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Fiori misti
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E-book146 pagine2 ore

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L’8 settembre 1943, storica data dell’armistizio tra l’Italia e le forze di liberazione, ha inizio il diario del militare Giuseppe Fazzari, un emozionante resoconto dell’inferno nel quale si è trovato coinvolto durante la prigionia nei campi di concentramento tedeschi. Giuseppe è di Bella di Nicastro (ora Lamezia Terme), ha solo ventiquattro anime con un linguaggio semplice e tocchi di elevata umanità ricorda i maltrattamenti e i patimenti vissuti in quel buio periodo, ma anche le sue speranze di riappropriarsi del suo futuro, di riabbracciare i propri cari, di avere la possibilità di amare ed essere amato. Dietro l’angolo, purtroppo, vi è ad attenderlo un amaro, crudele destino. Una storia commovente, una autentica testimonianza di uno dei più discussi e tragici eventi della storia italiana e mondiale, una lezione che induce a meditare anche il lettore più distratto. Demetrio Russo completa la fotografia di quegli anni con una carrellata di storici personaggi lametini, come “Donna Rosina”, (alias Cirrilla), una signora modesta e umile che si lascia incantare dall’illusione di una vita migliore al di là dell’oceano, “Migni-Mogni”, sordomuto presente dietro a ogni feretro nei cortei funebri cittadini e che si diverte a prendere in giro i suoi compaesani, il professor Diego Menniti, medico di grossa levatura scientifica e presunto superstizioso, e tanti altri che l’autore ha evocato per renderli indimenticabili.

Demetrio Russo, direttore di banca in pensione e giornalista-pubblicista, è nato nel 1937 a Reggio Calabria. Conseguita la maturità classica entra in banca dove ricopre diversi ruoli, chiudendo la carriera con la qualifica di direttore di filiale. Dedica il tempo libero alla lettura di libri e quotidiani. Segue il calcio e nel 1958 diventa collaboratore della “Gazzetta del Sud” di Messina, scrivendo da Lamezia Terme fino al 1994. Saltuariamente scrive anche di cronaca, coprendo i periodi di assenza dei colleghi. Ha collaborato con altri quotidiani trasmettendo loro servizi in occasione d’importanti manifestazioni sportive ospitate in città e nel circondario. Sposato con Francesca Diaco, ha quattro figli e da questi sei nipoti. Appassionato di curiosità e storielle locali, dal 2005 cura sul periodico lametino “Storicittà” una sua rubrica, dal titolo Personaggi nostrani tra storia e umorismo, in cui traccia un profilo biografico di quei lametini del passato protagonisti di aneddoti particolarmente simpatici. E altro spazio Ridimu tra nua (ridiamo tra di noi), dove offre ai lettori perle di umorismo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2019
ISBN9788855085304
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    Anteprima del libro

    Fiori misti - Demetrio Russo

    Libri

    Recensione a cura del Professor Francesco Sisca

    Quel maledetto appuntamento col destino è un lavoro letterario del giornalista Demetrio Russo che si propone di portare alla luce episodi sconcertanti dell’ultima guerra mondiale. Una lezione che fa meditare qualsiasi lettore, anche il più distratto.

    Protagonista è un giovane lametino, Giuseppe Fazzari, che il 21 aprile 1945 perse la vita in Germania, dove era prigioniero di guerra, dopo aver combattuto in Grecia per la Patria, che amava teneramente e profondamente. Morì quando sentiva istintiva la gioia di vivere!

    Una storia commovente, espressa con un linguaggio semplice e con tocchi di elevata umanità. E io l’ho letta con l’animo angosciato giacché mi ha fatto ricordare la mia Via Crucis di quel tempo. Ero militare, abbandonato, dopo l’otto settembre 1943, alla caccia dei nazisti, che mi cercavano per mandarmi in Germania nei campi di concentramento. Fortunatamente io riuscii a evitarli con l’aiuto di Dio, al quale mi rivolgevo continuamente. Comunque arrivai a casa dopo vari mesi di cammino, di sofferenze indescrivibili e di pericoli mortali.

    Russo, cogliendo con acuta sensibilità umana immagini di quei tempi, ha continuato con uno scenario vario di personaggi lametini come Donna Rosina, (alias Cirrilla), una signora modesta e umile che si dedicava, come una mamma, ai bambini del suo rione che di giorno rimanevano soli, perché i genitori andavano a lavorare nei campi; Anselmo Cosentino, una figura paesana che sapeva servire e amare la famiglia Statti, di cui era maggiordomo; Antonietta Ariosto, popolare per il buon sapore che sapeva dare al pane che panificava nel suo forno a legna; Nicola Rocca, memorabile per i suoi sorrisi aperti e generosi, per il suo contatto cordiale con la gente e per la sua arte artigianale, e tanti altri che Demetrio Russo ha evocato per renderli indimenticabili, perché hanno lasciato testimonianze di vita genuina, di buone regole tradizionali.

    FRANCESCO SISCA

    "

    Giuseppe Fazzari, primo di sette figli di Giorgio e Annunziata Mammoliti, caporalmaggiore del 48° Reggimento Artiglieria dislocato sul fronte greco nella seconda guerra mondiale, durante la prigionia nei campi di concentramento tedeschi ha vergato di proprio pugno - per come poteva e sapeva, avendo frequentato soltanto le prime classi elementari - un interessantissimo resoconto dei drammatici avvenimenti nei quali si è trovato coinvolto. Il resoconto, in cui il militare da Bella di Nicastro (ora Lamezia Terme) ha descritto, con semplicità e coinvolgente stato d’animo, la dura prigionia e i patimenti vissuti in quel buio periodo di storia italiana e mondiale, ha inizio l’8 settembre 1943. È la data dello storico armistizio tra l’Italia e le Forze di liberazione, accordo in realtà firmato giorni prima a Cassibile (Siracusa) dal generale Castellano, su incarico del Maresciallo Badoglio, per l’Italia, e dal generale Bedell Smith, delegato all’uopo dal generale Eisenhower, per gli Alleati. L’ultima pagina del resoconto porta la data del 19 aprile 1945. Due giorni più tardi, in occasione del tragico evento, il manoscritto è stato raccolto e custodito con amorevole cura da alcuni suoi commilitoni i quali, appena tornati a casa, l’hanno consegnato ai coniugi Fazzari, gli amatissimi genitori dello sfortunato caporalmaggiore.

    Giuseppe avrebbe voluto chiudere questo suo diario con annotazioni di gioia per il ritorno tra i propri cari e offrirlo con le proprie mani a papà e mamma, ma un’ingrata sorte aveva deciso in maniera diversa, spezzandone prematuramente la vita. Tutto, assai verosimilmente, era già scritto nel destino del giovane. Non si spiegano altrimenti fatti e circostanze a dir poco strani. A una prima chiamata alle armi egli l’aveva fatta franca: dalla Commissione medico-militare era stato giudicato rivedibile e rispedito a casa, evitando il servizio di leva. Riprese, quindi, i lavori nel piccolo podere di sua proprietà alla periferia della città e diede, di tanto in tanto, una mano al padre artigiano-cestaio. Riconvocato presso il Distretto militare, il 4 febbraio del ’43 fu riconosciuto abile e dovette, suo malgrado, indossare divisa e moschetto e andare in guerra. Lasciò a casa il papà Giorgio, la mamma Annunziata e i sei fratelli più piccoli: Vincenzo e Domenico, commercianti in Lamezia Terme, Antonio e Francesca emigrati in Australia, Maria e Maria Annunziata, da qualche tempo decedute. Il giovane Giuseppe partì, dunque, per il servizio di leva con destinazione Nola, in Campania, e fu assegnato al 48° Reggimento Artiglieria. Da lì, dopo qualche settimana, finì in Grecia, a Ghittion, sulla costa ionica, dove il suo reggimento aveva il compito di presidiare assieme ai Tedeschi il tratto di mare antistante e segnalare alla propria aviazione eventuali presenze di navi inglesi. Con il Fazzari partirono altri cinque o sei compaesani, anche loro sradicati, nel fiore degli anni, dall’operoso territorio retrostante il golfo di S. Eufemia e mandati al fronte. Nei giorni successivi all’armistizio, gli artiglieri furono trasferiti ad Atene, dove i militari italiani speravano di trovare il mezzo e l’occasione per chiudere con la guerra e tornare finalmente a casa. Purtroppo, durante il tragitto essi dovettero ricredersi. Erano prigionieri dei Tedeschi, da quel momento disposti a tutto pur di vendicare il tradimento commesso dagli ex alleati italiani con quel trattato dell’8 settembre. I soldati della Wehrmatch, che in precedenza avevano controllato al fianco degli Italiani il tratto di mare antistante al litorale ionico, disarmarono gli artiglieri e li fecero salire su un convoglio diretto in Germania.

    Il caporalmaggiore e altri commilitoni si ritrovarono in sessantacinque all’interno di uno dei carri-bestiame. Avevano poco spazio per muoversi; stavano accovacciati uno accanto all’altro sul ruvido pianale; sembravano tante pecore rinchiuse in un piccolo ovile. Il treno eseguiva molte fermate, anche in piena campagna, per consentire ai trasportati sia di allontanarsi in fretta dai binari e cercare riparo alle frequenti incursioni aeree anglo-americane, sia per consumare il rancio nei limiti di tempo consentiti dalla tabella di marcia; vitto costituito – almeno quello destinato ai prigionieri – da una brodaglia priva di sostanze nutritive, e tra l’altro versata nelle singole gavette in quantità tale da coprirne appena il fondo.

    Su quel treno, senza una pur pallida idea sulla destinazione, legittimi timori affioravano nella mente e sulle labbra di quei malcapitati circa la sorte che li attendeva. Giuseppe Fazzari e compagni finirono in due campi di prigionia, prima a Luckenwalde e poi a Berlino, dove trascorsero mesi di sofferenze e di stenti. La caduta del III Reich era ormai nell’aria: le fortezze volanti anglo-americane avevano già scaricato tonnellate di bombe sulla Germania disintegrandone case, strade e linee ferrate; l’esercito russo, dopo aver spento i residui periferici focolai di resistenza delle truppe fedeli al Fuhrer, stava entrando in Berlino; il conflitto, che tante vittime aveva lasciato sui campi di battaglia, era ormai sul punto di estinguersi. Per migliaia di prigionieri stavano per schiudersi i cancelli dei campi di concentramento e il loro atteso ritorno a casa si profilava ormai all’orizzonte. Proprio in quei momenti di speranza e di buone prospettive per chi aveva tanto sofferto e rischiato più volte la vita, una sorte beffarda e impietosa negava al giovane caporalmaggiore nicastrese la gioia di assaporare la ventata di libertà che spirava già sulla capitale germanica. Dietro l’angolo, purtroppo, era ad attenderlo un amaro, crudele destino.

    Demetrio Russo

    Il racconto delle vicende belliche e della prigionia in un manoscritto inedito: resoconti e ricordi di guerra, prigionia, maltrattamenti, patimenti, illusioni.

    Diario recuperato, dopo le drammatiche circostanze della morte, da alcuni commilitoni e consegnato ai familiari dello sventurato caporalmaggiore.

    1 – Da alleato a prigioniero dei Tedeschi

    Dopo la capitolazione dell’Italia io mi trovavo in Grecia - inizia così, in un italiano commisurato alla limitata frequenza scolastica del militare e opportunamente rielaborato, il manoscritto Racconto della mia vita da prigioniero - e la sera dell’8 settembre noi Italiani eravamo assieme ai signori Tedeschi, nostri alleati, con i quali stavamo trascorrendo una serata piacevole tra balli e musica. Ci trovavamo a Ghittion, piccolo agglomerato urbano sulla costa ionica, a pochi chilometri da Calamata, nel Peloponneso. A un certo punto squillò il telefono da campo, sistemato all’interno di un caposaldo presidiato dalla nostra fanteria, e qualcuno gridò «Batteria, batteria!», richiamando l’attenzione dell’intero contingente italiano. Che cosa era successo? Era pervenuta una chiamata dal Comando. Io e il collega Di Branco rintracciammo subito il tenente Bassano, un ufficiale da poco aggregato al nostro distaccamento, e con lui ci siamo portati sul posto per conoscere il contenuto di quella comunicazione. L’ufficiale avvicinò un collega del Genio e i due parlarono tra loro sottovoce. Di quel colloquio afferrai ben poco: mi giunse, comunque, chiara all’orecchio la parola armistizio, ma ne disconoscevo dettagli e termini. Confidai a Di Branco, rimasto più indietro, quelle frammentarie notizie rendendolo partecipe delle mie speranze, ma anche degli interrogativi che mi stavo ponendo sulla reale portata di quelle informazioni. Al ritorno ho riferito le medesime cose ai commilitoni Santo Rocca, Domenico Tedesco, Antonio Marino e Giovanni Arrigo, compagni di tenda. Raccomandai loro di non farne parola con altri, trattandosi di notizie carpite senza volerlo e, per di più, incomplete. Poco dopo, nel nostro alloggio entrò il tenente e ordinò a me e a Di Branco di tornare alla postazione del telefono per raccogliere eventuali altre comunicazioni e riferirgliele senza perdere tempo. Di quanto stava accadendo il comandante non fece alcun cenno ai colleghi tedeschi che quella sera, finita la festa, andarono tutti a dormire. Anch’io avevo sonno e sarei andato volentieri a letto. Tuttavia mi era stato dato quell’ordine e, quasi contro voglia, mi recai subito con Di Branco sul posto indicatomi. Alle quattro del mattino il telefono da campo squillò. L’addetto alzò la cornetta e dall’altra parte del filo chiesero di voler parlare con l’ufficiale di turno. Corsi a chiamare il tenente, che uscì dal suo alloggio in un batter d’occhio. Quella notte si era sdraiato sulla brandina così com’era vestito perché si aspettava successive comunicazioni dal Comando centrale e, in tal caso, non avrebbe perso del tempo prezioso. L’ufficiale afferrò la cornetta e scambiò con l’interlocutore, uno dei pari grado, poche parole dalle quali io compresi che gli si ordinava di far saltare, alle ore sette in punto, tutti i pezzi della nostra artiglieria. Al termine della telefonata, mi avvicinai e gli chiesi cosa stesse succedendo. Egli accennò qualcosa sull’argomento, che a noi

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