti e le strade della città ai piedi della collina su cui sorgeva la villa, ma anche le siepi e i vialetti del prospiciente giardino.

    Nel vetro appannato di condensa si riflettevano boccoli scuri lunghi sino alle spalle e un viso rubizzo in cui spiccavano occhi grandi e sporgenti e una bocca tumida dalle linee sensuali. I baffi dal preciso taglio orizzontale e l’artistico pizzetto a punta rafforzavano l’impressione di lussuria e ricerca della perfezione estetica che promanava dal quarantatreenne cardinale Carlo di Ferdinando de’ Medici.

    Contemplando il vorticare dei fiocchi, l’appesantito ecclesiastico notò che la maggior parte precipitava in completa sottomissione all’immanente legge di gravità. Alcuni, invece, le resistevano, lottando per risalire verso lo strato di nubi grigie, in un palpabile rifiuto di assoggettarsi al proprio destino. In quella ribellione vide espresso il paradigma della propria vita.

    Quale figlio cadetto, le necessità di una famiglia numerosa l’avevano costretto a vestire l’abito talare, tuttavia questa esigenza dinastica non aveva implicato un adattarsi a un’esistenza monotona e casta, scandita nei ritmi da messe, processioni e puzza d’incenso. Non gli interessava tanto il piacevole sollazzarsi con giovani grazie muliebri – le sue inclinazioni erano semmai promiscue e simili a quelle del nipote Ferdinando II, attuale signore del minuscolo Granducato di Firenze – quanto piuttosto il puro godimento che traeva dall’esercitare il potere derivante dalla carica che rivestiva, seguendo il modello del suo fratello in Cristo Richelieu.

    Riscuotendosi da quelle considerazioni personali, il cardinale si girò verso il tepore accogliente della stanza, un gioiellino d’architettura la cui volta a botte era affrescata a grottesche, dominate al sommo dal connubio dello stemma familiare e del galero rosso a trenta nappe del porporato.

    «Dunque, ritenete di avere in mano la prova che non si tratti di una leggenda propalata dagli sconfitti per gettare discredito sul conte in un estremo e futile tentativo di vendetta». Un lieve ondeggiamento meditabondo del capo si associò al tono intimo ma ieratico della voce.

    «Sì, Vostra Eminenza».

    L’interlocutore del Medici era un uomo quasi calvo, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, di statura media e corporatura tarchiata, nonostante l’accorto taglio dei vestiti e lo spesso tacco degli stivali provassero a slanciarla. Nella faccia dai lineamenti insignificanti si notavano dapprima la voluminosa pappagorgia, quindi le sopracciglia congiunte in un’unica arcata, infine gli occhi stretti e tuttavia intelligenti e soffusi da un brillio di esistenziale tristezza.

    «La lettera che ho rinvenuto tra le carte del mio antenato, il barone Betto, lo conferma» proseguì con un accento scandito da un’aristocratica erre moscia. «Ugolino della Gherardesca aveva effettivamente stipulato con i genovesi un patto per tradire Pisa alla prima occasione utile. Tuttavia, quando si venne alla battaglia della Meloria…»

    «Il traditore tradì il suo tradimento, per così dire» lo interruppe l’alto prelato, condendo il salace gioco di parole con il sorrisetto cinico dell’uomo di mondo. «Se vuoi vedere Genova, vai a Pisa si disse, tanti furono i prigionieri che catturaste in quello scontro».

    «Già. Sapete bene quel che accadde in seguito a quella clamorosa vittoria della nostra flotta. Sull’onda del successo, al suo rientro in città Ugolino fu acclamato Podestà a furor di popolo e da lì in capo a tre mesi diede vita al Reame Pisano di cui si autoproclamò sovrano. I suoi oppositori furono gettati in carcere come il mio avo o assassinati come i Lanfranchi e i Gualandi o costretti a scappare come l’Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Anni dopo costui, ormai insediato a Viterbo sotto la protezione del papa, inviò una missiva al suo vecchio sodale Betto, che nel frattempo era stato perdonato e ristabilito nel suo status nobiliare. In essa gli rivelava che il giorno prima della sua fuga precipitosa era venuto in possesso di un documento che attestava l’esistenza del patto scellerato contratto dall’affossatore della Repubblica e che lo aveva nascosto con la speranza, ahimè mai realizzata, di poterlo utilizzare per rovesciare Ugolino. Il mese scorso, controllando in una vetusta raccolta di scartoffie familiari, ho rinvenuto la lettera in questione».

    «Capisco» commentò Carlo di Ferdinando. «Un ritrovamento di un qualche valore aneddotico, lo ammetto, tuttavia di scarsa utilità per principiare una ribellione atta a cacciare via da Pisa Banduccio III. Convengo che il vostro regno stia attraversando una situazione difficile che rende il trono traballante. La crisi economica dovuta alla guerra contro i protestanti intrapresa dal vostro alleato Luigi XIII di Borbone provoca ambasce all’aristocrazia e le tasse aumentate a dismisura fomentano il malcontento del popolo minuto, ma quale signoria non ha incontrato simili tribolazioni nel corso della sua storia, superandole indenne? La stagione è propizia, il terreno è favorevole, però occorre anche, e soprattutto, il seme adatto a germogliare, altrimenti si resta nell’ambito delle pie illusioni di anime candide».

    Una breve pausa, le dita paffute congiunte sotto il mento, aggiunse mellifluo: «Salvo che non si possieda il documento originale cui fa cenno l’Arcivescovo, non vedo in che modo io e quanti la mia umile persona rappresenta possiamo esservi d’aiuto: nella nostra posizione il gioco deve sempre valere la candela».

    Il repentino bagliore di sbalordimento nello sguardo del pur guardingo barone Giulio Tidi gli confermò la giustezza dei propri sospetti, per cui colpì deciso.

    «Non offenderò la vostra intelligenza prospettando la possibilità di esibire un banale falso che un mago da quattro soldi smaschererebbe in un battibaleno. Mi domando, allora, perché mai un nobile pisano abbia sfidato le bufere di un gelido gennaio, i pericoli del viaggio e la presumibile sorveglianza delle spie del suo monarca per venire a Firenze a riferirmi del ritrovamento di un’antica epistola».

    «La fama del vostro acume intellettuale non è per nulla immeritata, Vostra Eminenza» esclamò l’aristocratico, con un piccolo inchino del capo che gli consentì di celare il sorriso di soddisfazione per essere riuscito ad attrarre l’attenzione del cardinale. «Purtroppo devo deludervi: non sono in possesso della documentazione nascosta dall’arcivescovo. Ritengo, tuttavia, di aver trovato la maniera per scoprirne il nascondiglio, per quanto non oserei definirla ortodossa».

    Un aggrottarsi stupito di ecclesiastiche sopracciglia accolse quell’asserzione.

    Conscio dell’urgenza di soppesare ogni vocabolo, poiché stava per addentrarsi tra infide sabbie mobili, il barone riprese.

    «Dovete sapere che, pur non essendo fornito del Dono, a tempo perso mi diletto con lo studiare la magia nei suoi aspetti più… diciamo bizzarri». Avvertì netta la sensazione di essere trafitto da occhi improvvisamente inquisitori, per cui si affrettò a chiarire. «Niente di perverso, credetemi, solo un innocente trastullo per riempire le noiose giornate di un inutile vecchietto con troppo tempo libero a disposizione. Comunque sia, durante le ricerche a volte mi capita d’imbattermi in fatture dimenticate oppure in sortilegi mai sperimentati perché richiedono ingredienti ardui da reperire. Nella fattispecie, di recente ho acquistato da un mercante ebreo un antichissimo testo di magia babilonese, nella sua traduzione in lingua alemanna a opera del famoso occultista Johannes Hartlieb. Al suo interno, mimetizzato come un camaleonte tra malie di amore e prodigiose panacee, ho scoperto un incantesimo che dovrebbe consentire di evocare…»

    «Badate alla vostra lingua! Avverto la puzza mefitica della magia nera in quello che vi accingete a proferire. Per quanto avvezzo alle macchinazioni della politica e alle sozzure mondane, rammentate che rimango pur sempre un Principe della Chiesa!» lo redarguì truce Carlo di Ferdinando, ergendosi in tutta la sua altezza per sovrastare l’aristocratico.

    «Ne sono pienamente edotto, tuttavia mi permetto di ricordarvi il fine supremo della causa per cui sto impetrando il vostro aiuto. Non fu un illustre fiorentino a scrivere che: Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna?»

    Un cenno sgarbato delle dita incoraggiò Giulio Tidi a proseguire lungo quel sentiero, divenuto sottile come un filo sospeso sopra un baratro.

    «Come stavo spiegando, il sortilegio permetterebbe di richiamare su questa terra lo spirito di un defunto…»

    «Sento sempre più forte il tanfo ributtante della negromanzia e l’olezzo salvifico del rogo» lo interruppe di nuovo il prelato, sibilando e gonfiandosi nell’abito talare, il cui rosso rivaleggiava con quello delle sue guance. «Per il mio ufficio ho avuto purtroppo a che fare con tale schiatta di perfidi stregoni e conosco i limiti entro cui la Bontà divina ha sigillato i loro maligni poteri. In primis è necessario che abbiano a disposizione i resti di chi vogliono evocare, in secundis che costui non sia morto da più di un secolo».

    «Mi compiaccio per la vostra preparazione al riguardo» chiosò con un irrefrenabile guizzo di sarcasmo il nobile pisano. «Con tutto ciò, l’incantesimo in questione è così potente da travalicare i vincoli temporali. Per quanto riguarda le spoglie dell’Arcivescovo Ruggieri…»

    «Tacete!» intimò il Medici di scatto, serrando tra di loro le mani con una violenza inattesa. Le nocche sbiancate testimoniavano l’intensità dei ragionamenti che si accavallavano nelle sue meningi. Un lungo sospiro sancì la fine di un sofferto arrovellio mentale e di coscienza. «Se anche fosse, chi mai potrebbe operare un simile incanto? Immagino che occorra un negromante di grandi capacità, un arcimago per intenderci, ma non mi risulta che ve ne siano nella penisola: la Santa Inquisizione sa svolgere bene il proprio compito».

    «Vero, per questo avrei pensato a Serhan Kurtoglu, uno stregone turco nativo di Izmir: un’autorità indiscussa nel praticare le arti oscure. Secondo i miei informatori, è gradito ospite alla corte di Hammuda Pascià, il Bey di Tunisi, il quale notoriamente intrattiene rapporti amichevoli con la vostra casata» fu la pronta risposta.

    Calcolo e cupidigia s’irradiarono nelle pupille di Carlo de’ Medici, che mormorò sedendosi: «Accomodatevi, barone: abbiamo molto da discutere».

    2

    Pisa, 20 marzo 1637. Mattina.

    La scrivania si ergeva imponente.

    Emergendo come uno scoglio dal pavimento di marmo, dominava la scena dell’ufficio, relegando al ruolo di insulse comparse le librerie, gli scaffali e i cassettoni che arredavano il locale. Le incisioni e gli intarsi della modanatura, concepiti dal creatore per ingentilire l’aspetto dello scrittoio, ottenevano invece l’effetto opposto, esaltando il senso di possanza sprigionato dal mobile. Un’impressione d’autorevolezza non intaccata neppure dalle pile di documenti e dalla congerie di suppellettili che ne ingombravano la superficie in un apparente caos primigenio.

    L’individuo seduto al lavoro, gomiti appoggiati sul ripiano, tacchi degli stivali di pelle nera alti sino a metà coscia strofinati su un poggiapiedi in pregiato cirmolo, costituiva il perfetto complemento d’arredo della scrivania.

    Il colonnello dei Reali Moschettieri Manfredi Gambacorti era giunto a un pelo dalla metà del percorso temporale che separa il quarantesimo dal cinquantesimo anno senza risentirne gli effetti. Altezza

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