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Dal locale al globale: Prospettive antropologiche tra passato, presente e futuro
Dal locale al globale: Prospettive antropologiche tra passato, presente e futuro
Dal locale al globale: Prospettive antropologiche tra passato, presente e futuro
E-book352 pagine4 ore

Dal locale al globale: Prospettive antropologiche tra passato, presente e futuro

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Info su questo ebook

Ma è proprio vero che sempre più nella nostra società planetaria le diversità tendono a scomparire? O che invece le differenze, le specificità identitarie, i radicamenti a territori circoscritti riemergono e prolificano proprio come baluardo e resistenza alle tendenze omologanti? Distinguere e analizzare i complessi aspetti della cultura contemporanea sembra essere uno dei compiti principali dell’antropologia contemporanea. Nella realtà culturale stratificata e mutevole nella quale ci troviamo immersi, sospesa tra la dilatazione globale, fuori dai confini nazionali, e le realtà locali che con essa si intrecciano, malgrado si abbia spesso la sensazione di non avere più radici, in verità il passato continua ad esistere spesso in modo tenace anche se si accompagna a grandi e apparentemente irreversibili trasformazioni che investono modi di apparire e di essere, di pensare e di stare insieme, di concepire il mondo e la vita, di rinnovare o superare i pregiudizi, di comunicare, di celebrare feste e di concederci svaghi, di vivere la sessualità, di costruire i rapporti tra i sessi e di utilizzare e rinnovare gli oggetti d’uso.
I saggi che seguono possono offrire qualche spunto per articolare una riflessione in proposito; presi tutti insieme, pur nella loro diversità, (anzi, forse proprio grazie ad essa), possono delineare una risposta e arricchire le nostre conoscenze sui motivi dei nostri comportamenti e sulle ragioni di quelli degli altri. Riproponendo – anche – la fecondità degli strumenti antropologici per capire – ancora oggi – il mondo e il tempo in cui viviamo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2016
ISBN9788878535978
Dal locale al globale: Prospettive antropologiche tra passato, presente e futuro

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    Anteprima del libro

    Dal locale al globale - Sandra Puccini, Marcello Arduini

    Arduini

    Prefazione

    Sandra Puccini e Marcello Arduini

    Sandra Puccini & Marcello Arduini

    Prefazione

    In un mondo che cambia velocemente come quello in cui viviamo, lo sguardo antropologico si rivela più penetrante e illuminante di quello di altre discipline.

    La curiosità e il confronto con la diversità, la scoperta di nuovi modi di vivere, la ricerca delle somiglianze e delle differenze tra gli uomini, le ragioni dei comportamenti sociali e culturali, delle forme di organizzazione economica, politica e familiare, delle credenze religiose hanno segnato fin dalle loro origini ottocentesche gli studi etno-antropologici. A cominciare dai primi viaggi di esplorazione oltre i confini d’Europa, per continuare con le conquiste coloniali e per finire con lo studio delle nostre stesse società complesse, la disciplina si è misurata con le trasformazioni e le persistenze dei costumi e dei valori, con i temi dell’alterità e della somiglianza (fisiche e psichiche) tra uomini e popoli, con lo sforzo di interpretare le culture diverse dalla nostra e con quello – anche – di sradicare dalla nostra mentalità occidentale le idee di inferiore e superiore attribuite alle genti sottomesse e dominate e quasi sempre basate solo sulla razza: alla ricerca dell’universalità e dell’identità del pensiero umano oppure della sua diversità e della sua relatività - a seconda degli indirizzi teorici e dei periodi storici.

    Sono temi di grande portata che oggi si intrecciano con forza dirompente ai nostri modi di vivere e di pensare e ai nostri comportamenti: facendo riaffiorare dal passato sentimenti di fraternità o repulsione, bisogni di distinzione o integrazione, rifiuto o fascinazione per le differenze oppure enfatizzazione delle somiglianze, e infine appigli al passato come baluardo e difesa di un’identità culturale e personale fragile e minacciata. Se fino a 50 anni fa eravamo noi, spinti dalla miseria, a muoverci verso altri popoli e altre attività lavorative, oggi sono gli altri a venire tra noi, anch’essi scacciati dalle loro terre dalla povertà, dalla mancanza di libertà e di lavoro, dalla guerra. Molti di essi oggi vivono accanto a noi, con i loro linguaggi e i loro gesti, con le loro religioni e i loro abiti, con i loro sapori e i loro odori.

    Nella realtà culturale stratificata e cangiante nella quale ci troviamo immersi, malgrado si abbia spesso la sensazione di non avere più radici, in verità il passato continua ad esistere spesso in modo tenace (e quasi sempre sotterraneo, sconosciuto), anche se si accompagna a grandi e apparentemente irreversibili trasformazioni che investono modi di apparire e di essere, di pensare e di stare insieme, di concepire il mondo e la vita, di rinnovare o superare i pregiudizi, di comunicare, di celebrare feste e di concederci svaghi, di vivere la sessualità, di costruire i rapporti tra i sessi e di utilizzare e rinnovare gli oggetti d’uso.

    Tutto questo interessa l’intera cultura umana, cioè l’oggetto dell’antropologia fin dal lontano 1871, quando l’antropologo inglese Edward B. Tylor intitolava il suo libro Primitive culture (ovvero Cultura primitiva: per i tempi un ossimoro) e lo apriva con la sua celebre definizione "onnicomprensiva" di cultura considerata come

    (…) quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, i principi morali, le leggi, le usanze e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisite dall’uomo quale membro di una società[1].

    Perciò siamo convinti che oggi più che mai gli strumenti della disciplina siano fondamentali per capire il mondo in cui viviamo, proprio a partire dal passato che lo ha generato.

    I saggi qui riuniti (alcuni inediti, tutti recenti - il più vecchio risale infatti al 2000 - e di difficile reperimento) toccano tematiche diverse della contemporaneità: temi ampi e complessi e argomenti più circoscritti; oggetti classici della disciplina (come quelli rappresentati dal folklore, cioè dalle tradizioni popolari, rivisitate) e nuovi oggetti che appartengono alla modernità e ai mass media. Se in molti ci si occupa del passato, lo si fa con prospettive e con apparati teorici che appartengono al presente degli studi e sempre con la consapevolezza che il passato serve a illuminare il presente tanto più oggi, che la nostra vita – tradizionale, rinnovata, contaminata - scorre tra il locale e il globale – proprio come recita il titolo del volume.

    I nostri scritti parlano anche della crisi della disciplina, soppiantata in alcuni casi da campi del sapere come la sociologia o gli studi sulle comunicazioni di massa, che negli ultimi anni sono sembrati – anche a livello accademico – più attraenti e penetranti dell’etnografia e dell’antropologia, ma che ne hanno spesso ripreso concetti e metodi, senza però avere la stessa esperienza empirica.

    Il panorama che qui proponiamo è dunque vasto e variegato e serve a far capire come gli strumenti antropologici possano essere utilizzati per leggere il mondo contemporaneo a partire dalla nostra quotidianità sulla quale raramente ci fermiamo a riflettere.

    Ma è proprio vero che sempre più nella nostra società planetaria le diversità tendono a scomparire? Perché, contemporaneamente, differenze, specificità identitarie, radicamenti a territori circoscritti riemergono e prolificano proprio come baluardo e resistenza alle tendenze omologanti. Distinguere e analizzare questi aspetti della cultura contemporanea sembra essere uno dei compiti principali che l’antropologia (con i suoi strumenti conoscitivi) può avere oggi. E in queste ricerche, emerge con forza come molti degli aspetti che appaiono nuovi e inediti nel nostro panorama culturale, abbiano invece radici antiche che non solo ci congiungono ai nostri antenati ma che ci affratellano agli uomini diversi e sono determinati dai bisogni primari dell’uomo, che sono gli stessi in tutti i tempi e in tutti i luoghi: dalle necessità imposte dalla sopravvivenza fisica al bisogno di controllare la natura e i suoi ritmi; dall’esigenza di organizzare la società a quella di immaginare entità superiori che governano e proteggono la nostra vita. Anche qui, dunquespunta quasi spontaneamente un altro ossimoro che suona così: la diversità globalizzata. Ovvero la valorizzazione su scala mondiale delle specificità locali, che ci mettono davanti a due processi apparentemente opposti: la globalizzazione e l’iperlocalizzazione.

    Ma non solo. Scavando da antropologi, scopriamo che in verità non si tratta di elementi opposti ma di fattori collegati e fortemente connessi. Perché non sono presenti soltanto nella nostra cultura occidentale.

    Tutte le culture contemporanee – comprese ahimè quelle in cui i popoli, sotto nomi diversi combattono contro l’Occidente guerre apparentemente di religione – rispondono agli stessi nostri bisogni: che vanno dai riti ai miti ai racconti, dal credere in una divinità al praticare le feste che la celebrano, dall’interdizione o dalla prescrizione di nutrirsi di determinati alimenti ai pellegrinaggi, dalle manipolazioni corporee all’abbigliamento – e si potrebbe continuare con moltissime altre forme culturali particolari che servono a distinguerci dagli altri, a identificarci. E contemporaneamente, benchè l’IS o il Califfato, combattano una guerra arcaica come poche altre, fanno un uso globale del web, e se ne servono non solo per reclutare adepti ma per mostrare al mondo intero le loro nefandezze, con attenzione all’inquadratura e all’abbigliamento degna dei migliori telefilm statunitensi.

    Tuttavia naturalmente qui ci occupiamo e parliamo solo dal nostro punto di vista e da quello della nostra situazione culturale e dobbiamo lasciar cadere i riferimenti – pur cruciali – ai destini, spesso tragici, del mondo. Possiamo solo affermare, con un sentimento di mestizia e di inadeguatezza, che conoscere il noi - e i nostri arcaismi - aiuta probabilmente a capire meglio l’altro, perfino nella sua cieca violenza che non possiamo non contrastare e condannare ma che – proprio per poterlo fare – dobbiamo conoscere e saper interpretare.

    Dunque torniamo tra noi. Se in passato le diversità culturali potevano essere interpretate come il frutto di processi specifici, di fattori peculiari presenti magari solo in quel posto e non in altri, attualmente invece il contesto sembra molto cambiato. Vediamo allora di cogliere gli elementi di trasformazione e le loro possibili conseguenze.

    Oggi infatti specifiche manifestazioni culturali locali, vengono pensate perché si presentino su uno scenario più ampio: quello del mercato turistico e della comunicazione, ormai planetaria, a cui si accede quasi esclusivamente tramite internet. Per cui anche le persone del posto (i cosiddetti locali) imbastiscono i loro ragionamenti incentrati sì localmente, ma raffiguranti palcoscenici di scala mondiale, e sembra che quanto più è presente il primo aspetto tanto più sia presente l’altro. E dunque i fatti locali sono pensati, interpretati, declinati, costruiti - in definitiva agiti - dagli attori locali, come fatti globali-locali.

    Così questo cambiamento di prospettiva ha rivitalizzato elementi culturali in estinzione, marginalizzati o addirittura estinti; ha ridato vita a usanze, eventi, manifestazioni rituali, prodotti materiali; ha fatto sì che nascessero una quantità impressionante di musei nei piccoli e piccolissimi centri di provincia per raccogliervi le testimonianze concrete di modi di vita scomparsi. Infine ha anche cambiato profondamente la mentalità e gli sguardi verso il passato delle comunità locali. Infatti, fino a qualche decennio addietro, la percezione che gli abitanti del posto avevano di quelle che si chiamavano tradizioni e usanze popolari era fortemente sminuente: pensate come cosucce senza importanza, collegate all’arretratezza, alla miseria, all’isolamento, all’ignoranza, alla mancata modernizzazione, ad un mondo passato che si doveva abbandonare e che - per fortuna - ormai era quasi superato. Il ciarpame contadino, la puzza della stalla: tutte cose di cui vergognarsi. Questo giudizio, esplicitato in maniera chiara o espresso più o meno larvatamente, viene (o veniva) spesso manifestato dai locali, non senza – però – che vi si accompagnasse pure una sorta di orgoglio nei confronti della capacità indigena di conservare il passato: dalle fiabe ai cibi tradizionali, dalle feste ai comportamenti domestici.

    Insomma, nel giro di quattro o cinque lustri l’orgoglio e il compiacimento della capacità di conservare e custodire il vecchio ciarpame ha sovrastato la vergogna nei confronti di un passato di miseria e ristrettezza, trasformandosi in un insieme di gemme preziose che si era miracolosamente conservato e poteva essere offerto al mondo esterno: in particolare a quello rappresentato dai turisti che vanno cercando su internet i luoghi incontaminati (e con essi le tradizioni persistenti e arcaiche). Ma niente è incontaminato e arcaico: tutto si trasforma – più o meno impercettibilmente – per adeguarsi ai nuovi tempi, alle nuove richieste economiche e culturali, alle nuove nostalgie.

    Come dimostrano esempi numerosi si è ormai diffuso un concetto che gli antropologi utilizzavano da sempre, ma che solo negli ultimi tempi si è affermato anche presso i non specialisti: quello di patrimonio culturale veicolato a livello quasi di massa dall’UNESCO, il massimo organismo culturale internazionale. Una dizione che comprende, insieme alle rovine archeologiche (da Pompei al Colosseo ai siti etruschi), anche lo svolgersi di una festa come quella di Santa Rosa a Viterbo o l’intera città di Matera. Insomma sembra proprio di essere immersi dentro un cambiamento epocale.

    Un ultimo esempio, celebre e illuminante. Il tarantismo pugliese, studiato e documentato nel 1959 da Ernesto de Martino venne da lui descritto come fatto culturale marginale e in fase di irreversibile decadenza. Di esso la gente del posto tendeva a minimizzare o addirittura a nascondere tutto il complesso coreutico-musicale collegato al rito in quanto lo viveva come un segno inequivocabile di ritardo culturale. Oggi, invece, proprio quest’ultimo aspetto è al centro di un vasto fenomeno di revival. La musica salentina, comunemente conosciuta come la pizzica, riscoperta e valorizzata dalle nuove generazioni, è un fatto di portata internazionale, che coinvolge una quantità impressionante di persone, generando Festival, scuole di danza e stili musicali. La pugliesità dell’origine è un segno di radicamento fortissimo e di fondamentale attrazione turistico-culturale, ma allo stesso tempo è vissuta e vivibile ovunque, anche a molte migliaia di chilometri di distanza dal suo centro d’origine. Basti pensare che la manifestazione annuale denominata la Notte della taranta, che si svolge a Melpignano (Lecce), ha radunato nell’ultima edizione circa duecentomila persone, venute da tutta Italia e da molti paesi europei. Insomma la globalizzazione si è fatta musica e danza a partire da un elemento culturale locale fino a cinquanta anni fa semisconosciuto, nascosto, vergognoso.

    E allora come si colloca l’antropologia tra il locale e il globale?

    Marc Augé, uno degli antropologi che più si sono occupati dei fenomeni della ipermodernità avanzante, ha chiarito che

    (…) oggi la vocazione dell’antropologia è duplice. È una disciplina che resta legata al terreno e tale deve restare se vuole prepararsi a nuovi incontri. L’esperienza solitaria di un ricercatore o di una ricercatrice che osserva un gruppo di dimensioni sufficientemente ridotte per prestarsi a tale osservazione resta fondamentale da un punti di vista metodologico. (…)

    La novità che oggi caratterizza tale ricerca, ovunque essa sia condotta, riguarda il fatto che, vista l’importanza crescente dei media di ogni tipo e la circolazione delle immagini e dei messaggi, il contesto è sempre, in fin dei conti, planetario[2].

    I saggi che seguono possono offrire qualche spunto per articolare una riflessione in proposito; presi tutti insieme, pur nella loro diversità, (anzi, forse proprio grazie ad essa), possono delineare una risposta e arricchire le nostre conoscenze sui motivi dei nostri comportamenti e sulle ragioni di quelli degli altri. Riproponendo – anche – la fecondità degli strumenti antropologici per capire – ancora oggi – il mondo e il tempo in cui siamo, sul quale troppo spesso non ci fermiamo a pensare, di cui non conosciamo le radici e sul quale non avanziamo riflessioni. Lo viviamo semplicemente lasciandoci andare passivamente ai suoi flussi, senza farci domande e senza la consapevolezza che nell’esistenza umana c’è ben poco di naturale e quasi tutto è una costruzione culturale.


    [1] E.B.Tylor, Alle origini della cultura, vol.I, Roma ed. dell’Ateneo 1985, p.7 (ed. orig. Primitive culture, London 1871)

    [2] M. Augé, L’antropologo e il mondo globale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014, p. 26 [ed. orig. 2013] 

    FRAMMENTI E MOSAICI. TRA LUOGHI, MEMORIE, TRADIZIONI DELLA TUSCIA.

    Sandra Puccini e Marcello Arduini

    Sandra Puccini & Marcello Arduini[1]

    Frammenti e mosaici.

    Tra luoghi, memorie, tradizioni della Tuscia*

    1. Ci sono parole che usiamo spesso, dandone per scontato i significati e senza riflettere sulla loro storia. Qui, prima di entrare in argomento, ci fermeremo brevemente su alcuni di questi termini: a cominciare proprio dal nome Tuscia, per poi affrontare i temi della memoria, della tradizione e dell'identità.

    Come tutti sappiamo, la denominazione «Tuscia» è un neologismo abbastanza recente, usato come toponimo per indicare un territorio discontinuo tanto dal punto di vista del paesaggio quanto da quello della storia, dei caratteri antropologici e delle vocazioni economiche. Un insieme di frammenti e mosaici, appunto; un luogo del cuore più che una entità geografica omogenea. Paradossalmente, per di più, il nome sembra non tener conto dei suoi abitanti. E questo, per noi che ci occupiamo di uomini, non è da poco: perché di chi parliamo, e con quale nome dobbiamo chiamare gli indigeni della Tuscia? Sono Tusci, Tusciani o magari Etrusci? E come collocheremo i migranti – vere e proprie comunità aliene – che vivono ormai anche loro stabilmente tra noi, nella Tuscia, portandovi le loro tradizioni e le loro memorie?

    Proprio questi due ultimi termini (che compaiono nel nostro titolo), vanno definiti. E allora: che cosa intendiamo quando parliamo di memorie e tradizioni? Si tratta dei contenuti di quel patrimonio che, grazie all'UNESCO, è entrato ormai nel lessico antropologico (e non solo)? E in che cosa consiste il processo di patrimonializzazione , cioè l‘insieme delle operazioni e delle pratiche che investono gli oggetti di studio e ricerca dell’antropologia contemporanea quando si applica al campo della costruzione, della salvaguardia, dell’identificazione di quell’insieme complesso di usi, costumi, abitudini, oggetti, riti, narrazioni del e sul mondo, che creano radici, delimitano il passato, costruiscono culture locali e talvolta creano istituzioni? Si tratta soltanto della messa in forma – dell’organizzazione - di memorie e tradizioni o comprende altri elementi e implica altre prospettive?

    Perciò, anche se il nostro intervento non si propone di fare il punto sulle categorie concettuali, non si può fare a meno di riflettere – brevemente e senza pedanteria - su di esse e di definirne i significati. Aiuterà a parlare poi senza equivoci di alcune esperienze concrete che riguardano la realtà culturale della Tuscia. Infatti questi termini (memoria, tradizioni, identità) sono parole della vita quotidiana e del linguaggio comune, che però acquistano un senso specifico (diventano concetti) nel linguaggio disciplinare.

    2. Come antropologi che si occupano del territorio da molti anni, ci siamo chiesti più volte se ci fosse e quale fosse (o quali fossero) le sue identità e come si potessero rappresentare. E gli interrogativi si focalizzavano su alcune coppie di concetti come autentico/inautentico, puro/contaminato, antico/recente. E ancora: integro/degradato, vitale/agonizzante; interno/esterno, centrale/marginale. Concetti che chiamano subito in causa anche quello di tradizione.

    La messa in forma delle identità (la loro patrimonializzazione) pone anche altri interrogativi. Per esempio: le identità di un territorio possono essere rappresentate meglio da aspetti per così dire agiti da pochi individui o invece devono essere riconosciute e vissute dalla maggioranza della collettività? Ed è preferibile che i contorni identitari siano colti da persone estranee, in grado di valutarne i caratteri con uno sguardo neutro e distaccato, oppure è più veritiera una visione dall'interno, che ne illumini con passione e dedizione anche i legami nascosti? E come è possibile trovare un equilibrio tra queste prospettive?

    Cominciamo allora proprio col definire meglio la nozione di identità’, che appare centrale nelle nostre ricerche e nelle nostre riflessioni.

    Francesco Remotti sostiene che esistono due visioni possibili dell'identità: una, di derivazione aristotelica, presuppone che l'identità esista e che lo studioso debba solo ricercarla e scoprirla. L’altra, moderna, ritiene invece che essa sia sempre qualcosa di costruito o inventato per fini storicamente determinati[2]. Nel primo caso si tratta di qualcosa di fisso, di essenziale, di oggettivo, di precostituito; nel secondo è qualcosa di mutevole, opinabile, soggettivo, costruibile. Da un lato c'è una identità essenzialista, già data; dall'altro una identità relativista, continuamente rimodellata e scelta.

    Siamo per questa seconda visione.

    3. Riassumendo una questione cruciale nell’antropologia contemporanea e semplificandola in modo forse un po' radicale si può affermare che la o le identità sono costruzioni politiche, culturali, strategiche, turistiche, che non stanno nella testa di nessuno, non esistono nella concreta realtà sociale, variano nei tempi e nei luoghi, rispondono a un ventaglio largo e mutevole di bisogni e interessi, al mutare dei quali variano anche le identità. Ma siccome il termine continua ad essere presente sui giornali, nei media, nel lessico politico, nella comunicazione quotidiana, senza che mai se ne precisino i contorni, non ci sembra inutile sottolineare e denunciare i suoi caratteri provvisori e relativi e anche rifiutare decisamente certi suoi usi (per esempio quello di identità etnica, ambiguo e denso di pericolose ricadute politiche). Bisogna essere consapevoli che – proprio come una moneta – l'identità non è che l’altra faccia della alterità. Insomma. Il mondo in cui viviamo (grande o piccolo che sia) è un mondo meticcio, fatto di molte identità, armoniche e disarmoniche, che scaturiscono da confronti e contrasti che esplodono e si ricompongono, da confini e steccati che vengono eretti, scardinati e spostati; da zone di contatto che si allargano e si stringono, ibridandosi con i problemi e i bisogni del presente. E proprio perché si tratta di processi costruiti e mutevoli sono anche fenomeni sfuggenti e transitori.

    Di questi caratteri cercheremo tra poco di offrire degli esempi.

    Anche la nozione di tradizione deve essere definita in modo univoco. Innanzitutto, poiché sono le tradizioni comunemente intese che fondano le identità; in secondo luogo perchè sono anch’esse variabili storiche, politiche, geografiche. La tradizione non è ciò che è sempre stato, bensì ciò che si decide di far vivere come riflesso e parte di un passato multiforme.

    Un solo esempio, tratto dalla storia disciplinare. Nel 1911, per celebrare il cinquantenario dell’unificazione italiana (e tra un anno ne celebreremo il centocinquantesimo: e già assistiamo, da parte delle forze politiche, a negoziazioni, revisionismi, negazioni), si allestiva a Roma una grande Mostra di etnografia italiana. Vennero esposti allora gli oggetti della vita quotidiana e cerimoniale dei popoli italiani, facendo risaltare le differenti tradizioni regionali e sottolineando il valore prezioso delle molte vite dell’itala gente, per dirla con Carducci. La diversità delle tradizioni serviva ad enfatizzare le molte anime della nazione: esse erano un valore che rendeva l’Italia speciale; e le differenze tra le genti italiane erano viste come ricchezze e peculiarità, che davano alla nazione i suoi lineamenti: radici e risorse per pensare e costruire il futuro. Sono gli anni della ripresa del dibattito su regionalismo e piccole patrie, dell'esaltazione del paese contrapposto alla città, della rinnovata riflessione sul pensiero di Carlo Cattaneo. E mentre D'Annunzio scriveva la Figlia di Jorio, ambientando il dramma tra i pastori abruzzesi e riproducendone minuziosamente i costumi documentandosi sulle opere di celebri folkloristi del tempo (come Gaetano Finamore e Antonio De Nino), le tradizioni locali entravano nella manualistica della scuola elementare con i sussidiari intitolati alle varie regioni italiane, dove si dava spazio al rapporto tra lingua e dialetto e a quello tra alta e bassa cultura[3]. E dunque si ridefinivano i rapporti tra centro e periferia e si rinnovava l’idea di nazione in funzione dei bisogni del momento storico e politico, tentando di rifondare i tratti dell'identità nazionale al di là del centralismo che aveva pervaso lo Stato Italiano dopo la sua unificazione.

    Oggi pare che l'identità nazionale – oltre che attraverso il crocefisso - passi per i nostri cibi e sembra sufficiente mettere l’etichetta italiano per rendere meno alieni gli hamburger di McDonald’s, spacciando come una grande operazione culturale e addirittura come una svolta identitaria una banale operazione di marketing (le parole sono quelle usate di recente dall’attuale ministro dell’agricoltura, sponsor dell’impresa).

    È evidente, insomma, che la tradizione è quello che i contemporanei scelgono, appunto, di tramandare. Si potrebbe dire che ogni tempo ha le tradizioni che si merita.

    Ma non è il caso né di banalizzare né di semplificare né di ironizzare: i processi di patrimonializzazione (cioè le pratiche che fondano identità e organizzano tradizioni) sono infatti percorsi assai più seri, delicati, contradditori e complicati. Inoltre – come ha scritto Pietro Clemente [4]– i patrimoni, oltre che tramandare, si possono anche dilapidare: non sono materiali inerti che aspettano solo lo sguardo vivificante di antropologi, storici, museografi. Sono risorse vitali e vive, frutto di processi sociali e culturali, i cui usi e la cui fruibilità pubblica devono essere pensati nel lungo periodo e devono tener conto non solo delle strategie politiche contingenti ma anche delle passioni, dei bisogni e delle attese delle comunità locali. E poi, nel mondo contemporaneo, il patrimonio non può essere confinato a fenomeni strettamente locali. Per esempio, la ricchezza dei beni immateriali dell’Italia (quell'oralità a cui si è accennato: fiabe, canti, musica, espressioni, saperi e anche cibi) sono stati considerati dall'UNESCO patrimonio dell'umanità, al pari del Colosseo o della Torre di Pisa.

    Come si vede, dietro alle parole che usiamo, ci sono concetti dalle implicazioni vaste, complesse e articolate.

    E veniamo ora agli esempi offerti dalla concretezza – circoscritta ma non limitata – del nostro territorio, dei suoi patrimoni e delle sue tradizioni, considerandoli dal punto di vista antropologico.

    4. Dalle diverse ricerche effettuate negli ultimi quarant'anni sulle tradizioni orali della Tuscia[5] emerge la grande ricchezza del cosiddetto patrimonio dell'oralità altolaziale. Un patrimonio fatto di canti e di fiabe popolari, di poesia in ottava rima spesso improvvisata, di proverbi, detti, blasoni, indovinelli, scioglilingua, wellerismi, formule, ecc. Ma fatto anche di una oralità più diffusa e più minuta, legata ai saperi artigiani, a quelli contadini, alle conoscenze delle piante e al loro uso terapeutico e alimentare, alla produzione/manipolazione dei cibi casalinghi. Si tratta di un'identità nascosta, frammentata, che è vissuta e vive - anche se ormai sempre più stentatamente - nelle pieghe della socialità e della relazionalità dei piccoli centri della nostra provincia.

    Nell’ambito di queste ricerche spiccano sempre figure riconosciute dalla comunità come detentrici di questo tipo di saperi. Riconosciute e spesso apprezzate e valorizzate: indicate come se fossero rappresentative della comunità stessa. In un mondo che fino a cinquant’anni fa era largamente analfabetizzato – da cui il prevalente uso della modalità orale – quelle figure erano una sorta di intellettuali del gruppo, vere biblioteche viventi; i saggi che conoscevano, custodivano e trasmettevano le memorie collettive. Erano quelli che garantivano la continuità dei saperi e delle pratiche ad essi legate e dunque anche la continuità materiale del gruppo stesso, insieme alla coesione derivante dall'autoriconoscimento. Tutti elementi, questi, che sono parte intrinseca di un discorso sull'identità, sul suo disvelamento, sulla sua costruzione. E non importa se questa trama di oralità allora non apparteneva solo al nord del Lazio ma all’intero mondo contadino italiano: tra noi, infatti, essa assumeva caratteri peculiari, come peculiari erano i dialetti, il lessico, le terminologie specifiche, le forme espressive, le tematiche, e tante altre variabili. Si tratta di un fattore identitario forte benché nascosto, tenace seppure sempre più aggredito ed eroso, vitale anche se contaminato, minuto ma capillare, a continuo rischio di scomparsa ma in grado di trasformarsi e mantenersi anche in contesti molto mutati.

    Un altro aspetto della vita locale – altrettanto significativo – è quello legato alla ritualità, aspetto

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