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Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 20
Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 20
Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 20
E-book661 pagine5 ore

Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 20

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Si pongono questioni non da poco nel ripercorrere le vicende del primo Medioevo, una lunga epoca di decadenza segnata in modo inequivocabile da un accentuato calo demografico. È l’epoca in cui tramonta il Mondo Antico e lentamente si forma un nuovo amalgama con i popoli barbari, con i loro modi di aggregazione sociale, le loro lingue, le loro istituzioni, i loro diritti. È un’epoca in cui si diffonde una cultura religiosa comune, il cristianesimo – già divenuto religione di Stato nell’Impero romano a partire da Teodosio – che finisce col modificare profondamente il sentire delle popolazioni. È un tempo in cui si sposta il baricentro della vita politica ed economica dal Mediterraneo verso nord e verso est e si va formando l’Europa quale noi la conosciamo. È un lungo momento storico in cui si sperimentano la nascita e la disgregazione di un nuovo impero - quello carolingio - . Si collauda il rapporto di forza fra i principi e i papi, tra Stato e Chiesa, e si determina la costruzione di un nuovo ordine sociale ed economico fondato sul sistema feudale, sulla grande proprietà terriera, sull’ereditarietà dei mestieri, sulla servitù dei contadini. Ed è anche l’epoca in cui si va definendo un’identità europea nel confronto con l’Islam, con l’Impero romano d’Oriente e con le nuove ondate di barbari che premono alle frontiere orientali. Ripercorrendo le dinamiche di un’Europa in trasformazione dopo il crollo del glorioso Impero romano, si addentra nei secoli più dissestati di tutto il Medioevo, con la crisi delle città, il diffondersi di una fame endemica, il disfacimento della rete stradale romana e il ritorno di una foresta che si riappropria dei terreni antropizzati, cercando di ripercorrere le strade che i vari popoli d’Europa hanno intrapreso per ricostruire lentamente una civiltà sulle macerie di quella caduta.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2014
ISBN9788897514466
Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 20

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    Anteprima del libro

    Il Medioevo (secoli V-X) - Storia (20) - Umberto Eco

    copertina

    Medioevo (Secoli V - X) - Storia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Medioevo (Secoli V - X)

    Storia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla storia dell’Alto Medioevo

    Laura Barletta

    Si pongono questioni non da poco nel ripercorrere le vicende del primo Medioevo, una lunga epoca di decadenza segnata in modo inequivocabile da un accentuato calo demografico. Tale periodo, infatti, va anche inteso come l’epoca in cui tramonta il Mondo Antico e lentamente si forma un nuovo amalgama con i popoli barbari, con i loro modi di aggregazione sociale, le loro lingue, le loro istituzioni, i loro diritti. È un’epoca in cui si diffonde una cultura religiosa comune, il cristianesimo – già divenuto religione di Stato nell’Impero romano, a partire da Teodosio – che finisce col modificare profondamente il sentire delle popolazioni. 

    È un tempo in cui si sposta il baricentro della vita politica ed economica dal Mediterraneo verso nord e verso est, e si va formando l’Europa quale noi la conosciamo, intorno ad alcuni spazi destinati a dare origine a future nazioni (visigota, longobarda e franca, a sua volta divisa in Neustria e Austrasia), anche se il confine orientale resterà a lungo molto più a occidente di quello che siamo abituati a considerare come confine geografico. È un lungo momento storico in cui si sperimentano la nascita e la disgregazione di un nuovo impero – quello carolingio –, si testano la tendenza all’accentramento dei poteri e le forze centrifughe che opereranno ancora per molti secoli, si collauda il rapporto di forza fra i principi e i papi, tra Stato e Chiesa, e si determina la costruzione di un nuovo ordine sociale ed economico fondato sul sistema feudale, sulla grande proprietà terriera, sulla ereditarietà dei mestieri, sulla servitù dei contadini che – nonostante le molte e profonde trasformazioni e innovazioni sopravvenute – resterà il tessuto connettivo del continente fino al secolo XIX. Sono anche i secoli nei quali si va definendo una identità europea nel confronto con l’islam e con l’Impero romano d’Oriente che, non a caso, ora è meglio detto bizantino, e con le nuove ondate di barbari che premono alle frontiere orientali.

    Se è vero che tutti i periodi storici possono essere letti solo a partire dalle vicende del presente, alcuni dei problemi che più urgentemente si pongono oggi all’attenzione di politici, economisti e studiosi in genere, oltre che dei media, degli uomini e delle donne che li affrontano quotidianamente, chiamano in causa direttamente proprio il Medioevo. Ci si chiede se stiamo vivendo il declino di quell’Europa che qui ha le sue origini, la fine di un ciclo di civiltà, mentre anche gli Stati Uniti d’America, figli di quella civiltà, dopo aver dominato incontrastati nel secolo scorso, danno segnali di stanchezza e alcuni Paesi asiatici sembrano fare prepotentemente il loro ingresso sulla scena di una storia vista con occhi europei. Certo un riposizionamento del continente nel quadro geopolitico mondiale appare inevitabile.

    È evidente anche la crisi di identità degli Europei nel momento in cui gli spostamenti da un Paese all’altro e da un continente all’altro non sono più solo un fatto individuale, ma diventano tanto consistenti da indurre a parlare di migrazioni, imminenti o già in corso; in cui si vanno formando gruppi che appaiono come isole coese al loro interno e dai confini ben delineati, annegate in ambienti che si vogliono omogenei o si scoprono ora come tali, a dispetto di ogni discorso su tolleranza, multiculturalismo e interculturalismo.

    Allo stesso tempo si intravede la crisi degli Stati nazionali – i cui primi nuclei si è soliti scorgere proprio in questa parte del Medioevo –, assediati dal sorgere e risorgere di regionalismi e localismi, dall’affermarsi di organismi multinazionali e sovranazionali, di un’economia globalizzata, di rapidi o istantanei mezzi di comunicazione a scala mondiale che non si limitano a mettere in contatto aree e sistemi di vita prima isolati o non immediatamente contigui, ma comportano nuove riflessioni sulla natura, la liceità, la convenienza di quei sistemi di vita e sulla loro reciproca compatibilità.

    Non meno influenti, anche se a prima vista meno strettamente connessi con il piano storico, sono gli avanzamenti della scienza e della tecnica che mettono in crisi alcuni valori e alcuni comportamenti radicati come quelli familiari, resi problematici dalla fecondazione artificiale, o quelli nei confronti della morte, e soprattutto il concetto stesso di uomo, il confine fra umano e non umano, fra macchine sempre più intelligenti e uomini imbottiti di componenti artificiali. E allora si parla di ritorno alla natura e alla religione, alla ricerca di punti di riferimento sicuri, posti fuori del tempo.

    Da un lato si cerca di dimenticare che la natura non è separabile dalla sua storia, non è ipotizzabile una natura primigenia e inalterata, solo poi compromessa dall’intervento umano; e che neppure il Medioevo, con i suoi boschi abitati da animali selvatici, i suoi mari vuoti di imbarcazioni, la rarità degli insediamenti e dei traffici, i pretesi comportamenti primordiali, può fare da sfondo immobile che dia la misura del cambiamento verificatosi fino all’età contemporanea, come vorrebbe certo medievalismo di maniera.

    Dall’altro si mette in evidenza il ruolo della religione nella costituzione dell’identità europea, nella formazione della Christiana communitas, o Christiana societas, o Christiana respublica, o Christianitas. E si discute se l’influenza del cristianesimo sia stata fondamentale o no, sia da passare sotto silenzio o da respingere come rischiosa per la laicità della vita pubblica e degli Stati conquistata recentemente, a partire dal secolo XIX, oppure tanto esclusiva da dover essere citata nella costituzione europea a preferenza di altri tratti distintivi, quali potrebbero essere la precoce formazione di una mentalità capitalistica o di uno spirito di avventura e di conquista o di una volontà di trasformazione della natura e della realtà circostante, il cui sviluppo potrebbe essere pure correttamente ricondotto al Medioevo.

    In questo tempo, che molti definiscono di postmodernità e postsecolarità, certo di incertezza, ma proprio per questo di analisi sottile della storia passata e del presente, a partire da una pluralità di punti di vista appuntati su oggetti di studio prima trascurati, di relativismo e di paura dello stesso relativismo, anche la storia ha perso la linearità che le era attribuita dalla visione eurocentrica di un progresso senza fine. Essa appare ora piuttosto come il risultato più o meno fortuito dell’incrociarsi di eventi solo in parte determinati e controllati da una consapevole volontà umana, anzi in piccola parte, o meglio frantumati in mille volontà diverse e spesso contraddittorie, risultato di tensioni e contrattazioni, successi parziali e fallimenti.

    La valutazione del Medioevo, considerato, a partire dagli umanisti, come un’età di mezzo priva di valore proprio, un’epoca di barbarie, di violenza, di miseria, di anarchia, racchiusa fra lo splendore dell’età classica e il recupero rinascimentale di quell’età, non può non risentire di tali orientamenti.

    Quello che ancora nell’età dell’Illuminismo era stato respinto in blocco come il tempo della nascita della feudalità, della separazione della società in ceti distinti e dotati di regole e diritti propri, destinati a ripercorrere un cammino preassegnato e rimandare all’aldilà sogni e speranze di riscatto, in nome della riscoperta di una ragione universale, di una natura razionale, di una umanità alla quale andavano tolti i ceppi costituiti da superstizioni e abusi, e che il secolo seguente aveva rivalutato quale tempo di riscoperta della spiritualità, di fondazione di un’unità religiosa cristiana, di formazione delle indipendenze nazionali e comunali, appare oggi scomposto in segmenti che non hanno trovato una sistemazione univoca.

    Ipotesi per una periodizzazione del Medioevo

    La data generalmente indicata come inizio del Medioevo è, come è noto, il 476, la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo, considerata quale fine dell’Impero romano d’Occidente, ma non manca chi indica la calata dei Longobardi in Italia nel 567 o 568 o l’arrivo dei Franchi nel 774, chi propone che il periodo fino al secolo VI sia da ascrivere alla tarda Antichità e che solo dal secolo successivo si possa parlare di alto Medioevo.

    Una cesura importante è certo costituita dalla presenza islamica nel Mediterraneo a partire dai secoli VII e VIII, anche se la tesi di Henri Pirenne, secondo la quale questa vicenda ha determinato la fine del Mondo Antico, ha subito qualche ridimensionamento. Altrettanto importante appare il nuovo ordine imposto da Carlo Magno nel cuore del continente. Persino l’anno Mille, caricato a lungo di significati apocalittici, sembra avere in parte perduto la sua pregnanza periodizzante, soprattutto per chi individua dal IX all’XI i secoli centrali del Medioevo. I passaggi dal V al VI e dal X all’XI secolo restano comunque svolte significative nella storia europea alle quali si è scelto di attenersi.

    La stessa tendenza alla moltiplicazione di riferimenti, di eventi che possono essere giudicati fondanti, e la loro varietà a seconda dell’area geografica e dell’angolo visivo da cui sono esaminati non solo rendono possibili periodizzazioni diverse, ma mettono in rilievo, oltre alle trasformazioni del mondo antico, anche l’apporto fondamentale dei popoli barbari, dei Bizantini sottratti alla pretesa immobilità della loro storia, degli islamici – che oggi, per ovvi motivi, attirano particolarmente l’attenzione –, o di minoranze come quella degli ebrei e degli eretici nella costruzione dell’identità e delle vicende europee.

    Proprio se si considera per intero il crogiolo di popoli e civiltà che hanno contribuito alla prima formazione dell’Europa medievale, e i loro reciproci contatti, anche i confini del continente appaiono mobili e permeabili, costituiti come sono più che da barriere, da aree le cui parti più remote sono interessate da incontri via via più sporadici.

    La stessa separazione fra Oriente e Occidente, conseguente alle migrazioni barbariche, alle spedizioni islamiche, alla separazione e al primato della Chiesa di Roma rispetto a quelle orientali, alla distinzione sempre più marcata dell’Europa rispetto a Bisanzio, che costituisce un tratto distintivo del primo Medioevo, non è stata poi così netta come si potrebbe credere da un esame che tenesse in considerazione soprattutto la riduzione delle vie di comunicazione e del tessuto urbano, la decadenza dei porti e dei traffici, la scomparsa delle scuole e la aumentata distanza sul piano politico e culturale. Basti pensare che Carlo Magno e persino gli Ottoni hanno avvertito la necessità di tenere rapporti con Costantinopoli, che gli Arabi, come è ben noto, hanno trasmesso agli Europei il loro sapere e quello antico, che i musulmani sono stati a più riprese chiamati in soccorso da cristiani contro altri cristiani e si sono accordati spesso con i potenti locali per contrastare loro correligionari, che i Mori sono penetrati in territori vasti come la penisola iberica, e non solo, con forze ridotte, fidando sul favore di popolazioni depresse e oppresse e che non mancano casi, anche importanti, di matrimoni fra fedeli di religioni diverse.

    Proprio su questo versante sono in corso gli studi forse più innovativi, che si propongono di mostrare la permeabilità dell’islam e di contribuire ad abbattere le oggi ventilate barriere religiose e culturali, senza perciò rinunciare a rivendicare il rilievo della specifica tradizione europea, fondata su una particolare pluralità di forme sociali e politiche e sulla loro variabilità.

    Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente a Carlo Magno

    La disgregazione dell’impero romano

    Filippo Carlà

    La disgregazione politica dell’impero romano d’Occidente è l’esito di un percorso storico di lunga durata, riconoscibile già nel III secolo, di regionalizzazione dei territori imperiali, che si configurano sempre più come aree autonome e non integrate. La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 è solo un momento, forse il più visibile a livello storiografico, di questa lunga transizione.

    Tendenze secessioniste

    La frammentazione politica dell’impero romano non è l’esito diretto della deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente nel 476, data convenzionale dell’inizio del Medioevo.

    Tendenze centrifughe si sono infatti manifestate nella compagine imperiale più di due secoli prima: nel corso della crisi del III secolo, e in particolare durante il regno di Gallieno, l’impero si ritrova spezzato in tre tronconi autonomi. A ovest, la rivolta di Postumo porta alla costituzione di un impero gallico (formato da Gallia, penisola iberica e Britannia) che dura per 13 anni sotto Postumo stesso, Mario, Vittorino e Tetrico. A Oriente, invece, la potenza economico-commerciale di Palmira porta alla costituzione di un vero e proprio impero incentrato sulla città carovaniera, sotto il regno di Odenato prima, di Vaballato poi, ma soprattutto, a detta delle fonti, sotto la guida della moglie del primo e madre del secondo, Zenobia. Solo l’imperatore Aureliano riesce a riprendere i due regni secessionisti nel 273 e a ricostituire l’unità imperiale. Già da quel momento, e ancor più nel corso del IV secolo però, si mostra con sempre maggior evidenza la presenza di spinte centrifughe e più in generale di una regionalizzazione in aree sempre più autonome l’una dall’altra e meno integrate in un complesso. Ne sono prova le varie usurpazioni, sempre più legate a un determinato territorio. Lo scopo è spesso proprio la costituzione di regni secessionisti e il riconoscimento di una pari autorità rispetto agli imperatori già esistenti: è il caso ad esempio della ribellione di Carausio, che controlla Britannia e Gallia settentrionale, lasciate alla sua morte ad Alletto e riprese da Costanzo Cloro, ma anche di Magnenzio, Magno Massimo, Costantino III.

    Sono sintomatiche di questo stato anche le rivolte bagaudiche, una serie di fermenti di ribellione che si protraggono, con diverse fasi acute, tra il III e il V secolo in area gallica, dalla distruzione di Autun (269) all’intervento militare di Massimiano, alle periodiche esplosioni di violenza nel V secolo, fino all’ultimo episodio noto, la sconfitta subita nel 453-454 dal visigoto Federico. Le rivolte bagaudiche hanno uno spiccato carattere etnico: il nome stesso sembra di origine celtica, e il movimento risulta caratterizzato da una forte rivendicazione di un’identità indigena e rurale contrapposta alla cultura cittadina romanizzata.

    Riorganizzazione del potere

    È inoltre lo stesso potere imperiale spesso a provvedere alla spartizione del territorio tra diverse figure di regnanti, per quanto di grado diverso, per la difficoltà di governare l’impero come unità e per rispondere alle specificità sempre più marcate di macroregioni differenti (soprattutto diviene forte la differenza, in generale, tra Oriente e Occidente).

    Se la tetrarchia di Diocleziano si occupa di questa spartizione non solo con la divisione dell’impero in quattro parti, ma anche con la ristrutturazione del sistema delle province e con la loro articolazione nelle diocesi e nelle prefetture al pretorio – struttura piramidale che permette una maggiore considerazione delle specificità locali, nelle micro come nelle macroaree –, Costanzo II decide di nominare Cesari prima Gallo poi Giuliano, nella consapevolezza che un potere accentrato è difficilmente gestibile e favorisce l’insorgere di usurpazioni.

    In seguito, Valentiniano I, salito al trono, è responsabile di una vera e propria spartizione dell’impero, associando al trono il fratello Valente, al quale lascia la regnanza sull’Oriente per tenersi il controllo dell’Occidente. La storiografia sta mettendo sempre più in luce come tale spartizione sia già una prefigurazione della grande scissione dell’impero del 395, e abbia dato vita di fatto a due distinte realtà istituzionali vere e proprie in cui, ad esempio, la promulgazione di una legge in una parte non ne comporta l’automatica validità nell’altra e gli eserciti vengono trasferiti da una parte all’altra in caso di bisogno, ma dietro una specifica richiesta di aiuto, come se si trattasse di un altro stato – come accade durante le invasioni gotiche del 378, quando l’esercito occidentale guidato da Graziano è mobilitato dietro richiesta di Valente, ma non arriva in tempo per impedire il disastro di Adrianopoli.

    È dunque da attribuire un peso molto meno forte al gesto di Teodosio che, in punto di morte, lascia l’impero ai due figli: l’Occidente a Onorio, il minore, sotto la guida di Stilicone, e l’Oriente ad Arcadio, il maggiore. L’idea di Teodosio non è quindi molto diversa da quella di Valentiniano, tanto più che è esplicitamente detto che l’impero continua a essere uno solo, divisis tantum sedibus. Ciò che realmente segna una svolta è piuttosto la mancata accettazione a Oriente della supervisione di Stilicone, forse voluta dallo stesso Teodosio su entrambe le parti, che genera una situazione di conflitto, anche armato, tra le due metà, e l’assenza, da questo momento in poi, di una figura che riassuma in sé entrambe le corone.

    Lo stanziamento dei barbari

    Se l’impero d’Oriente, però, con diverse vicissitudini e anche una notevole riduzione territoriale nel corso del VII secolo, a seguito delle invasioni arabe, rimane in piedi come stato centralizzato, in Occidente la disgregazione è piuttosto rapida. Nel 410, il medesimo anno in cui le difficoltà politiche e militari dell’Occidente portano al sacco di Roma da parte di Alarico, è deliberato l’abbandono della Britannia, lasciata a se stessa e ben presto invasa da Angli, Sassoni e Juti (a partire dal 449), che possono insediarsi in un territorio privo di un’autorità statuale organizzata, forse accolti dalle popolazioni locali sulla base di un patto analogo a quelli che Roma stipula nell’Europa continentale.

    Diversa invece è la genesi dei regni romano-barbarici sul territorio continentale. Questi non nascono da potenze straniere che occupano un’area precedentemente imperiale, ma si stabiliscono sul territorio a seguito della stipula di foedera, strumenti diplomatici in uso fin dall’alto impero, tramite cui Roma si intromette nelle questioni interne delle tribù germaniche residenti oltre confine. A partire dall’epoca di Marco Aurelio infatti ha inizio l’uso di accogliere entro il territorio dell’impero barbari inquilini, coltivatori legati alla terra; con Diocleziano si affianca l’uso di accoglierli come laeti e gentiles, coltivatori semiliberi vincolati a un impegno militare, collocati forse su terre pubbliche, e organizzati, a differenza dei precedenti, in gruppi etnicamente compatti.

    Da un’ulteriore evoluzione di queste pratiche, che non sono pertanto un’innovazione tardoantica, derivano i foedera del V secolo, che prevedono lo stanziarsi della popolazione barbarica in una determinata area dell’impero, area in cui un sovrano fa il reggitore in vece dell’imperatore, e in cui le truppe, barbariche, sono da considerarsi a tutti gli effetti truppe di foederati romani – i Visigoti, ad esempio, nel 451 combattono insieme ai Romani contro Attila ai Campi Catalaunici. La legittimazione del potere dei re viene da una delega imperiale che si concreta con l’assunzione da parte loro, oltre che del titolo di rex internamente alla loro comunità, anche di un incarico ufficiale romano, in genere quello di magister militum. Sono realtà possibili dunque solo all’interno dell’impero, nelle quali l’elemento barbarico è sempre numericamente molto inferiore a quello romano. Anche le strutture fiscali e amministrative romane sono in genere mantenute, ad esempio l’organizzazione provinciale capeggiata dai duces rimane nel regno visigoto, spesso lasciando in carica i medesimi personaggi, e in generale dalle cariche romane di dux e di comes derivano i conti e i duchi franchi e longobardi.

    Tra i più importanti foedera di questo tipo ci sono certo da ricordare: quello stipulato nel 382 da Teodosio I con i Goti, cui è consentito di stanziarsi in Tracia in seguito al disastro di Adrianopoli; i due patti del 411 e del 443 che danno vita ai due regni burgundi; il patto che nel 418 concede ai Visigoti – cui già nel 413 è stato consentito di stanziarsi in Narbonense – anche l’Aquitania II, con annessi alcuni territori della Novempopulonia e della Narbonensis I, con capitale Tolosa, da dove si espandono fino a conquistare la Spagna sveva; quello concesso nel 435 e poi violato dai Vandali che occupano tre province dell’Africa settentrionale; e infine il patto fatto con gli Ostrogoti, accolti solo dopo il crollo dell’Impero unnico, nel 456-457, tra la Sava e la Drava.

    Il controllo assunto dalle popolazioni germaniche sul territorio diviene solo progressivamente più completo e indipendente dal potere imperiale, che resta formalmente superiore a livello gerarchico: l’autorità dei reges risulta, per tutto il V secolo, delegata da quella imperiale.

    Lo si vede, ad esempio, nella monetazione, in particolare quella aurea: i regna cominciano quasi subito a battere moneta propria, ma lo fanno a nome degli imperatori; anche in caso di conflitto con l’impero non si mette sulla moneta il nome del re, al massimo si sostituisce il regnante attuale con uno passato, ad esempio quello che aveva stabilito originariamente il foedus. È il caso dei solidi ostrogoti di Totila e Teia con il volto di Anastasio.

    Nel campo del diritto, se pure i regna promulgano leggi autonome, lo fanno nello sforzo di conciliare lo ius romano con il loro diritto consuetudinario: a una prima fase di coesistenza di due diversi diritti per le due popolazioni segue la codificazione in latino delle leggi, che superano limiti di applicazione e sono intese come rivolte all’intera popolazione. Restano come monumenti significativi il Breviarium Alaricianum (506), con cui il re visigoto Alarico II dà al suo popolo (il primo per cui è prodotta legge scritta, con il Codex Euricianus del 470 ca.) un sunto del Codice Teodosiano, e le Variae di Cassiodoro, che riprendono anche le forme dell’editto e del rescritto per testimoniare l’attività legislativa di Teodorico il Grande. La stessa presenza alla sua corte di Cassiodoro, di Boezio e di altri appartenenti all’élite romana è stata più volte notata come segno del desiderio di integrazione del sovrano ostrogoto.

    La deposizione di Romolo Augustolo

    Nel 476, dunque, soldati di stanza in Italia, non ottenendo dal magister militum Oreste lo statuto di foederati, eleggono come re Odoacre, procedendo alla deposizione del figlio di Oreste, Romolo Augustolo. Che l’evento sia stato o meno una caduta senza rumore, come viene definita da Arnaldo Momigliano, è certo che si tratta di un gesto che si inserisce in una trama di lunga durata, che ha alle spalle una storia di frammentazione regionale, acquisizione e desiderio di autonomie che si fanno sempre più marcati e di una compagine mediterranea inizialmente integrata che si disgrega in una serie di regioni miranti a una propria autosufficienza politica ed economica.

    Rimandi

    Le migrazioni barbariche e la fine dell’impero romano d’Occidente

    Giustiniano e la riconquista dell’Occidente

    L’Impero bizantino fino al periodo dell’iconoclasmo

    Dalla città alla campagna

    Filippo Carlà

    La storiografia tradizionale individuava nell’abbandono delle città per le campagne uno dei segni della fine dell’antichità. La realtà delle strutture urbane tardoantiche e altomedievali è assai più complessa, e va spiegata più in termini di trasformazione che di declino: motivi propagandistici, politici, economici ed ecclesiastici si intrecciano infatti nel determinare un riposizionamento di città e campagna nei loro rapporti reciproci.

    L’abbandono delle città

    La storiografia tradizionale ottocentesca considerava uno dei tratti distintivi del passaggio al Medioevo l’abbandono delle città e il trasferimento della popolazione nelle campagne, presso i latifondi aristocratici, in connessione con la teorica genesi del nuovo modo di produzione feudale, con il cosiddetto sistema curtense, assai più fortemente basato sull’autosussistenza, e con il declino dei commerci. I centri urbani si sarebbero dunque spopolati e in parte trasformati in semplici villaggi, con ampi tratti di aree rurali inclusi anche all’interno delle mura. Inoltre il trasferimento delle attività artigianali e commerciali sui fondi rurali avrebbe comportato una perdita di specificità economica delle città. Di fronte al mondo antico, fortemente urbanizzato, in cui la città, simbolo stesso del vivere civile e associato, è il centro di consumo e di smistamento delle risorse prodotte nel territorio circostante (che si voglia parlare di città parassita o di città produttiva), il mondo altomedievale sarebbe invece soprattutto rurale. In sostanza è necessaria una definizione a monte di città, non puramente nel suo dato edilizio, ma in senso politico e sociale: è evidente infatti che certi edifici, tipici della città antica, come il teatro e l’anfiteatro, scompaiono, ma il dato è significativo dal punto di vista culturale, non della definizione degli insediamenti urbani.

    Sedi episcopali

    Con profonde trasformazioni, quale è la sparizione, con il VI secolo, delle curie e delle magistrature cittadine, i centri urbani restano in età altomedievale un nucleo di potere riconoscibile, in particolare grazie alla presenza dei vescovi, autorità sempre più influenti in campo politico e amministrativo.

    La scelta, compiuta ancora in epoca romana secondo la linea indicata da Origene, di insediare i vescovi nelle città amministrativamente più importanti dell’impero fa sì che esse, nonostante il crollo istituzionale e le trasformazioni sociali, nel sempre maggiore potere delle strutture ecclesiastiche, restino importanti centri organizzativi e gestionali del circondario. Allo stesso modo, da un punto di vista urbanistico ed edilizio, è proprio la cristianizzazione della città, non nel senso della costruzione di chiese, ma della creazione di nuovi spazi centrali e di un completo riorientamento urbanistico, il segno di trasformazione e di discontinuità più forte tra la città classica e la città medievale. Anche se sono le differenze locali a prendere il sopravvento, e simili transizioni avvengono nelle diverse aree con tempi propri, si possono indicare in generale come momento di svolta cruciale in questo processo i decenni a cavallo tra il VI e il VII secolo.

    Declino e trasformazione

    Si deve riconoscere l’importanza del ruolo svolto in questo campo, specie a partire dagli anni Settanta del Novecento, dall’archeologia medievale, che ha permesso, attraverso l’individuazione delle strutture edilizie, una più corretta definizione degli spazi urbani e del loro supposto ripiegamento su se stessi, non solo con l’identificazione sempre più precisa di tracce estremamente labili, come le buche di palo, ma anche attraverso un’ampia revisione delle cronologie fino a quel momento utilizzate. Il dibattito si è quindi spostato dalla categoria di declino a quella di trasformazione (e al tempo stesso, per altri aspetti, di continuità): tutte e tre sono in realtà legittimamente utilizzabili per singoli aspetti architettonici, abitativi o sociali, ma difficilmente riunibili in un quadro d’insieme.

    Trasformazione e sopravvivenza della città romana

    Che nelle città tardoantiche si mostri un cambiamento strutturale e funzionale è un dato di fatto ineliminabile: a partire dal III secolo perdono di visibilità le magistrature locali e le curie, ne acquistano le gerarchie ecclesiastiche, cambia l’aspetto fisico dei centri urbani, con la costruzione o ricostruzione delle cinte murarie e l’inserimento delle nuove sedi del potere religioso e civile. Al tempo stesso si va perdendo la specificità amministrativa e giuridica delle singole città, omologate all’interno di una più forte autorità centrale che toglie loro alla fine del III secolo, ad esempio, il diritto di battere autonomamente moneta. Lo dimostra il fatto che Menandro, retore in età dioclezianea, in un’opera che mira a definire il corretto modo di scrivere un elogio di città, e che attesta quindi una pratica retorica ancora fiorente legata alla celebrazione delle strutture cittadine, sottolinei come tutte le città siano ormai governate da un’unica legge, e dunque tutte uguali. Già Aulo Gellio, però, nel II secolo rilevava la perdita di significato della distinzione classica tra colonia e municipio, e buona parte della differenziazione tra i diversi gradi di città era stata svuotata di significato dalla concessione della cittadinanza romana a tutti i provinciali dell’impero con la Constitutio Antoniniana di Caracalla nel 212 o 214.

    Ciononostante, è lo statuto stesso di città a essere ancora considerato, nel IV secolo, sinonimo e simbolo del vivere civile, come ha rivelato in particolare l’epigrafe di Orcisto (CIL III, 352 = MAMA VII, 305), dossier di documenti che mostrano, nel 331-332, una vicenda amministrativo-giudiziaria degli anni precedenti.

    Il centro di Orcisto, degradato al rango di vicus e attribuito alla vicina Nacolia, chiede a Costantino di essere reintegrato nello statuto di città, adducendo come motivo, tra le altre cose, non solo l’antichità dell’agglomerato, l’autonomia che aveva in passato, le vessazioni subite da Nacolia, ma anche la posizione geografica, un importante incrocio viario, e la presenza di tutte le infrastrutture necessarie al vivere urbano (i caratteri della ville-vitrine altoimperiali), dalla stazione di posta, al foro adornato di statue, ad acquedotti e terme, fino ai mulini ad acqua, indizio di attività economiche fiorenti. Il modello classico del centro urbano è perciò in questo momento tutt’altro che defunto, e anzi opera ancora attivamente nel dibattito politico. Se ne deduce addirittura l’esistenza di un vero e proprio catalogo dei centri definibili come città, forse istituito da Diocleziano per ragioni fiscali, l’appartenenza al quale aveva un importante risvolto di immagine e propaganda civica. Le stesse titolature delle città resistono a lungo, e sono usate come espressione dell’orgoglio civico: lo mostra anche il centro africano di Thubursicu Bure, municipio a detta dei suoi stessi abitanti ancora sotto Gallieno e promosso a colonia con Giuliano, mentre ancora una costituzione onoriana del 405 (CTh XI, 20, 3) sembra rispecchiare un ordine gerarchico discendente nell’indicare " civitates, municipia, vicos, castella ".

    Differenze regionali

    Anche in questo settore sarebbe quindi forse opportuna una più forte distinzione dei singoli ambiti regionali: in un contesto, quale quello tardoantico, in cui l’unità imperiale si spezzetta in quelli che diventano gradualmente regni indipendenti, e l’integrazione, politica ed economica, viene progressivamente meno, anche il ruolo delle città risulta diverso da area ad area. In Gallia vi è un più precoce declino delle strutture urbane, che restano centri amministrativi ma perdono numerosi abitanti, mentre i notabili locali abitano prevalentemente nelle aree rurali, e le città si configurano sempre più come la sede del potere vescovile già nel V secolo. Le città spagnole, come quelle africane, per cui si può parlare di completo declino solo con la fine del VI e gli inizi del VII secolo, invece, sembrano mantenere più a lungo i connotati dell’urbanizzazione classica. In Italia, tolto il caso di Roma, che resta evidentemente a sé stante per dimensioni e dinamiche, il regno ostrogoto, come testimonia Cassiodoro, mantiene ancora fortemente in vita l’ideale classico della città e delle sue strutture amministrative, rivitalizzando fortemente nella pubblicistica l’idea della curia, e un punto di cesura è individuabile solo con i Longobardi nelle aree in cui essi si insediano. L’Oriente bizantino, a sua volta, mantiene strutture urbane decisamente più vitali almeno fino al VII secolo e alla riforma dei temi con cui Eraclio modifica radicalmente la struttura amministrativa dell’impero di Bisanzio.

    Tendenze generali

    Con queste dovute differenze si può notare però in generale, tra il V e il VII secolo, un indebolimento delle strutture urbane a favore degli agglomerati minori sparsi nella campagna, i quali da un lato si fanno i centri locali delle attività economiche del circondario, di respiro più ristretto che in precedenza, mentre dall’altro l’esistenza di poteri politici di dimensioni assai più ridotte dell’antico impero rende superflua l’intermediazione della città tra realtà locale e potere centrale. Le attività artigianali si dislocano dai centri urbani agli agri, così come, spesso, le sedi dei mercati periodici. Le élite aristocratiche, infine, specie in determinate aree come la Gallia merovingia, preferiscono risiedere non più nel centro urbano ma nelle loro proprietà terriere, attirandovi numerose strutture produttive e spostando dunque, almeno in parte, il baricentro economico e amministrativo dalla città al territorio.

    Quello che sembra spezzarsi è l’unitarietà dei diversi piani di rapporto e di dipendenza tra centro urbano e agro pertinente: se nel mondo romano la città valeva come centro economico, amministrativo, religioso per un territorio soggetto, delimitato da precise pertiche di confine, la città altomedievale può, ad esempio, essere centro religioso per una determinata estensione territoriale che non coincide con quella di cui è capoluogo amministrativo, mentre il fulcro della vita economica si sposta nelle campagne. La percentuale di popolazione insediata in un centro urbano, che in epoca romana sembra fosse del 10-20 percento, non raggiungerà per secoli valori analoghi. È dunque l’intero sistema del reticolo di città messo in piedi con la romanizzazione a sgretolarsi in una più complessa sovrapposizione e intersezione di piani differenti, in un fenomeno che è stato definito da Lellia Ruggini come pseudomorfosi, perché trasformazione qualitativa di una struttura che esternamente appare immutata.

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