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Mondo capovolto
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E-book404 pagine5 ore

Mondo capovolto

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Info su questo ebook

Sullo sfondo dei drammatici eventi scatenati dalla Seconda guerra mondiale, i destini degli emigrati italiani in Africa s’intrecciano attraverso due continenti. Tutto inizia un lunedì mattina: è il 10 giugno 1940, il mondo si capovolge e la Nigeria, colonia inglese, diventa nemica. L’Italia entra in guerra contro Francia e Gran Bretagna, e quello stesso giorno Alessandro Testa viene arrestato insieme ai suoi connazionali. La loro vita sembra ormai segnata.
Prima internati in luoghi di prigionia nella città di Lagos, poi, come accadeva agli schiavi africani nei secoli precedenti, imbarcati e mandati nei campi di prigionia in Giamaica e costretti a lavorare per il governo inglese.
“Il mondo capovolto” racconta le incredibili e autentiche vicende rimaste nascoste nelle pieghe del tempo e nelle soffitte dei discendenti dei primi italiani che affrontarono il continente africano. Di come andarono incontro all’ignoto e alla disperazione rendendo eroiche le sofferenze più intime, le piccole battaglie e i trionfi quotidiani di ognuno di loro.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2024
ISBN9791222498805
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    Anteprima del libro

    Mondo capovolto - Andrea Cantone

    copertina

    Andrea Cantone

    Mondo capovolto

    UUID: 42ab106b-159a-421f-9008-958fd5b5de26

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Prologo

    Prima Parte

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    Seconda parte

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    Terza parte

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Epilogo

    Prologo

    Ciò che le spezie rappresentavano per i primi navigatori portoghesi, ciò che l’oro era per i conquistadores spagnoli, il tabacco per i coltivatori della Virginia, il cotone per i planters del Mississippi, per i mercanti inglesi del XVIII secolo era il commercio degli schiavi africani.

    Il passaggio di mezzo, così era sempre stato chiamato.

    Un viaggio attraverso l’oceano Atlantico, dalla costa occidentale dell’Africa fino al Nuovo Mondo.

    Navi salpate dall’Europa con le stive piene di stoffe, liquori, manufatti e armi che servivano come merce di scambio per l’acquisto di schiavi da traghettare nelle Americhe. Da laggiù le navi sarebbero quindi ripartite cariche di materie prime, completando così quello che veniva chiamato da tutti il commercio triangolare. Un viaggio mostruoso e straziante dove violenza, fame, malattia e in molti casi anche la morte, regnavano sovrane. Ci voleva un fisico davvero resistente e una gran voglia di vivere per sopravvivere al passaggio di mezzo. Le catene che stringevano e l’aria soffocante della stiva erano una realtà per quegli indigeni che venivano strappati alle loro vite, ai loro villaggi, dalle braccia della loro famiglia.

    Rapiti e poi venduti.

    Quando le imbarcazioni lottavano contro le onde di un mare contrario e arrabbiato, i pianti e i lamenti dei prigionieri si confondevano con i gemiti del legno dello scafo. Dovevano lottare per non soccombere, per non divenire un oggetto di proprietà di qualcuno. Nessuno vorrebbe vivere la vita a servizio di qualcun altro.

    Si sentivano affogare in un abisso di dolore e sfiducia nel mondo intero, che rendeva difficile conservare una propria dignità.

    I più deboli si lasciavano morire mentre i più forti, nonostante le catene e la distanza che li separava dalla loro terra e dalla loro gente, avrebbero fatto di tutto per cercare di tornare a casa.

    Molte volte la nostra stessa prigionia dipende solo dal fatto di sentirsi impotenti. Quelle catene sarebbero cadute con la volontà e con la tenacia.

    Questo era, più o meno, quel che era successo un secolo prima agli schiavi africani.

    Poco diverso, però, doveva apparire nei sentimenti che dominavano il cuore di Alessandro Testa e degli altri duecento quarantaquattro prigionieri civili italiani imbarcati sul piroscafo norvegese Penland, nel porto di Lagos.

    Era mercoledì mattina, il 13 novembre 1940.

    Destinazione: Indie Occidentali, Isola di Giamaica, campo di prigionia del governo inglese.

    Prima Parte

    - Tempo zero - 1940

    «Il desiderio è il solo motivo per cui andiamo avanti

    in mezzo a tanto orrore. Tutti abbiamo bisogno di

    una passione, o di un’ossessione. Cerca la tua.

    Desiderala fortemente, e fa’ della tua vita

    la ragione stessa per cui vivi.»

    Donato Carrisi – La donna dei fiori di carta

    1

    Lagos, Ikoyi. Lunedì 10 giugno 1940.

    Si chiama tempo zero: per gli scienziati è il momento in cui tutto inizia.

    Il mondo si capovolse quel lunedì mattina.

    Fu una di quelle micidiali giornate di giugno a Lagos, per la serie Non è il caldo, ma l’umidità. Quando l’aria è oleosa come il sudore degli dei, la camicia ti si incolla sulla schiena e i rancori ti si appiccicano e basta.

    Che è poi quello che si udì alla radio.

    Alessandro si svegliò presto, come sua abitudine, per fare il giro dei cantieri. Andò in cucina e trovò la colazione già preparata dal cuoco: uova strapazzate, pancetta e pane abbrustolito con burro. Prese in mano la tazza del caffè ancora fumante e nel frattempo accese la radio. Quello che sentì gli fece passare del tutto l’appetito.

    … Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia…

    La voce era quella inconfondibile di Mussolini, che si rivolgeva alla folla dal balcone di Palazzo Venezia. Nel sottofondo gracchiante della radio fischi e urla, ma il senso del discorso era più che chiaro.

    Era il 10 giugno 1940 e l’Italia, quella mattina, entrò in guerra contro la Francia e il Regno Unito. La decisione, secondo il politico italiano, era stata fin troppo a lungo rimandata, ma ora l’esercito tedesco si era spinto fino alle porte di Parigi e quindi lui era sicuro di scendere in campo dalla parte dei vincitori.

    Alessandro si risedette, posò piano la tazza sul tavolo, chinò il busto appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sostenne il viso tra le mani, come se di colpo fosse diventato troppo pesante.

    Il primo pensiero fu per la sua famiglia, in Italia.

    La Nigeria, colonia inglese, ora è territorio nemico. E adesso? si disse.

    Non ebbe il tempo di assimilare la realtà che qualcuno bussò alla porta della cucina.

    Il guardiano entrò e chiese la parola.

    Alessandro gliela concesse.

    Al cancello c’erano due poliziotti del governo inglese. Erano venuti a prenderlo.

    «Buongiorno, signor Testa. Ci deve seguire alla stazione di polizia.» Lo disse in modo educato, ma rude, uno dei due poliziotti mentre l’altro lo teneva sotto tiro.

    «Buongiorno. Quelle non vi servono» puntualizzò Alessandro, indicando le mitragliatrici d’ordinanza.

    «È la procedura.»

    Le armi vengono usate per spaventare la gente. Per quel che mi riguarda, sono buone solo per sparare.

    «Capisco» rispose calmo. «Posso scambiare due chiacchiere con i miei uomini prima di venire con voi? Devo istruirli sul da farsi durante la mia assenza e arrivo» chiese con fare gentile.

    «Va bene. Dieci minuti. Andremo alla centrale con la nostra macchina, è parcheggiata di fianco all’ingresso. Aspetteremo là» concluse il poliziotto fermo sull’attenti. Fece un cenno al collega e si allontanarono, con passo cadenzato e le braccia che dondolavano in sincrono. 1

    Jason Harrison, capo della polizia inglese, se ne stava seduto dietro la sua scrivania come una barriera e non fece neppure lo sforzo di alzarsi quando Alessandro varcò la soglia del suo ufficio. Lo scoppio del conflitto aveva dato potere e risalto a chiunque godesse di una posizione ufficiale o portasse un’uniforme.

    Indossava una divisa militare con camicia bianca abbottonata fino al collo e con i gradi in bella vista sulle maniche. I capelli neri, con appena qualche filo d’argento, erano pettinati all’indietro di tutto punto. I baffi folti sul viso magro e olivastro gli conferivano un’aria austera mentre tirava profonde boccate a un sottile sigaro scuro.

    Le penne e le matite colorate rigorosamente allineate di lato, a portata di mano, un posacenere di ebano, un fermacarte in avorio lavorato che raffigurava un elefante con la proboscide all’insù e tutte le scartoffie catalogate con scrupolo nel mobile alle sue spalle potevano solo far dedurre che o il capitano aveva un’ottima segretaria, oppure era un maniaco dell’ordine sul lavoro non riuscendo a gestire allo stesso modo la sua vita. Alessandro optò più per la seconda ipotesi e immaginò tutte le truppe del capitano schierate con la stessa cura anche nei piani di battaglia.

    «Buongiorno, signor Testa» esordì, togliendosi gli occhiali dalla montatura d’acciaio sottile senza scomodarsi dalla sedia. «Non mi piace quello che devo dirle, quindi andrò dritto al sodo. Avrà capito perché l’ho fatta convocare qui, vero?» aggiunse giocando con l’astina degli occhiali e muovendo la mascella come se stesse masticando i suoi pensieri.

    «Siamo in guerra. Mi dovete arrestare.»

    Il poliziotto non trasformò ancora i suoi pensieri in parole. Stava pensando alla sua Inghilterra sotto i cieli d’estate, ai fiumi, alle acque calme dello stretto della Manica, quei graziosi luoghi ora avrebbero dovuto affrontare un lungo periodo oscuro. E chissà per quanto tempo.

    Il rumore delle pale di un lento ventilatore sul soffitto scandiva il trascorrere del tempo con colpi regolari e monotoni, turbando crudelmente il silenzio che si era creato nell’ufficio.

    «Le bellezze e le antichità del mondo civilizzato verranno distrutte, l’Inghilterra potrà sperare di costruire una nuova città di luce?» filosofeggiò il capitano prima di rispondere con tono serio: «Voi italiani avete dichiarato guerra a noi».

    «Io non ho dichiarato guerra a nessuno di voi» ci tenne a precisare Alessandro.

    «Testa, non è questo il punto e lei lo sa. Non possiamo rispondere alla sete di sangue e alle barbarie della guerra con propaganda da due soldi. Dobbiamo essere forti nelle nostre convinzioni. Dobbiamo essere decisi e razionali altrimenti richiamo di perdere l’onore, anche in caso di vittoria. Io sto solo eseguendo degli ordini» sottolineò il militare, mimando il senso con le mani.

    Una nobile visione, pensò Alessandro, che si limitò a rispondere con tono ingenuo: «Che sarebbero?»

    Glieli comunicò con parole che parevano frecce avvelenate scagliate dritte nel petto. Per un momento si abbandonò al desiderio di non avere ben capito il significato. Ma il significato era più che chiaro.

    «Solo pochi giorni fa bevevamo whisky al club, insieme. Sua moglie ha pure chiesto un preventivo per recuperare quel pavimento in mosaico dell’ingresso di casa vostra. E ora mi arresta? Io non ho fatto niente. Nessuno di noi italiani, qui nella colonia, ha fatto niente per volere la guerra. Stiamo lavorando per voi da anni, non avremmo alcun interesse…»

    Il signor Harrison alzò la mano per interrompere il fiume di parole dell’italiano.

    «Lo so, Testa. Sono rammaricato quanto lei» puntualizzò in tono sincero.

    «Rammaricato? Io sono arrabbiato! Stufo! Ne va della mia vita, del mio lavoro, di tutto quello per cui ho lottato e sacrificato negli ultimi anni!»

    La serietà sul volto dell’inglese si stava trasformando in un’espressione di sofferenza. Alessandro sentiva gli occhi bruciare e lo stomaco contrarsi per quella sensazione di rabbia e angoscia che combattevano per la supremazia nella sua testa. Odio questa guerra. Non è la mia guerra.

    Gli ordini erano questi: considerato il rispetto e il buon nome di cui godeva, il signor Harrison gli aveva dato il permesso di tornare a casa senza scorta e prendersi la giornata per riordinare le sue cose. Poi avrebbe dovuto portare i contanti e gli averi che aveva in casa (per i quali avrebbe avuto una regolare ricevuta in cambio) al Custodian of Enemy Property, che le avrebbe tenute in custodia fino alla fine della guerra. Perché la guerra, prima o poi, sarebbe finita.

    In seguito lo avrebbero accompagnato al vecchio Ikoyi Club, il cui edificio era stato scelto come prigione temporanea per tutti gli italiani residenti nella colonia. Punto. Fino a nuovo ordine.

    «Ultima cosa, signor Testa: saremo duri con i duri. Questo voglio che sia ben chiaro da subito. 2 Lo dico a lei perché, considerata la sua posizione di rilievo in città, la vedo come il capo della comunità degli italiani. Sarà il portavoce del governo inglese, ma nello stesso tempo il responsabile se dovessero esserci dei disordini tra i prigionieri.»

    Alessandro fissò il capitano dritto negli occhi; a volte, il modo migliore per non peggiorare la situazione è stare zitto.

    «C’è dell’altro?» si limitò a chiedere con fare gentile, quasi canzonatorio.

    «Per ora no. In caso, le farò sapere» lo congedò velocemente senza tanti complimenti.

    Alessandro uscì dall’ufficio con passo lento, come quello di un vecchio che cammina senza meta sicura. Fece appena in tempo a chiudersi la porta alle spalle quando sentì la voce del capitano che, seppur ovattata, gli ordinava in tono perentorio: «Non si scordi di consegnarmi anche le chiavi di casa.»

    2

    Il cielo era di un azzurro quasi impossibile per quella stagione in Nigeria, risaltava contro le nuvole di un bianco immacolato e candido.

    Alessandro era sulla terrazza a osservare la laguna, ripensando a quanto gli piaceva trascorrere la serata da solo a osservare il tramonto. Era un momento che adorava. Se ne stava lì, in silenzio, a contemplare il sole che calava nella laguna; una palla di fuoco che in un attimo tingeva le acque limacciose di un fiammeggiante bagliore dorato. E poi, molte volte, decideva di stare sveglio per gustarsi finanche le luci dell’alba, perché anche quella, in Africa, è un momento indimenticabile.

    L’alba all’equatore è davvero magnifica.

    Il sole sorge in un attimo, accendendo l’orizzonte di infinite tonalità di rosso, arancione e sfumature più o meno brune: ocra rossa, terra, tabacco e naturalmente sabbia. Poi, solo luce e caldo.

    Osservare le vernici del cielo lo rilassava sempre. Si mise comodo qualche minuto sulla sua sedia di vimini preferita per dare spazio ai pensieri e poi rientrò in casa. Andò in ufficio e, con gesti lenti e la mente altrove, staccò dal muro il quadro che nascondeva la cassaforte, compose la combinazione e l’aprì. Estrasse un corposo plico di fogli da una valigetta di pelle appoggiata su una sedia e al loro posto vi mise il contenuto della cassaforte. Sulla scrivania era sistemato con ordine il libro contabile della Motta & Testa, la ditta di cui era socio con il fratello Carlo e Simone Motta. Ne sfogliò distrattamente le pagine prima d’infilare anch’esso nella valigetta. Constatò, soddisfatto tra sé, di aver fatto davvero un buon lavoro nel corso degli anni. Aveva reso un ottimo servizio al governo inglese contribuendo al rapido sviluppo di una città come Lagos, e ora? Ora veniva ripagato in questo modo. Il pensiero lo fece irritare tanto che per un attimo pensò se ci fosse modo di scappare, poi si rese subito conto che la situazione politica caotica era globale. Non c’era nessun angolo dove potersi nascondere. Decise allora che avrebbe affrontato la situazione a testa alta e mente lucida, senza dare nessun’altra soddisfazione agli inglesi.

    Poi, si ritirò nella sua stanza.

    Aprì le ante dell’armadio, spostò i vestiti appesi e prese il Winchester 70, il Savage 99 e la scatola di munizioni accanto a ognuno. Suo fratello Carlo, sulla banchina del porto poco prima di tornare in Italia, gli aveva confessato che, per precauzione, considerando i disordini globali in atto, aveva fatto gettare le armi nella laguna e sotterrare i proiettili nel giardino di casa.

    Ora, forse, è il caso di far sparire anche queste.

    Ognuno di quei fucili era legato a un ricordo.

    Il Savage gli riportava alla memoria l’avventura dell’oro sulle sponde del Malendo River, nel mezzo della foresta equatoriale, il campo di ricerca sull’isola fluviale, l’indigeno Sonny che gli aveva salvato la vita quando era stato colpito dalla malaria, l’amicizia con Bud e sua moglie Cindy, le colazioni davanti alla tenda e il suo socio Stefano Nada. Si controllò la mano destra ricordando il pugno inflittogli il giorno in cui lo tradì rubando l’oro e consegnandolo ai greci.

    «È stata la tua fortuna, Stefano, che non avessi in mano questo fucile» disse ad alta voce, stringendolo ancor più forte tra le dita.

    E poi gli tornò in mente la frase pronunciata da Sonny subito dopo: «Master, ma una volta che ti sei rotto la mano dando un pugno a quello, cosa ci hai guadagnato?» Il ricordo lo fece sorridere.

    Quanto gli mancava la saggezza africana dell’amico.

    Il Winchester, invece, era legato al contratto di lavoro pubblico più grande che la colonia nigeriana ricordasse. La costruzione di alcune case residenziali per funzionari del governo a Yola, al confine con il Camerun francese. Alessandro e i suoi soci se lo erano aggiudicati battendo la concorrenza di ditte inglesi molto più quotate di loro. E se il governo inglese aveva deciso di dare il lavoro agli italiani, penalizzando ditte di loro connazionali, era davvero una notizia storica per una mentalità chiusa e patriottica come quella dei britannici. Il fucile era un regalo di suo fratello. Gli aveva detto: «Cerca di non farti ammazzare laggiù, in quel posto sperduto. Porta con te questo fucile, non si sa mai. Magari ti servirà per difenderti o per cacciare qualcosa.»

    «Grazie Carlo, mi sarà utile.»

    Quel cantiere, in quel posto quasi sulla luna, era stato la loro salvezza. Almeno fino a quando i grandi padroni della terra non avevano deciso di cominciare a giocare a fare i soldati.

    Dopo essere nuovamente sceso al piano di sotto e aver appoggiato con cura i fucili e le munizioni sul tavolo dell’ufficio, decise di farsi un bagno, forse l’ultimo in casa sua. Strofinò la pelle fino ad arrossarla, poi si fece la barba con cura perché suo padre gli aveva sempre detto che la dignità di un uomo si legge solo sulle guance ben rasate e poi perché voleva presentarsi ben curato all’incontro con i suoi carcerieri. Scelse quindi una camicia bianca pulita, pantaloni di cotone nero e una giacca in tinta. Si guardò soddisfatto allo specchio; gli piaceva il suo aspetto, aveva sempre avuto un viso elegante, anche se ora notava profonde rughe intorno agli occhi color nocciola cerchiati di scuro e qualche capello bianco sopra le tempie, ma gli sembrò normale con i tempi che correvano.

    Sua nonna gli aveva sempre detto che i capelli bianchi spuntano con le preoccupazioni.

    «Non mi stupisce affatto» si disse ad alta voce.

    Il suo volto era quello di un combattente per la vita, al momento solo un po’ stressato e assonnato.

    In cucina trovò il cuoco che sistemava i piatti della colazione, lo salutò distratto con la mano e chiese di Jummai, il giardiniere.

    «Digli che lo aspetto in salotto, tra trenta minuti.»

    La sala era ampia e accogliente, con una grande vetrata che si affacciava sulla terrazza. Nel mezzo, sopra un grande tappeto di pelo di zebra, troneggiava un tavolo di legno con sedie davanti a un comodo divano di pelle marrone scuro. Alessandro si guardò un po’ in giro, nostalgico. Posò lo sguardo sui quadri africani e sulle maschere tribali attaccate alle pareti, all’enorme zanna d’avorio nell’angolo, alle statuine di ebano raffiguranti elefanti e guerrieri, al guscio di tartaruga e alla lancia di legno con il manico in avorio, lungo più di due metri, inchiodato al muro di fronte. L’unico dettaglio occidentale era un grammofono di legno e la radio a valvole sul tavolino all’angolo del divano.

    Si avvicinò al bancone bar di ebano, prese un bicchiere e si versò due dita di whisky single malt liscio. Lo sorseggiò con calma mentre si avvicinava allo scrittoio posto in un angolo, poi aprì il cassetto in mezzo, prese un foglio di carta e lo richiuse. Fu in quell’istante che si accomodò sulla sedia e afferrò la penna stilografica appoggiata sulla destra, era arrivato il tempo di scrivere una lettera a suo fratello Carlo, in Italia, per rendergli nota la situazione.

    Guardò l’orologio a pendolo contro il muro per assicurarsi di avere ancora del tempo, segnava le due e tre quarti. Il capitano gli aveva dato tutta la giornata.

    Posò la penna per un momento alla ricerca del tono giusto.

    Gli tornarono in mente i suoi primi giorni in Africa, nel campo Motta. Quando arrivò esausto, quella sera di marzo del 1935, gli italiani lo accolsero a braccia aperte e suo fratello gli apparve come un personaggio di un vecchio film western. Ricordò la ferrovia, le strade polverose, le canzoni dei lavoratori nigeriani, le parole in pidgin english incomprensibili nei primi giorni, i colpi di machete per farsi strada nella foresta equatoriale, le discussioni sul cantiere e il gran caldo che non dava tregua.

    Molte sere rientrava al campo così stanco che mangiava appena e andava a dormire presto.

    Al fratello non passò inosservato il suo cattivo umore e lo scoraggiamento di quei primi giorni. Una sera, a cena, dopo un’afosa giornata di foschia tipica della stagione secca, disse che sarebbe andato a dormire e Carlo lo accompagnò alla sua capanna. Era assalito da un prurito che lo faceva impazzire… era stato così fin dal primo giorno. Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere quattro mani e potersi grattare in diversi punti contemporaneamente. I rimedi naturali che gli avevano proposto gli altri bianchi purtroppo non avevano sortito alcun effetto. Gli rimaneva solo una minima speranza che il suo cervello si abituasse alle condizioni della sua pelle e smettesse di dare l’impulso alle mani di grattare.

    «Mi manca il fresco dell’Italia» commentò infastidito appena si furono allontananti di qualche metro dalla tavolata, per non farsi sentire dagli altri. «Questo caldo, prima o poi, mi ucciderà.»

    «Ma smettila! Stai esagerando. Adesso è ancora secco. Vedrai quando comincerà la stagione delle piogge. Da maggio a ottobre sarà come vivere sotto i rubinetti aperti. Con l’harmattan, almeno, abbiamo un po’ di sollievo.»

    Alessandro ricordò quel giorno appena trascorso, quando era in cantiere a controllare la rettifica delle traversine della ferrovia in costruzione e guardava il cielo: una fine polvere fluttuava donandogli una colorazione mista tra il grigio e il rosso.

    «Non riesco a capire come tu possa trovare sollievo da questo vento fastidioso che annebbia la vista e ti arrossa gli occhi. È tutto il giorno che mi prudono. Per me è insopportabile» disse, portandosi il braccio sugli occhi e grattandoli con la stoffa della camicia.

    «E ancora non hai visto quando soffia arrabbiato! Non vedi più il sole per giorni.»

    «Voglio la neve!» urlò al cielo Alessandro, con una smorfia tanto buffa che suo fratello scoppiò a ridere a crepapelle.

    Mentre si avvicinavano alle capanne, Carlo osservava con la coda dell’occhio il fratello. Poteva immaginare cosa gli passasse per la testa. Aveva la pelle bruciata dal sole, sarebbero passate settimane prima che quel colorito si trasformasse in abbronzatura tipica dei bianchi africani. E il suo umore avrebbe subito lo stesso processo: con il tempo si sarebbe liberato della debolezza tipica dell’adolescenza per farsi uomo. Le braccia sarebbero diventate più muscolose e la pelle abbronzata. Il suo atteggiamento si sarebbe presto adeguato ai rigori delle terre selvagge d’Africa.

    «Devi avere solo un po’ pazienza, Alessandro» suggerì al fratello. «All’inizio è dura, ma vedrai che tra poco ti abituerai. Grazie al lavoro, alla disciplina e alla pazienza. So come ti senti. Ci siamo passati tutti, anch’io. I primi giorni volevo mollare tutto e tornare a casa, sconfitto.»

    Alessandro aggrottò un poco le sopracciglia e fissò il fratello.

    Carlo chiarì meglio il concetto: «Intendo dire che non so come, né quando, e non conosco tutto il resto dell’Africa, ma ti assicuro che verrà il giorno in cui questa terra ti entrerà nel sangue e nelle ossa e non vorrai più abbandonarla. Forse è per l’incredibile spirito di adattamento che ha contraddistinto gli uomini di ogni epoca, o forse è solo per il mistero che aleggia su questo continente.» Con la mano indicò il panorama oltre le capanne: foresta verde, rigogliosa a perdita d’occhio. Poi riportò lo sguardo sul fratello.

    «Nessuno è mai andato via dall’Africa senza versare una lacrima.»

    A quel tempo, Alessandro non poteva capire il reale significato delle parole di Carlo, ma ormai erano passati diversi anni da quella sera e tutto gli era diventato molto chiaro.

    Ma ora? La sua Africa lo tradiva così? Appena formulato quel pensiero, però, si accorse dell’errore di valutazione, non era l’Africa che lo stava tradendo, ma il mondo intero che si stava rovesciando sotto il gioco dei potenti. Come recita un antico detto africano: Quando due elefanti litigano, quella che ci rimette di più è sempre l’erba.

    E in quel momento, Alessandro, si sentiva erba impotente e calpestata più che mai. Si sentiva, forse, per la prima volta da quando era arrivato, solo.

    Circa un mese prima, suo fratello maggiore Carlo, la persona per la quale cinque anni prima aveva deciso di intraprendere il suo sogno d’Africa, era tornato a casa, a Roasio. Era andato insieme all’altro socio, Simone, a trovare le rispettive famiglie e a cercare manodopera italiana per i vari cantieri edili distribuiti nelle terre della colonia.

    Mentre Alessandro scriveva quello che stava succedendo, sottolineando il fatto che avrebbe raccontato i successivi sviluppi di cui ancora era all’oscuro, si sentì rincuorato che il fratello potesse essere al sicuro in Italia, ad aiutare la famiglia. Non poteva certo immaginare quanto invece la situazione fosse complicata e pericolosa, e ignorava le reali difficoltà che suo fratello aveva dovuto affrontare appena sbarcato in patria.

    Appena sceso al porto di Marsiglia, Carlo prese il primo treno per Torino Stazione di Porta Nuova. Tra i binari trovò blocchi di poliziotti che controllavano i documenti di tutti i passeggeri provenienti dalla Francia.

    «Buongiorno, signore. Favorisca i documenti per favore» gli intimò il gendarme.

    «Buongiorno a voi» rispose Carlo, sospettoso e messo in agitazione da quel tono rigido.

    I suoi abiti, il suo portamento da uomo ricco e la sua pelle abbronzata non erano passati inosservati ai pallidi poliziotti italiani.

    «Li ho qui» si affrettò a dire. E mentre inseriva le mani nelle tasche per cercare i documenti, tirò fuori anche una mazzetta di banconote.

    «Ma guarda che cosa abbiamo qui. Lo sa che è proibito andare in giro con tanti soldi in tasca? E per di più sterline inglesi. Potremmo entrare in guerra con gli sporchi inglesi. Dicono che la decisione del Duce è imminente. Questione di giorni.»

    «Scusi, non lo sapevo» fece Carlo, sempre più irrigidito. «Sono appena arrivato dalla Nigeria, dove lavoro con mio fratello. Questi sono per la mia famiglia.»

    «Bene! Abbiamo un altro africano, e per di più arriva da una colonia inglese» ironizzò il poliziotto rivolto ai colleghi in uniforme.

    «Intanto questi li prendiamo noi e facciamo i dovuti controlli. Non è che per caso sei un altro nemico della patria

    Carlo lasciò cadere la domanda, volutamente fuorviante, e si limitò a informare: «Ma io ho la corriera per andare a casa. Per favore, non vedo la mia famiglia da anni.»

    «Appunto, qualche giorno in più che differenza vuole che faccia?»

    «Ci deve seguire in caserma. Se opporrà resistenza, saremo costretti ad arrestarla» ordinò il collega rimasto zitto fino a quel punto, con un cenno di smorfia sulle labbra che tanto somigliava a un sorriso beffardo.

    «Vi seguo» rispose mesto.

    Carlo passò la giornata e la notte in cella. Al mattino, un giovane poliziotto di servizio, con gli occhi più simpatici dei colleghi della stazione, gli disse che aveva diritto a una telefonata.

    In casa Testa non c’era ancora il telefono e così chiamò la cooperativa di Roasio e spiegò la situazione a Gianni, il titolare, nonché amico di suo padre da quando erano giovani. Gli chiese di andare a casa sua e suggerire ai genitori di allertare il maresciallo Timperi, un simpatico signore di mezza età che, non solo aveva combattuto la prima grande guerra a fianco del nonno, ma era anche uno degli uomini più patriottici che conoscevano. Ora con qualche chilo di troppo, le guance rosse che ne tradivano la passione per il buon vino e pochi capelli rimasti in testa, si divertiva a fare il carabiniere locale in età già da pensione. Lui avrebbe saputo cosa fare per tirarlo fuori da quella gabbia.

    La risposta dei suoi carcerieri non si fece attendere troppo.

    «Sei libero, Testa. Ha chiamato un carabiniere per te, garantisce lui. Gli abbiamo detto che, se ti conosce, per noi va bene. Però per uscire devi aspettare che lui venga a prenderti e ti scorti fino a casa. Non ci fidiamo di voi emigranti

    Sul treno che li riportava a Vercelli, nel tardo pomeriggio, il maresciallo Timperi non stava zitto un secondo, riempiva di domande Carlo chiedendo notizie su come si viveva nelle colonie. Di sicuro, per lui, questa era l’avventura migliore capitata negli ultimi anni. Carlo, invece, era restio a rispondere. Malinconico, guardava fuori dal finestrino le cascine sparse qua e là intervallate da appezzamenti di terreno coltivato di colore diverso e quando vide spuntare le prime risaie, il mare a quadri come lo chiamava suo nonno paterno, capì di essere quasi a casa.

    «Appena posso, me ne torno in Africa.» Fu l’ultima frase che pronunciò al maresciallo quando, durante i saluti, lui gli chiese con sincera curiosità: «E adesso che sei qui in Italia, cosa farai ragazzo?»

    Simone Motta, il terzo socio della ditta, era di origini lombarde e viveva in un piccolo borgo alla periferia di Milano. Partì per tornare in Italia nel mese di aprile, ma ebbe quasi la stessa sfortuna di Carlo. Sbarcato al porto di Napoli, prese il treno per Milano e lì dovette aspettare diverse ore per la corriera che lo avrebbe condotto al suo paese natio. Decise di passare il tempo in una caffetteria per mangiare un panino e bere un bicchiere di vino. Entrò nel locale e vide alcuni clienti girarsi verso di lui. Non era passato inosservato, lo aveva capito, ma fece finta di nulla mentre si avvicinava al bancone del bar. Appoggiò la valigia ai piedi dello sgabello e, appena il barista andò a salutarlo, ricambiò il buongiorno e ordinò il suo pranzo.

    I baristi però, si sa, così come i parrucchieri, sono paragonabili alle comari e amano intrattenere i clienti parlando del più o del meno. Di solito, gli argomenti preferiti erano il meteo o lo sport, ma, considerati i tempi che correvano, il discorso cadde su questioni politiche. Questo fece rizzare le antenne a un gruppo di giovani seduti al tavolo all’angolo, dietro le spalle di Simone. Erano in tre e quello

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