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Identità preistoriche: Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente
Identità preistoriche: Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente
Identità preistoriche: Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente
E-book399 pagine5 ore

Identità preistoriche: Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente

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Info su questo ebook

A livello di cultura generale è ancora oggi molto diffusa l’idea secondo cui l’umanità avrebbe sperimentato una progressiva evoluzione da forme “semplici” e originariamente egalitarie di vita collettiva a società “complesse” inevitabilmente gerarchiche. La Rivoluzione Neolitica, ossia la nascita dei primi villaggi permanenti e delle prime economie agricole circa 10.000 anni fa, avrebbe rappresentato un punto di svolta decisivo, perché avrebbe instradato in modo irreversibile l’umanità su un percorso all’insegna della disuguaglianza e dello sfruttamento.
I dati raccolti dagli archeologi in più di un secolo di studi sul Neolitico del Vicino Oriente, tuttavia, mettono in discussione questa ricostruzione. Sembra infatti che i nostri antenati neolitici siano riusciti a prevenire con successo per diversi millenni lo sviluppo di società stratificate e di istituzioni politiche centralizzate e oppressive, e questo nonostante le sfide generate dalla vita sedentaria e le allettanti opportunità offerte dalle nascenti economie di produzione.
Ma dove risiede la chiave per risolvere questo (apparente) enigma?
L’autore suggerisce che per tentare di comprendere l’organizzazione sociale preistorica dobbiamo ripensare alla radice il modo in cui definiamo nozioni come quelle di “persona”, “società” e “potere”, concentrandoci in particolare sulla complicata relazione di reciproca dipendenza che ci lega alle cose e sul rapporto altrettanto complesso che intratteniamo con le forze e le entità che ascriviamo da sempre alla sfera della trascendenza.
LinguaItaliano
Data di uscita19 feb 2024
ISBN9791280075727
Identità preistoriche: Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente

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    Anteprima del libro

    Identità preistoriche - Stefano Radaelli

    COVER_identita-preistoriche-RGB.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2024 Oltre S.r.l.

    www.librioltre.it

    ISBN 979-12-80075-72-7

    isbn_9791280075727.jpg

    Titolo originale dell’opera:

    Identità preistoriche

    Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente

    di Stefano Radaelli

    a cura di Roberto Maggi

    Marchio editoriale Oltre edizioni

    Collana Passato remoto

    diretta da Roberto Maggi

    prima edizione cartacea: giugno 2023

    con ISBN 9791280075635

    logo-oltre%2bscritta_POS.psd

    Ai miei genitori Carla e Claudio,

    per il costante sostegno e incoraggiamento

    Un ringraziamento speciale va all’editore, Paolo Paganetto, per aver creduto con entusiasmo a questa impresa e al Prof. Roberto Maggi per aver offerto il suo imprescindibile contributo al miglioramento del testo e dei suoi contenuti. Un ringraziamento particolare lo rivolgo poi a Daniela Marchitto, che non solo mi ha incoraggiato a trasformare l’idea di partenza, ancora appena abbozzata, in un progetto editoriale, ma mi ha offerto alcuni preziosi consigli per rendere il lavoro più digeribile.

    Introduzione

    Perché le società umane sono diseguali? Perché, cioè, esistono ricchi e poveri, governanti e governati, ceti dominanti e classi subordinate?

    Ad alcuni sembrerà forse una domanda ingenua, e non mi stupirei se a chi legge venisse spontaneo rispondere che le società sono diseguali semplicemente perché funzionano così, da sempre. L’idea secondo cui la disuguaglianza sarebbe un aspetto inevitabile e universale della socialità umana, d’altra parte, è stata messa in discussione in modo sistematico solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento dell’era moderna.

    Secondo l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengrow il dibattito sulla natura, le cause e le origini della disuguaglianza che tiene banco da almeno tre secoli può essere visto in parte come una conseguenza del contatto degli europei con le popolazioni indigene del Nuovo Mondo.¹ La vita sociale e politica di quei popoli incarnava una sfida senza precedenti per le categorie occidentali perché sembrava dimostrare che molte cose che venivano date per scontate, come ad esempio la monarchia, la proprietà privata e l’organizzazione patriarcale della società erano in realtà assai meno naturali e universali di quanto si fosse creduto fino a quel momento.

    Le istituzioni che governavano la vita collettiva dei Nativi assumevano forme così differenti da quelle familiari a coloni, missionari ed esploratori, che risultava molto difficile inquadrarle in base ai riferimenti concettuali allora prevalenti. Il potere di capi e sovrani, ad esempio, oscillava spesso tra manifestazioni estreme di arbitrarietà e la frequente incapacità di imporre le decisioni ai sudditi in modo coercitivo. Le concezioni indigene della proprietà si basavano su principi differenti rispetto a quelli codificati dal Diritto occidentale, al punto da spingere il filosofo John Locke, capostipite del pensiero liberale moderno, a descrivere le pianure del Nord America come grandi estensioni di terreno che giacciono improduttive:² il fatto che quelle terre non fossero rivendicate, suddivise e messe a profitto era visto come sufficiente a giustificarne l’appropriazione indiscriminata da parte dei coloni. Infine, i costumi sessuali di quelle popolazioni e il modo in cui si strutturavano i rapporti tra uomini e donne contraddicevano spesso le categorie patriarcali che sembravano tanto ovvie e naturali.

    Riconoscere che per certi versi le società native erano più libere di quelle occidentali nel momento stesso in cui le si sottoponeva a espropri e genocidi generava una dissonanza cognitiva non indifferente. Un primo modo con cui la coscienza europea affrontò questo problema fu quindi quello di sostenere che la loro era, in realtà, una forma sbagliata di libertà: una tesi, questa, ben presente negli scritti dei padri del pensiero politico e sociale moderno, e in particolare nella distinzione che essi introdussero tra la libertà sciolta da qualsiasi vincolo che prevarrebbe nel cosiddetto stato di natura e la libertà addomesticata dal lavoro e dalla ragione che starebbe invece alla base del vivere civile.³

    Si fece così strada l’idea per cui le società indigene incontrate dagli europei sulla spinta delle esplorazioni geografiche e dell’espansione coloniale funzionavano come funzionavano per via del loro carattere semplice, primitivo e selvaggio. Questo presupposto, tuttavia, venne sviluppato in due modi diametralmente opposti. Se alcuni pensatori interpretarono le istituzioni indigene come il prodotto di modelli di convivenza moralmente inferiori rispetto a quelli europei, altri rovesciarono questa prospettiva in modo audace e provocatorio. Nel suo celebre Discorso sulle origini della disuguaglianza, pubblicato nel 1754, Jean-Jacques Rousseau sostenne ad esempio che proprio per la loro semplicità le forme di convivenza delle società native erano assai più in linea con le inclinazioni fondamentali della natura umana; era la vita civile tanto cara all’uomo europeo, semmai, ad essere il frutto di un percorso di degenerazione che, nel tempo, aveva portato l’umanità ad allontanarsi sempre di più dalla sua essenza più profonda e autentica.

    A dispetto delle loro divergenze, e proprio perché partivano dal comune presupposto per cui quelle culture erano primitive e semplici, queste due prospettive finivano per immaginarle come realtà congelate a uno stadio che precedeva il pieno sviluppo della civiltà. Poco importa se questo congelamento nel passato veniva dipinto come una forma di barbarie o come una condizione di innocenza tutto sommato felice e desiderabile; si trattava pur sempre di uno stadio meno evoluto della socialità umana, concepito come il prodotto di capacità cognitive a loro volta meno raffinate: come hanno sottolineato acutamente Graeber e Wengrow, più che il mito del buon selvaggio che gli è stato solitamente attribuito, negli scritti di Rousseau incontriamo in realtà il mito dello stupido selvaggio.

    Nella seconda metà dell’Ottocento il dibattito su questi temi conobbe una svolta importante. Con la diffusione delle teorie evoluzioniste di Darwin e con la nascita dell’archeologia cominciò infatti a farsi largo la consapevolezza che la vicenda umana si estendeva molto più indietro nel tempo di quanto si fosse ritenuto fino a quel momento. Non solo prima del mondo classico erano fiorite civiltà di cui si era in larga parte persa la memoria, ma il passato includeva un periodo lunghissimo che precedeva persino la comparsa delle prime città, dei primi regni e delle prime testimonianze scritte. Se fino a quel momento la visione di questa lunga infanzia dell’umanità era stata codificata a partire dal racconto biblico, diventava ora possibile formulare, a riguardo, delle vere e proprie ipotesi scientifiche.

    Tanto per cominciare, divenne chiaro che la nostra specie, alla pari di tutte le altre, non era sempre esistita ma era il prodotto di milioni di anni di evoluzione; la storia umana iniziò quindi ad essere letta come parte di una più ampia storia naturale. Divenne chiaro, inoltre, che anche dopo aver raggiunto una conformazione fisica e cognitiva assimilabile a quella degli esseri umani moderni, i nostri antenati avevano vissuto per decine di migliaia di anni cacciando animali selvatici e raccogliendo noci e frutta, conducendo una vita nomade e servendosi di utensili in pietra. Questo lungo periodo che precedeva l’epoca storica venne battezzato Preistoria.

    Alla luce di quanto abbiamo visto finora non sorprende che i filosofi, i sociologi e gli antropologi dell’epoca abbiano istituito un parallelismo tra le società preistoriche portate alla luce dall’archeologia e le società indigene. Se già agli occhi di Rousseau queste società incarnavano uno stadio dello sviluppo umano anteriore alla nascita della civiltà, la scoperta di mondi sepolti in un passato così remoto e all’apparenza assimilabili alle realtà indigene non fece altro che rafforzare quest’idea. Si fece insomma largo la convinzione che fosse finalmente possibile dare un fondamento empirico alla tesi secondo cui la vita collettiva delle popolazioni native era una sorta di organo vestigiale dello sviluppo sociale. Accanto all’idea di un’evoluzione naturale cominciò così a consolidarsi l’idea di un’evoluzione socio-culturale che, nel lungo periodo, avrebbe instradato le società umane verso forme di convivenza via via più complesse.

    Secondo le ricostruzioni evoluzionistiche l’organizzazione economica e socio-culturale cambia sulla spinta di diversi fattori, tra cui spiccano quelli ambientali e demografici. Si tratterebbe di un processo selettivo, in cui a sopravvivere nel tempo sono i modelli più efficaci nella gestione delle risorse naturali e umane. Questo processo, inoltre, manifesterebbe un andamento convergente: tutte le società, sia pure con ritmi differenti, percorrono grosso modo le stesse tappe evolutive, vuoi in risposta a trasformazioni nel clima, nella tecnologia e nelle dinamiche demografiche, vuoi per il contatto con popolazioni che hanno già superato in modo autonomo le fasi precedenti.

    L’utilizzo del concetto di evoluzione nelle scienze umane presenta però diversi problemi.

    Un primo problema risiede nel fatto che esso rimanda spesso a un’impostazione pre-darwiniana, ereditata dai pensatori che nel XVIII secolo elaborarono una concezione della storia umana come sequenza di stadi successivi di sviluppo. Questa visione, abbozzata già da Rousseau e Turgot, trova riscontro anche nell’Illuminismo scozzese, in particolare nelle teorie di James Burnett e William Robertson,⁶ e sarebbe poi ricomparsa nell’antropologia e nella teoria sociale della seconda metà dell’Ottocento, ad esempio nel pensiero di Lewis Henry Morgan, Edward Burnett Tylor e Friedrich Engels. Essa, infine, è alla base degli approcci neo-evoluzionistici elaborati intorno alla metà del Novecento da antropologi come Leslie White, Julian Steward, Morton Fried ed Elman Service.⁷

    Si tratta di un’idea di evoluzione che differisce in modo abbastanza marcato da quella prevalente in ambito biologico, dove i processi evolutivi sono concepiti come il prodotto dell’azione selettiva dell’ambiente sulla naturale variabilità delle popolazioni di esseri viventi, indotta a sua volta da mutazioni genetiche casuali. Le prospettive macroevolutive, come la teoria degli equilibri punteggiati sviluppata da Stephen J. Gould e Niles Eldredge,⁸ spiegano i fenomeni evolutivi concentrandosi più sullo sviluppo di schemi organizzativi generali (baupläne) che sulla selezione progressiva e graduale di singoli tratti adattativi; anch’esse, però, mal si conciliano con l’idea di un percorso che procede meccanicamente per step successivi.

    Un secondo problema risiede nel fatto che le teorie antropologiche di matrice evoluzionista astraggono dagli ipotetici stadi dello sviluppo socio-culturale delle categorie tassonomiche che vengono poi impiegate per elaborare una classificazione tipologica dei modelli economici, sociali e politici. Secondo una delle sintesi neo-evoluzioniste più note, quella proposta da Service, dalle prime bande nomadi di cacciatori-raccoglitori si sarebbe passati a forme più complesse di organizzazione tribale che si sarebbero poi ulteriormente evolute dando origine ai chiefdom, ossia a società governate da una leadership formale. I chiefdom, a loro volta, sarebbero poi sfociati nelle prime forme di organizzazione statale propriamente detta.⁹ Banda, tribù, chiefdom e stato vengono quindi intesi come tipologie generali di organizzazione sociale, per cui ogni società umana potrà essere classificata in base a queste categorie a seconda del particolare stadio di sviluppo in cui si colloca.

    In un’ottica di questo tipo la nascita dello stato tende ad essere vista come il culmine di un processo iniziato migliaia di anni fa, mentre le varie formule organizzative sperimentate dall’umanità nel corso della storia si configurano ciascuna come la preparazione della fase successiva e, in ultima analisi, come una lunga anticipazione delle strutture sociali e politiche che contraddistinguono il mondo moderno e contemporaneo. Il rischio di queste teorie, in altre parole, è quello di ricadere in una visione teleologica, in cui lo sbocco finale del processo spiega in retrospettiva tutti gli sviluppi precedenti.

    L’applicabilità del concetto di evoluzione in ambito storico e antropologico, insomma, è e rimane un tema controverso. Può aver senso parlare di un’evoluzione socio-culturale in analogia con i processi biologici, ma se l’analogia ha un fondamento ciò è dovuto al fatto che lo sviluppo socio-culturale, al pari dell’evoluzione naturale, non ha affatto un andamento teleologico e non avanza per stadi successivi ben distinti. Melinda Zeder sostiene ad esempio che i concetti elaborati nell’ambito delle teorie macroevolutive possano essere adattati all’analisi delle dinamiche sociali e culturali di lungo periodo, ma mette in guardia dalla tentazione di applicarli in modo acritico allo studio della sfera sociale e culturale umana.¹⁰ La storia dell’umanità è certamente costellata dalla comparsa di tecnologie, forme di organizzazione sociale, assetti economici e politici, pattern culturali che si consolidano nel tempo, aprendo di volta in volta la strada a nuovi potenziali sviluppi; se questo dato di fatto può dare l’impressione di un percorso lineare, coerente e unitario, tuttavia, le cose sono molto più complicate di così.

    Veniamo così al terzo problema. A dispetto delle loro alterne fortune nel dibattito specialistico,¹¹ le ricostruzioni in chiave evoluzionistica esercitano ancora oggi una profonda influenza a livello di cultura generale. Un loro aspetto, in particolare, ha aderito in modo molto pervicace alla nostra visione dei processi storici di lungo termine, ed è la tesi secondo cui a scandire l’evoluzione socio-culturale sarebbe stato un percorso verso una crescente complessità sociale.

    L’idea per cui nel corso della storia umana si sarebbe assistito a un aumento della complessità sembra riflettere un’intuizione piuttosto ovvia. L’umanità vive oggi in un mondo globalizzato in cui il progresso scientifico e tecnico rende possibili cose inimmaginabili anche solo qualche decennio fa. Lo sviluppo della conoscenza, gli avanzamenti tecnologici, la creazione di strutture di governance globale e un’economia di mercato che coinvolge l’intero pianeta hanno dato vita a reti di interdipendenza talmente intricate che persino un evento locale può avere effetti dirompenti sull’intero sistema. Sappiamo anche, però, che il mondo non è sempre stato così. Come negare, allora, che la realtà sociale, economica e politica è oggi più complessa di quanto non lo fosse dieci, cento, mille o diecimila anni fa?

    Che le interconnessioni e le interdipendenze a livello planetario si siano moltiplicate è un fatto innegabile, e a prima vista l’idea di una complessità sociale che aumenta nel tempo sembra catturare molto bene questo fenomeno. Tuttavia, se si parte dal presupposto per cui le società moderne e contemporanee sarebbero più complesse di quelle pre-moderne, antiche o preistoriche, si arriva alla conclusione per cui quelle società erano più semplici della nostra.

    Penso che non si sottolineerà mai abbastanza quanto sia ingenerosa e fuorviante l’idea secondo cui durante la Preistoria la vita economica, sociale e politica sarebbe stata più semplice di quanto lo sia oggi. È vero: l’umanità non dipendeva dal complesso apparato di conoscenze specialistiche, tecniche amministrative, catene globali di distribuzione ecc. che domina le nostre vite nelle società contemporanee; al tempo stesso, però, l’assenza di tutto ciò non semplificava affatto la vita dei nostri lontani antenati, costretti a destreggiarsi quotidianamente tra attività diversificate per garantire la propria sopravvivenza in ambienti soggetti a cambiamenti imprevedibili e a confrontarsi con i propri simili senza la mediazione di sistemi istituzionali e legali formalizzati. Definire semplici le società del passato ha in definitiva poco senso: l’organizzazione collettiva richiede sempre lo sviluppo di strategie di convivenza e formule culturali in grado di far funzionare la vita sociale, e tanto basta, a mio avviso, per considerare qualsiasi società umana – non importa quanto piccola e all’apparenza primitiva – come un’entità complessa.

    Se però spostiamo l’attenzione dalla presunta evoluzione dei paradigmi economici, sociali e politici al rapporto di stretta dipendenza reciproca che connette il mondo umano al mondo delle cose si può tranquillamente assumere che questa dipendenza si sia approfondita nel corso del tempo, dando origine a un processo cumulativo e inflattivo. Da un lato, questo approccio consente di far salva l’intuizione secondo cui la vita nel mondo di oggi si svolge all’insegna di una rete di dipendenze e interconnessioni che per la sua portata non trova riscontro nelle epoche precedenti; dall’altro lato, però, esso permette anche di riconoscere che in ogni particolare fase storica le collettività umane hanno affrontato i problemi posti dal loro rapporto con il mondo materiale dando vita a società altrettanto complesse. Non esiste insomma una gerarchia di complessità tra i modelli economici, sociali e politici più recenti e quelli più arcaici, ma soltanto forme differenti di complessità; concepire la storia profonda dell’umanità come un’evoluzione dalla semplicità alla complessità sociale rischia solo di portarci fuori strada.

    C’è inoltre un altro aspetto che va considerato; se da certi punti di vista la vita collettiva sembra essere diventata più complessa, è altrettanto legittimo sostenere che essa, parallelamente, è stata sottoposta a un importante processo di semplificazione, e questo perché le istituzioni che regolano la vita delle società che definiamo complesse trovano la loro ragion d’essere proprio nel fatto di rendere la socialità umana più prevedibile e controllabile. Per fare un esempio pensiamo alla burocrazia statale e alla moneta: a dispetto delle innumerevoli complicazioni che introducono nelle nostre vite quotidiane, invenzioni di questo tipo hanno consentito di gestire le relazioni tra persone a dei livelli d’astrazione prima impensabili.

    Se proprio vogliamo ragionare in termini di complessità e semplicità, insomma, dobbiamo partire dal presupposto per cui alla base del cambiamento socio-culturale c’è una dialettica tra due tendenze: una che spinge verso rapporti sempre più complessi tra persone e cose e un’altra che si manifesta invece come un perenne tentativo di semplificare quella complessità. Il modo migliore per fare i conti con le società del passato consiste allora nel riconoscere che esse, anziché collocarsi ai vari gradini di un’immaginaria scala che va da una semplicità originaria alla complessità del mondo contemporaneo, si sono basate su equilibri tra queste due tendenze molto diversi da quelli a cui siamo abituati.

    Questa riformulazione diventa tanto più necessaria se si considera un ultimo aspetto problematico delle prospettive evoluzioniste, ossia l’idea secondo cui esisterebbe una forte correlazione tra l’evoluzione della complessità e lo sviluppo della stratificazione sociale: il passaggio da società semplici a società complesse sarebbe cioè andato di pari passo con una progressiva transizione da società originariamente egalitarie a società sempre più diseguali. Man mano che le forme della vita economica evolvevano verso una crescente capacità di dominio sui fenomeni naturali, i modelli di convivenza, le formule politiche e i paradigmi culturali avrebbero dovuto garantire una maggiore capacità di controllo sui fenomeni sociali; la divisione del lavoro, la stratificazione in classi e lo sviluppo di istituzioni impersonali e coercitive (amministrazioni burocratiche, stato centralizzato, esercito ecc.) sarebbero state quindi l’inevitabile corollario di un adattamento sempre più efficace alle pressioni sia ambientali (esterne) che sociali (interne).

    Secondo questa visione le forme di disuguaglianza a noi familiari vanno interpretate come l’inevitabile conseguenza del progresso economico e tecnologico e dell’affinamento delle strategie politiche elaborate per gestire al meglio le conseguenze delle innovazioni introdotte strada facendo. Non solo: esisterebbero società distintamente egalitarie e società distintamente gerarchiche, e le seconde si sarebbero sviluppate nel tempo dalle prime come conseguenza di un processo adattativo.

    In questo saggio, al contrario, sosterrò che l’organizzazione sociale umana non è originariamente gerarchica tanto quanto non è originariamente egalitaria; queste due categorie intercettano dinamiche presenti in tutte le società umane, per cui ogni modello di convivenza sperimentato dalla nostra specie va visto il prodotto di un equilibrio tra tendenze egalitarie e tendenze gerarchiche. Così come non esiste un percorso universale e inevitabile dalla semplicità alla complessità, non esiste neppure un percorso universale e inevitabile che conduce dall’egalitarismo alla gerarchia. Il fatto che alcune soluzioni vadano più in una direzione o nell’altra, portando allo sviluppo di società rigidamente stratificate o di società che al contrario riescono a prevenire o correggere esiti di questo tipo, dovrà essere spiegato di caso in caso.

    Questo modo di affrontare la questione, tra i suoi diversi meriti, ha quello di attribuire un ruolo decisivo alla agency umana. Il cambiamento socio-culturale e politico è chiaramente sottoposto a dei vincoli oggettivi da cui è difficile, e talvolta persino impossibile, liberarsi del tutto; a dispetto di questi vincoli, però, abbiamo sempre dei margini di manovra. Insomma: non sta scritto da nessuna parte che l’equilibrio tra tendenze egalitarie e tendenze gerarchiche debba pendere per sempre e in modo necessario verso lo sviluppo di disuguaglianze rigide e permanenti; il nostro futuro come specie, in questo come in tanti altri aspetti, non smette di dipendere dalle nostre scelte, e spetta quindi a noi capire quale ruolo intendiamo ritagliarci nel cambiamento e in quale direzione lo vogliamo orientare.

    Le testimonianze archeologiche relative alla Preistoria, e in particolare quelle raccolte negli ultimi decenni, sembrano confermare la validità di questo approccio, perché delineano una visione del nostro passato profondo molto più sfumata, complessa e affascinante di quella restituitaci dalle ricostruzioni evoluzionistiche.

    In questo saggio ho trattato diversi aspetti del periodo che si estende dal Paleolitico Superiore all’età protostorica, ossia grosso modo da 50.000 a 6000 anni fa, ma mi sono concentrato in particolare su un’area geografica – il Vicino Oriente – e su una fase specifica della sua preistoria – il Neolitico, che nella regione va da circa 10.000 a circa 7000 anni fa. La scelta è legata al fatto che nonostante la nascita dei primi villaggi sedentari e l’emergere delle prime economie agricole, le comunità umane della regione sembrano essere riuscite a prevenire per millenni la comparsa di società divise in classi, di strutture di potere centralizzate e coercitive e di forme di sfruttamento economico a vantaggio di élite privilegiate – e questo non certo perché le società neolitiche fossero semplici. L’assenza di stratificazione sociale che sembra averle caratterizzate, insomma, smentisce sia la presunta correlazione tra lo sviluppo di economie di produzione e la comparsa di forme cristallizzate e permanenti di disuguaglianza, sia l’idea di un’evoluzione lineare dalla semplicità alla complessità sociale.

    La comprensione del Neolitico a livello di cultura generale, purtroppo, è ancora oggi materia di fraintendimenti e manipolazioni. Lasciando per un attimo da parte le prospettive evoluzionistiche, sulle quali tornerò più volte in seguito, ci sono altre metanarrazioni che incidono in modo deleterio sulla comprensione del nostro lontano passato. Nella cultura di massa, ad esempio, godono ancora oggi di un’allarmante popolarità teorie pseudo-storiche e pseudo-archeologiche che sostengono l’esistenza di una civiltà avanzata che sarebbe stata spazzata via da un cataclisma alla fine dell’Ultima Glaciazione, circa 12.000 anni fa. Secondo coloro che sostengono posizioni del genere, le conoscenze, le capacità tecnico-ingegneristiche e le visioni del mondo delle civiltà sorte in Asia, in Africa e in America a partire dall’Età del Bronzo sarebbero l’eredità di questa civiltà perduta.

    Queste teorie non si limitano a diffondere una ricostruzione completamente infondata dal passato, ma hanno anche delle conseguenze più insidiose. Vedere le prime civiltà storiche come il residuo di una civiltà precedente, che viene definita avanzata in base ai nostri parametri su cos’è avanzato e su cosa non lo è, significa fare un torto enorme non solo a Egizi, Sumeri, Maya e Inca ma anche ai nostri antenati preistorici. Il Neolitico, in particolare, tende a essere rappresentato da queste teorie come una fase di decadenza e di lento recupero dopo il crollo della civiltà primigenia. Dire però che le società neolitiche erano meno avanzate rispetto a questa presunta civiltà, e che i loro aspetti più complessi e sorprendenti erano il frutto della memoria degradata di un precedente contatto con essa, ha delle implicazioni piuttosto problematiche.

    Il profilo della civiltà perduta viene infatti delineato prendendo come riferimento il nostro modello di civilizzazione o un suo ipotetico superamento all’insegna di una palingenesi dai toni misticheggianti e New Age. Questa civiltà viene cioè definita avanzata perché si ritiene che l’umanità avrebbe sviluppato in un’epoca remota i tratti che consideriamo tipici delle civiltà storiche occidentali.

    Le teorie pseudo-archeologiche, inoltre, rimuovono persino il problema delle origini. Se davvero le civiltà antiche fossero cresciute sui rimasugli di una civiltà precedente spazzata via da un evento catastrofico, verrebbe spontaneo chiedersi quale sia stato lo sviluppo storico di quella civiltà – come sia nata, come sia arrivata a dare vita alle sue istituzioni, quali processi l’abbiano portata ad acquisire i suoi tratti avanzati ecc. È una circostanza interessante che i seguaci di certe teorie, nella foga di trovare tracce della loro civiltà perduta e di speculare sul suo universo culturale, non si pongano praticamente mai questa domanda. Interessante ma anche poco sorprendente: l’idea secondo cui sarebbe esistita una civiltà del genere serve infatti a uno scopo ben preciso, che è quello di dare sostanza a un archetipo di civiltà e di inserirlo in un punto del passato abbastanza lontano da rendere inutile ogni speculazione sulle sue origini storiche. Le teorie che affermano l’esistenza di una civiltà perduta partono cioè dal presupposto implicito per cui la civiltà per come la intendiamo esiste... perché è sempre esistita.

    Non ho dedicato maggiore attenzione a queste tesi fantasiose perché sarei andato troppo fuori tema. Dalle rapide considerazioni svolte fin qui spero però di aver mostrato l’importanza di intendere lo studio della Preistoria anche come un’occasione per esaminare in modo critico le molte concezioni erronee che avvolgono la comprensione del nostro passato profondo e del suo rapporto con il presente.

    Vorrei concludere questa introduzione presentando brevemente la prospettiva che argomenterò nelle pagine che seguono.

    L’approccio alle società preistoriche che ispira questo saggio si fonda anzitutto sulle due dialettiche che ho illustrato sommariamente fin qui: quella tra complessità e semplificazione e quella tra egalitarismo e gerarchia. A queste due, però, se ne aggiunge una terza, che giustifica l’inclusione della parola identità nel titolo.

    La nozione di identità, per come ne faccio uso qui, riassume ogni possibile risposta alle domande chi sono?, chi siamo?. Le risposte alla domanda declinata al singolare individuano quelle che chiamerò identità personali,¹² le risposte alla domanda declinata al plurale, invece, quelle che chiamerò identità collettive.

    La costruzione dell’identità può seguire percorsi differenti, che rimandano però a due modi alternativi di concepire le relazioni tra il singolo e la collettività.

    In base al primo modello, l’identità personale è definita da un insieme di aspetti qualitativi e quantitativi, inerenti all’essenza intima della persona, che si manifestano nei suoi comportamenti. In estrema sintesi: una persona è ciò che ha (attributi fisici e caratteriali, competenze, predisposizioni ecc.) e ciò che fa.¹³ Questo primo modo di costruire l’identità dà origine alla persona intesa come individuo, ossia come un’unità personale atomizzata che preesiste al suo ingresso in società – che verrà quindi vista come il prodotto delle interazioni tra individui del genere.

    In base al secondo modello, invece, l’identità personale è definita dalle relazioni che connettono tra loro le persone in riferimento a un ambiente naturale e artificiale condiviso. La persona emerge cioè all’intersezione tra flussi di interazioni, conoscenze, pratiche e oggetti che preesistono concettualmente al singolo inteso come entità distinta dagli altri e dal mondo circostante. Questa concezione dell’identità come fenomeno relazionale trova la sua espressione più pura nell’idea della persona come dividuo, ossia come microcosmo sociale incorporato:¹⁴ la distinzione tra l’uno e i molti, tra il sé e l’altro, non coincide con quella tra individuo e società ma si riverbera nella costituzione interna della persona, che reca in sé le tracce delle sue costanti interazioni con la realtà materiale e umana che la circonda.

    Per provare a cogliere intuitivamente la differenza tra questi due modelli può essere utile fare un esempio, che alla luce delle considerazioni che svilupperò in seguito, e in particolare nel quarto capitolo, risulterà forse meno peregrino di quanto possa sembrare a prima vista.

    Pensiamo al rapporto tra una persona e la casa in cui vive. Se intendiamo questo rapporto a partire da una nozione della persona come individuo, il modo in cui la casa viene arredata e vissuta sarà visto come il riflesso dei gusti, delle preferenze e dell’essenza umana e caratteriale di chi la abita; quegli aspetti, in altri termini, verranno intesi come il modo in cui l’individuo in questione esprime se stesso nel fare proprio lo spazio domestico. Se però leggiamo la relazione pensando alla persona come dividuo, la cura degli spazi, la disposizione dei mobili e dei soprammobili, le decorazioni ecc. andranno intesi non come espressione dell’identità di chi abita la casa ma come parte costitutiva di questa identità: quella persona, in un certo senso, è la casa in cui vive – non meno di quanto è l’insieme degli oggetti di cui si circonda, la rete di relazioni che gli/le consente di vivere in società, il bagaglio di incontri ed esperienze che ha accumulato nel corso della sua vita ecc.

    Questi due modelli, naturalmente, non sono tra loro esclusivi o incompatibili. Essi, al contrario, rimandano continuamente l’uno

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