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E-book292 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Uno spietato cacciatore di taglie, un apache in fuga, un pilota di astronavi, un investigatore privato nei guai, due belle ragazze confuse, un casanova palestrato, un uomo senza memoria di cui si conosce solo l’iniziale del nome, K., una sarta maltrattata dal marito alcolista, un bambino che sembra molto più maturo della sua età: personaggi che vengono da epoche differenti e luoghi diversi, senza spiegazione e all’improvviso, si trovano misteriosamente proiettati in un nuovo, strano “mondo”. Un insieme eterogeneo e mutevole di ambienti, dove c’è sempre un dettaglio che “non torna”, non in sintonia con le leggi della fisica e della natura. Come se non bastasse, un’oscura minaccia sembra incombere costantemente su tutti loro, in un crescendo di tensione che farà emergere i lati migliori o peggiori di ciascuno. Ma la realtà è ancora più terribile e difficile da accettare.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2018
ISBN9788866904595
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    Anteprima del libro

    OMNILAND - Giancarlo Ibba

    Giancarlo Ibba

    OMNILAND

    EEE-Book

    Giancarlo Ibba, Omniland

    © EEE – Edizioni Esordienti E-book, 2018

    Prima edizione

    ISBN: 9788866904595

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina: servizio grafico di EEE-book.

    Disegni interni di Denis Lanaro.

    A Sergio, Alfred e Stanley

    «Cosa potrò mai trovare in un cervello sfiorito e vuoto che valga la pena di essere scritto?»

    Victor Hugo

    OUVERTURE

    0.0 -AL LARGO

    «Ti prego, non farlo!» supplicò il vecchio, davanti all’ufficiale nazista, mostrando i palmi. Nonostante l’età e la voce arrochita, le sue mani non tradivano il minimo tremore. «Posso spiegarti tutto.»

    L’hauptmann S.S. Hans Falk scosse la testa, facendo tintinnare la canna brunita della sua Luger contro i denti, bianchi e perfetti.

    Distese le labbra in un sogghigno, poi esclamò: «Heil, Hitler!»

    Premette il grilletto. Il proiettile attraversò il palato molle e la sua testa esplose, facendo schizzare in aria il berretto con visiera.

    Atterrò ai piedi del vecchio, con un tonfo flaccido, il distintivo a forma di teschio grondante di sangue e grumi di cervella. Subito dopo, il corpo del nazista crollò sulle pietre bagnate del ballatoio.

    I piedi, dentro gli stivali lucidi, scalciarono ancora per un attimo.

    «Perché la verità è così difficile da accettare?» si domandò il vecchio.

    Sollevò il capo e rivolse lo sguardo verso il mare in tempesta.

    Nonostante il cappotto pesante, i pantaloni e il maglione di lana a collo alto, rabbrividì. In cima al faro, un gelido vento salmastro fischiava tra le inferriate di sicurezza che delimitavano il balcone circolare. Cento metri più in basso, sotto un sudario di foschia, le onde dell’oceano si abbattevano fragorosamente contro gli scogli. Schiuma biancastra frizzava negli anfratti, spazzando gli ammassi informi di alghe morte e i grotteschi artropodi che se ne cibavano. Il rumore prodotto dalle loro grandi chele era simile a un applauso svogliato. Una barriera di nubi tempestose, farcite di tuoni fragorosi e lampi azzurrognoli, circondava l’intero orizzonte marino.

    Il clima e il paesaggio erano sempre gli stessi, in quella zona.

    Suo malgrado, da molto tempo, l’uomo si era ritrovato costretto a svolgere la solitaria mansione di guardiano del faro. Un faro che segnalava pericoli ben più sconvolgenti di quell’isolotto roccioso.

    Il vecchio strizzò le palpebre e aguzzò la vista verso i confini del suo ristretto mondo. Ventagli di rughe gli si formarono ai lati degli occhi. Una sola lacrima gli solcò il viso, strappata subito via dal vento, incessante, tagliente come un rasoio. Si aggrappò alla solida balaustra di ferro, incrostata di sale, cercando il coraggio di buttarsi.

    Le sue dita nodose, ancora macchiate di vernice gialla, verde e rossa, si strinsero con forza. Da quell’altezza, la microscopica isola basaltica su cui si ergeva il suo solitario faro sembrava poco più di un fazzoletto di terra sterile e roccia frantumata dalle intemperie.

    «Merito questo destino?» domandò il vecchio, sporgendosi.

    Un rumore meccanico gli impedì di formulare una risposta.

    Nella luce livida dell’eterno crepuscolo, il potente fascio di luce rotante della lanterna alle sue spalle illuminò la cresta dei marosi e si riverberò nei fitti banchi di nebbia. Il faro non aveva necessità di manutenzione. La dispensa restava sempre piena e la corrente, per quanto non ci fossero linee elettriche, non era mai mancata. La sua presenza in quel luogo dimenticato, tutto considerato, era superflua.

    Fin dall’inizio, non aveva mai avvistato nessuna nave al largo.

    Anche perché, come aveva scoperto, non esisteva un al largo.

    Al termine di una dolorosa riflessione, con passo malfermo, il vecchio si staccò dalla ringhiera e raggiunse la porticina di metallo che conduceva verso la ripida scala a chiocciola che s’inerpicava all’interno del faro. Prima di chiudersela alle spalle, lanciò un’ultima occhiata al corpo dell’ufficiale nazista, riverso sulla balconata.

    Non c’era alcuna ragione di sbarazzarsene, gettandolo in mare, o seppellendolo da qualche parte. Tutta fatica sprecata, come ben sapeva. Durante i lunghi anni che aveva trascorso in quel luogo, ne aveva compreso alcune delle bizzarre regole e assurdi meccanismi.

    Discesi con calma e prudenza le centinaia di gradini, rischiarati a intervalli regolari da piccole lampade rosse incastonate nella parete scrostata, il vecchio entrò nel suo modesto alloggio. L’ambiente era ricavato nel solido cubo di cemento armato che faceva da piedistallo allo svettante cilindro, tinteggiato a strisce bianche e rosse, sopra la sua testa. L’arredamento dell’alloggio, per quanto fosse incredibile, era l’unico legame con un passato che desiderava dimenticare.

    Appeso il cappotto a un gancio, il vecchio si accasciò nella sua poltrona, di fronte a un camino scoppiettante. Scrutando le fiamme accarezzare i ciocchi, ebbe la nitida premonizione che tra non molto avrebbe avuto altri visitatori. A parte Hans, il fanatico nazista, da diverso tempo non era arrivato più nessuno al faro. I sopravvissuti, ultimamente, erano sempre meno. Neppure uno, dopo aver appreso la verità, aveva deciso di andarsene. Tutti quelli rimasti o erano stati fagocitati dalle Ombre Striscianti o avevano finito con l’uccidersi a vicenda o, come Hans, si erano suicidati. La solita, triste storia.

    Nel piccolo ambiente, saturo di fumo, il vecchio tossì e iniziò a piangere. La solitudine forzata e le troppe delusioni l’avevano reso debole. Irritato con se stesso, asciugò le guance con un fazzoletto, poi alzò gli occhi dal fuoco e fissò la piccola cornice, posata sulla mensola del focolare. Non conteneva una foto ricordo di famiglia: era il ritaglio ingiallito della prima pagina di un quotidiano.

    Con sguardo lucido, sotto le folte sopracciglia, l’uomo lesse per l’ennesima volta quel misterioso titolo a caratteri cubitali e aspettò l’arrivo dei suoi prossimi ospiti. Non c’era un se, solo un quando.

    DIVERGENZE

    0.1 Elko County, Nevada, 1985

    Era arrivato tardi per salvarla, ma in tempo per vendicarla.

    Oscillando sulle ginocchia molli, John Layout indietreggiò verso la porta aperta, una mezza sigaretta Marlboro spenta nell’angolo del solito sogghigno arrogante. Nella mano destra stringeva il pugnale da combattimento che aveva sottratto al cadavere semicarbonizzato di un vietcong, molti anni prima. Un souvenir della guerra. Adesso, come allora, non provava nulla. Soltanto un vuoto emozionale che gli implodeva nell’anima. Deglutì saliva densa come uno sciroppo.

    Non doveva finire così..., rifletté. Ho commesso un grave errore.

    Una raffica di vento umido sibilò attraverso la porta fracassata, scuotendo le falde logore del suo impermeabile. Layout rabbrividì.

    Prima di levarsi di mezzo, osservò a lungo i due cadaveri nudi.

    Lui: schiena squarciata, prono sul pavimento di linoleum.

    Lei: gola tumefatta, stesa sopra il letto stropicciato.

    Impronte di fango e schizzi di sangue dappertutto.

    La camera di quello schifoso motel, al margine della strada che attraversava quel brullo tratto di deserto, all’improvviso gli apparve soffocante. Quelle quattro pareti sembravano chiuderglisi addosso. Doveva uscire di lì. Subito. Le urla della sua vittima, anche se brevi e soffocate, potevano aver allarmato qualche piazzista viaggiatore, un camionista insonne o quel brutto ceffo baffuto del gestore.

    Niente di strano se avessero chiamato il 911.

    Non c’era tempo perdere. La frittata era fatta, ormai.

    Dietro le sue spalle squadrate, la pioggia percuoteva il cadente porticato di legno e lamiera che collegava le varie camere in una struttura a U. Folate d’aria entravano nella stanza, facendo oscillare il lampadario a cono agganciato al centro del soffitto. Il televisore nell’angolo, con lo schermo impiastricciato di rosso, trasmetteva un filmino porno senza audio. Non che facesse una grande differenza.

    Dietro le tende dell’unica finestra esplose il bagliore di un lampo.

    All’improvviso, la brutale ineluttabilità del suo gesto lo dilaniò.

    «Il tuo era un piano del cazzo. Sei soddisfatto, adesso?»

    Barcollando, Layout mormorò queste parole con voce rotta. Gli angoli degli occhi cominciarono a bruciargli, come se ci fosse finito dentro del sale. Tirò fuori dalla tasca interna dell’impermeabile uno Zippo d’argento, lo fece scattare e accese quello che avanzava della sigaretta. Il fumo azzurrino gli annebbiò il volto, scavato dalle rughe e dai ricordi. Quando aveva iniziato la carriera dell’Investigatore Privato, qualcosa come un migliaio di anni prima (subito dopo il Vietnam), non immaginava certo che sarebbe arrivato a questo.

    E dire che di fantasia non ne aveva poca. Il piano era semplice: assoldare una puttana e usarla come esca per incastrare, tramite foto compromettenti, il pezzo grosso di una nota società farmaceutica.

    Il consiglio di amministrazione voleva costringerlo a dimettersi.

    L’uomo era sposato, ebreo ortodosso e padre di cinque figli.

    All’inizio le cose erano andate abbastanza bene. Il tizio, un orso spelacchiato con il pancione da bevitore di birra, aveva abboccato. Lei, poco più che una ragazzina scollacciata, l’aveva agganciato in un fumoso locale dove il jukebox suonava soltanto musica country.

    Convincerlo a scortarla in quel motel era stato un giochetto.

    Come da accordi, Layout li aveva seguiti senza farsi notare e si era appostato fuori dalla finestra, armato di macchina fotografica.

    Dopo un paio di bicchierini, i due avevano iniziato a spogliarsi. Nascosto nell’ombra, Layout aveva preso a fare foto su foto. Poi… qualcosa era andato storto. Dannatamente storto.

    La ragazza si era messa a ridacchiare, come una tossica strafatta, indicando le parti basse. Il tizio si era incazzato come una bestia. La faccia stravolta dalla rabbia, le aveva sferrato un diretto alla gola.

    Gli occhi fuori dalle orbite, boccheggiando come un pesce rosso fuor d’acqua lei era piombata sul letto. Incapace di gridare aiuto.

    Prima che Layout lasciasse cadere sulle assi del portico la sua Canon New F-1 e forzasse la serratura con un calcio, era già morta soffocata. Ignorando l’uomo al centro della stanza, si era precipitato dentro, accompagnato da una ventata d’aria gelida. In silenzio, le aveva tastato la carotide, pur sapendo che ormai era troppo tardi.

    Pallido come un lombrico, grasso e molliccio, il tizio non sembrò preoccupato dalla sua irruzione.

    «Non ride più ora…» aveva detto.

    A quel punto, come in guerra, lui era uscito fuori di testa.

    Dato che non portava mai la pistola, aveva adoperato il pugnale.

    Quello, invece, lo teneva sempre con sé. Per ogni evenienza.

    Tutto questo era successo neanche cinque minuti prima.

    Layout scrollò il capo, uscì, raccattò la macchina fotografica e attraversò il portico. La schiena curva, corse sotto la fitta pioggia battente che sommergeva il parcheggio davanti al motel. Una fila di lampioni, collocata ai bordi del piazzale, illuminava le pozzanghere di un giallo malsano. C’erano soltanto quattro auto in sosta, oltre al suo fuoristrada Nissan. Traffico e affari scarsi, quella schifosa notte.

    Sguazzando tra le pozze melmose, Layout infilò il pugnale nel suo fodero, cucito nell’impermeabile. Indifferente all’acqua fredda che gli infradiciava i vestiti e gli penetrava negli scarponi, raggiunse il suo veicolo. Salì a bordo. Gettò la Canon sul sedile posteriore.

    Serrò lo sportello, infilò le chiavi nell’accensione e riprese fiato. Il volto fradicio, osservò il buio paesaggio oltre il parabrezza. Lontano, tra le colline, lampeggiarono delle luci blu e rosse.

    Non si era sbagliato: qualcuno aveva avvertito la polizia.

    Le stesse persone che adesso, probabilmente, stavano spiando le sue mosse da una delle tante finestre affacciate sul parcheggio. Farsi beccare sulla scena del crimine sarebbe stato da stupidi.

    Layout avviò il motore, ingranò la marcia e partì, innalzando enormi spruzzi d’acqua fangosa, in direzione contraria a quella da cui sopraggiungeva la pattuglia della polizia. La strada, viscida e tortuosa, si snodò veloce davanti ai suoi occhi arrossati per la fatica.

    Dopo aver guidato a fari spenti per un miglio, orientandosi con la scarsa luce lunare che riusciva a penetrare la coltre di nubi temporalesche, Layout superò la cima spoglia di un’altura rocciosa.

    Più avanti, la strada a due corsie serpeggiava sul margine di un precipizio, una profonda cicatrice nel deserto del Nevada. Dall’altro lato, un costone di arenaria s’innalzava verso il cielo tempestoso.

    Layout accese gli abbaglianti, inondando di luce bianca l’asfalto umido. Proprio in quel momento, qualcosa attraversò la carreggiata.

    Qualcosa di grosso.

    D’istinto, Layout imprecò e sterzò a sinistra per evitarlo.

    Oramai senza controllo, le grosse ruote che sibilavano, la Nissan sbandò sulla banchina scivolosa e puntò dritta verso il nero abisso.

    0.2 Deserto di Chihuahua, Texas, 1870

    Nel bel mezzo del lungo inseguimento, una folle corsa (prima a cavallo, poi, quando le povere bestie erano morte di fatica, a piedi) tra distese alcaline e riarsi arroyos, l’unico indiano della Banda dei Cappelli Neri scampato al massacro di El Paso, si fermò e girò su se stesso. Con un gesto repentino, sfruttando la rotazione, sfilò dalla cintura il suo acuminato coltello da caccia e lo scagliò contro l’inseguitore. L’arma dell’indiano, già noto agli sceriffi della zona come Cane Zoppo, volò dritta verso il cuore dell’avversario.

    Nove volte su dieci, centrava il bersaglio.

    Joe Estevez, il cacciatore di taglie che lo tallonava, sollevando sbuffi di polvere rossiccia con i logori stivali di cuoio, non era certo uno sprovveduto. Vide il coltello sfrecciare nell’aria torrida e tersa, catturando riflessi di sole sulla lama. In un attimo, senza rallentare il ritmo della falcata, estrasse la sua Colt Navy dalla fondina e sparò due colpi, in apparenza senza prendere la mira. Non gli serviva.

    Era tutta una questione di riflessi e coordinazione.

    Il suono secco degli spari riverberò sulle pareti della stretta valle.

    Quasi nello stesso istante accaddero due cose.

    Cane Zoppo stramazzò nella sabbia rovente e un metallico TINK! risuonò nell’aria statica di quel pomeriggio. Prima ancora che l’eco delle esplosioni si perdesse in lontananza, rimbalzando sugli enormi macigni scolpiti dal vento che facevano da palcoscenico al mortale duello, il coltello cadde spezzato sul suolo arroventato del deserto.

    Joe rallentò il passo, rimpiazzò rapido i due proiettili esplosi e si avvicinò cauto al cadavere dell’indiano, puzzolente e impolverato.

    «Ah-ah! Alla fine ti ho preso, lurido cagnaccio!» esclamò.

    La canna della Colt fumava ancora quando la rinfoderò, facendo piroettare il ponticello sull’indice con grande abilità. La larga falda del cappello Stetson delineò una netta ombra obliqua sui suoi occhi. La pelle rugosa cotta dal sole e la barba ispida rilucevano di sudore.

    Oltre al malloppo, incasserò anche la taglia di questo bastardo.

    Dopo aver sputato per terra uno schizzo di saliva nero di tabacco da masticare, Joe si asciugò le labbra screpolate con la manica della camicia e allungò uno stivale verso il corpo immobile dell’indiano, prono nella polvere, con l’intenzione di farlo rotolare sul fianco.

    Voleva vedere dove l’aveva colpito... ma non ci riuscì.

    Il cadavere dell’indiano, con una movenza da acrobata circense, scattò in ginocchio e gli afferrò con entrambe le mani il piede ancora sollevato. Poi si sollevò di scatto, facendolo piroettare a mezz’aria.

    Joe cadde pancia a terra, sbattendo la faccia sul pietrisco. Attonito (ma anche vagamente ammirato), cercò di voltarsi e estrarre la Colt. Ma Cane Zoppo, rapido come un crotalo, gli saltò sul dorso e con le ginocchia gli bloccò le braccia contro i fianchi.

    Un secondo dopo, lo afferrò per i capelli untuosi, gli strattonò la testa indietro e gli appoggiò sulla gola esposta la lama gelida di un altro coltello, che teneva nascosto sotto la vecchia giubba militare.

    Le mostrine dorate da tenente luccicavano sotto il sole a picco.

    Una goccia di sudore colò dal mento ispido di barba di Joe sulla lama. Lo Stetson era volato via e giaceva capovolto a pochi passi.

    Un avvoltoio volteggiava su di loro, emettendo versi striduli.

    Deglutendo un grumo ruvido di tabacco e polvere, inchiodato al terreno, il cacciatore di taglie puntò

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