BellyZen. Lo zen e l'arte della danza
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Recensioni su BellyZen. Lo zen e l'arte della danza
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Anteprima del libro
BellyZen. Lo zen e l'arte della danza - Omari Tessala Marax
Durant).
PREMESSA
Cos'è BellyZen.
Cominciamo a sgomberare il campo da ogni equivoco. BellyZen è solo una definizione di comodo. Cercavo un termine che racchiudesse oltre dieci anni di sperimentazioni, ricerche e riflessioni nell'ambito delle scienze umane applicate al movimento e alla danza. Una definizione in cui confluissero i miei interessi filosofici, lo studio delle discipline orientali, lo yoga e la bioenergetica con il mestiere
di danzatrice.
In molti punti farò riferimento ad elementi appartenenti a scienze e tradizioni diverse, rielaborati in chiave del tutto personale. A tutto sembrerò fare riferimento, tranne che alla danza, se non in alcuni capitoli prevalentemente concentrati nella seconda parte del libro. In realtà, la parola danza appare davvero pochissimo. E tuttavia, questo è senz'altro un libro sulla danza.
Ma non è un manuale per imparare a danzare; piuttosto per imparare a vivere nella più grande pienezza e sacralità del corpo.
La danza è un meraviglioso percorso di consapevolezza, che utilizza tutti gli strumenti possibili.
Il modo in cui li prenderò a prestito da molteplici discipline è essenzialmente il mio, ovvero il frutto dei miei studi personali - ed è, pertanto, del tutto opinabile.
Non me ne vogliano i puristi. Ho preso da ogni cosa ciò che può essermi utile e che posso condividere, nella speranza che altri dopo di me facciano altrettanto, contribuendo alla crescita di qualcosa che andrà oltre me.
In questo libro c'è veramente di tutto, e ciò può creare una certa confusione. Contiene anche argomenti non facilissimi; e tuttavia si rivolge a un pubblico generalista. Non vedo, infatti, perché un pubblico generalista non possa apprezzare eruditi concetti di psico-fisiologia ed estetica, se si ha il buon gusto di non tediarlo.
Chi scrive è una danzatrice di danze orientali, di cultura occidentale, di formazione classica, di spirito sovversivo, che ha lungamente frequentato ambienti artistici alternativi alla ricerca di una propria chiave di lettura del reale.
Il libro che hai tra le mani è il frutto di tale ricerca, ancora in divenire.
Ti servirà sia che tu abbia studiato danza o no. Che tu sia o meno un professionista o un insegnante, che ti muova la passione o la semplice curiosità, troverai molti spunti che potrai applicare al tuo modo di danzare, rendendolo più profondo, armonioso e consapevole. Ma non solo. Troverai spunti che potrai applicare qualunque sia la tua arte (funziona anche per il cake design), e anche nella tua vita di tutti i giorni.
Perché BellyZen molto di più di una metodologia d'insegnamento della danza orientale, e della danza in genere. È una profonda esperienza di vita che non mancherà di trasformare radicalmente la tua realtà e la tua visione del mondo, come ha trasformato la mia.
Danzerai in modo diverso se sarai una persona diversa.
È la mia personale promessa, se vorrai seguirmi fino in fondo.
I. INTRODUZIONE
La fine, e anche il principio.
Eccoti qua alla prima pagina del primo capitolo. Felice di fare la tua conoscenza. Ora prendimi per mano e seguimi lungo questo percorso zen di approccio alla danza. Sappi, però, che il cammino è zeppo di difficoltà, e io stessa ho disseminato parecchi trabocchetti tra le righe.
L'idea stessa di percorso per lo zen è già un bel problema. Ci troviamo di fronte a uno spinoso paradosso, prima ancora di aver intrapreso (o danzato!) un solo passo.
Che cos'è un percorso? Domanda facile: è qualcosa che ha un punto di partenza, un punto di arrivo, e un qualche tipo di via in mezzo per arrivarci.
Ottima risposta. Però funziona solo se usi delle coordinate di spazio (devo arrivare dal punto A al punto Z, percorrendo in sequenza B,C,D...). Ma questa idea non fa parte dello zen. La via non è mai costante. Non procede in linea retta. Conosce brusche frenate, svolte improvvise, si impantana nel nulla, poi fa conversione a U. Succede che a volte non si muova neppure dal punto di partenza, e che la fine coincida con il principio.
Ah - mi pare già di sentirti - cominciamo bene, quindi mi stai dicendo che non sappiamo dove andiamo. Ma almeno sai quanto tempo ci vuole per arrivare?
Ti devi munire di pazienza: il tempo è virtualmente infinito (quindi, nella danza, abbandona la fretta); non è un valore fisso e immutabile. D'altra parte, ha già smesso di esserlo da un pezzo nella moderna fisica quantistica, al punto di essere sparito da oltre mezzo secolo come variabile nelle equazioni. Ora prendo fiato, e te lo dico usando paroloni terribili: le nuove prospettive aperte dalla correlazione quantistica indicano come il tempo sia un fenomeno emergente che nasce dalla natura stessa dell'entanglement, ed esista soltanto per gli osservatori presenti all'interno dell'universo.
Non hai capito niente? Naturale, a meno che tu non sia, per coincidenza, un appassionato di fisica teorica.
Neanch'io, com'è ovvio, sono un fisico teorico. Ma più avanti proverò ugualmente a spiegarti quello che ho capito io dell'entanglement, al solo scopo di renderti più accettabile - visto che sei un occidentale dalla mente tortuosa - ciò che per gli orientali è la scoperta dell'acqua calda: e cioè che il tempo e lo spazio sono illusioni, proprio come afferma lo zen.
Se ci ostiniamo a definirlo, il tempo resta un mistero insondabile e il più affascinante dei paradossi. Non è una proprietà dell'ente, ma un flusso. Non è oggettivo, non è materiale; a rigore non è neppure reale. Esiste solo nella coscienza; non è fatto di prima-e-dopo, ma solo di qui-e-ora.
Soprattutto, contro tutte le apparenze, non è lineare: quando ti immergi in un flusso, non ha senso chiederti se stai davanti o dietro; non hai bisogno di alcuna linea retta che unisca i puntini
per formare un'immagine coerente della realtà. Il flusso non ha origine, e non termina; partorisce costantemente se stesso come l'ouroboros alchemico in cui la testa del serpente divora la sua coda, e in cui eternamente si rigenerano l'Alfa e l'Omega: i simboli più antichi con cui l'occidente ha cercato di esprimere nella via magica una verità di cui l'oriente faceva al contempo esperienza, con molta più naturalezza, nella via mistica.
D'accordo. Tutto molto interessante (ammesso che ci si capisca qualcosa). Ma questo cosa ha a che fare con noi, lo zen, l'arte e la danza?
Abbi fede.
Nella Seconda Parte sarà tutto più chiaro. Quando parleremo di metodologia e didattica, vedrai come tutti i tasselli andranno a posto. Le idee di flusso e circolarità non sono forse - o dovrebbero essere - il pane quotidiano di noi danzatori? Io le ho solo prese, diciamo, un po' più alla lontana.
Anche questo libro è stato scritto come un unico, ininterrotto flusso di coscienza. La sua sostanza è stata buttata giù di getto; al momento della seconda stesura, quella in cui ho dovuto dargli per forza una forma ordinata - altrimenti era impubblicabile - ho preferito lasciare quanto più possibile inalterato il flusso originario, correndo i miei rischi. Insomma, non sarà proprio perfetto. Ma il flusso è questo, e così te lo offro.
Certo, la cosa più veloce sarebbe stata dirti: oh, sai, per danzare bene devi immergerti nel flusso
. Avrei fatto presto, ma non sarebbe stato molto zen. Io mi sono proprio immersa nel flusso, mentre ti scrivevo. Dovevo farne esperienza, o tutto si sarebbe risolto solo in una bella chiacchierata.
Lo zen è, sopra ogni cosa, esperienza.
Nulla puoi sapere davvero, se rimane confinato in un angolo della tua mente. Nulla puoi sapere davvero, se non lo vivi con il tuo corpo. Perciò, in questa prima parte del libro ho pensato di condurti a fare esperienze insolite, di cui non sarà subito evidente il fine. Cose che, in effetti, non sembrano aver nulla a che fare con la danza.
Per spicciarmeli subito di torno, ho concentrato un sacco di preamboli teorici nell'introduzione, nella speranza di convincerti a seguirmi nell'apparente assurdità di questo metodo. Che dovrebbe, almeno sulla carta, metterti in condizioni di danzare; ma in cui si fa tutt'altro che quello.
La prima cosa che dovrai fare è proprio perdere di vista la finalità, il senso di ciò che stai facendo.
È uno dei metodi più efficaci per bucare
il subconscio e far penetrare un seme che altrimenti non attecchirebbe. C'è un motivo se lo zen adora i paradossi, che appaiono così assurdamente privi di un fine. Niente come la lucida, logica assurdità di un paradosso riesce a bucare il nostro sistema di credenze e a far attecchire un'idea nuova.
In genere, agli occidentali i paradossi non piacciono. D'altra parte, è risaputo che la logica non può essere assurda, no? Ce lo insegna Aristotele, e come sappiamo, ipse dixit.¹ Rifuggiamo il paradosso come la morte, perché lo avvertiamo come una nota dissonante nella sinfonia armoniosa delle sfere celesti, anziché coglierne la potenza e bellezza.
La realtà a cui siamo abituati è una scatola che racchiude tante scatole, ciascuna corrispondente a una categoria indiscutibile e immutabile del vero, ciascuna fedele ai principi di identità logica e non-contraddizione (se il tuo gatto è un quadrupede, non può essere contemporaneamente anche munito di ali, giusto? Suppongo se ne stia acciambellato sul divano, come tutti i quadrupedi del mondo). E allora c'è da stupirsi se non riusciamo ad accettare ciò che è incontenibile, indefinibile, incommensurabile o incoerente?
Bene, il paradosso è il grimaldello che forza la serratura della nostra scatola mentale, e ci costringe a vedere oltre. Una certa forzatura è necessaria. Il paradosso ci tira a viva forza per i capelli: è sempre qualcosa di intrinsecamente sgradevole, perché stride con la nostra percezione della realtà. Dinanzi a un paradosso, tutto nella mente si agita e protesta a gran voce. Più la mente protesta, più funziona. D'altra parte, più scricchiola la serratura, e più noi ci abbarbichiamo alle nostre vecchie certezze. L'idea che il tuo gatto lì acciambellato - ancorché privo di ali - non sia affatto così solido come sembra e possa svanire da un momento all'altro come il gatto di Alice, non ti turba almeno un pochino?
Per stare tutti più sereni, abbiamo in qualche modo convenuto di negare l'evidenza dei fatti. Ad esempio, l'evidenza che la struttura subatomica dell'universo come noi oggi lo conosciamo sia costituita per la quasi totalità (si parla nell'ordine del 99,99999%) di assoluto vuoto, o di una qualche forma di materia oscura
che non siamo ancora in grado, con i nostri strumenti attuali, di definire e misurare. Non è una roba da mistici; è una verità scientifica. La materia è vuota.
E quindi, rispondendo alla domanda iniziale: cosa ha a che fare tutto questo con noi, la danza e lo zen?
Bene, visto che amiamo le definizioni - in fondo sono occidentale anch'io, altrimenti non avrei mai avvertito l'esigenza di scrivere questo libro - è il momento propizio per una bella sintesi, articolata, per tuo vantaggio, in tre comodi punti:
1. l'esistenza non è rigidamente vincolata a categorie dogmatiche di spazio e di tempo. La sua natura è espressa dai quattro pilastri dello zen:
vuoto
flusso
impermanenza
paradosso.
2. La danza non può prescindere dall'esistenza. Non è una forma di realtà separata. È realtà sostanziata, e in se stessa la ricrea costantemente (come l'ouroboros alchemico).
3. Ed ecco pronta una bella definizione che deriva dalle due precedenti per sillogismo (e così anche Aristotele è felice):
La danza nasce dal vuoto, è generata nel flusso, è impermanente, e vive nel paradosso.
Questa, in breve, è la mia idea di zen applicata alla danza.
E visto che stiamo ancora all'introduzione, e che sono in vena di chiacchiere, ne approfitto per spiegarti meglio il famoso entanglement di poco fa. È un concetto di fisica teorica, ma vedrai che ci tornerà utile. Tieniti forte, perché è roba tosta:
Se prendi due elettroni che girano nella stessa orbita di un atomo e li separi, questi rimangono connessi tra di loro come se non si fossero mai allontanati. Anche se li hai sbattuti ai due angoli opposti dell'universo, ciò che accade all'uno (per esempio, una variazione di spin²) accade anche all'altro, e accade simultaneamente. Proprio come se fossero una cosa sola.
Questa scoperta scientifica ci mette dinanzi l'evidenza di qualcosa che sfida ogni logica. È il principio della non-località: il fenomeno per cui due o più sistemi fisici si influenzano a vicenda e in contemporanea, anche se essi sono spazialmente separati. Il mondo diventa un grande scenario in cui tutto è intimamente interconnesso, un luogo in cui il cambiamento di un singolo sistema implica il cambiamento di tutti gli altri.
Qual'è la diretta conseguenza per noi di tutto questo?
Beh, è solo un concetto di fisica teorica, naturalmente. Che però trasforma in modo radicale il nostro rapporto con la realtà, il modo in cui viviamo il nostro corpo e le nostre emozioni, e in cui esprimiamo tutto questo nella danza. Più avanti ti sarà chiaro. E ti sembrerà ovvio e risaputo come il fatto che l'acqua è bagnata; eppure ho dovuto scomodare la fisica dei quanti per avere un po' di credibilità. Guarda un po' quanto inchiostro bisogna spargere per convincere la mente ad accettare qualcosa, per fare breccia nel suo sistema di credenze.
Un vero maestro zen non avrebbe sprecato neppure un rigo.
Una danza che non sia profondamente interconnessa a tutti i livelli del sistema, sul piano fisico, mentale, emozionale e spirituale, non è danza. La crescita di consapevolezza a livello di un singolo sistema implica la crescita di consapevolezza di tutti i sistemi.
Tale consapevolezza fa la differenza tra un gesto qualunque e un movimento danzato. Senza questa consapevolezza, la tecnica resta solo ginnastica.
E allora? Non si fa più tecnica?
Aspetta, non ho detto questo. Nei miei corsi la tecnica si studia, eccome. Se ne fa tanta, anzi, tantissima. Ma la uso per dimenticarla; mi serve per inserire nuovi programmi motori a livello subcorticale (abbi pazienza, ti spiegherò) finché quella specifica sequenza passa ad un livello di competenza inconscia, in cui non è più necessario l'intervento della mente razionale. Per dimenticare la tecnica, occorre avere una grandissima tecnica. Non è un magnifico paradosso?
Ciò che faccio nei miei incontri è soprattutto aumentare il livello di consapevolezza. Anzi, le consapevolezze: il mio sistema ne prevede ben sei.
È il cuore del mio metodo. Ma te ne parlerò nella famosa Seconda Parte, che è tutta dedicata a loro. Per ora, ti invito a sottolineare con un triplice segno di penna, anche se non sarà tutto chiaro fino in fondo :
Nessun movimento che non sia interconnesso è danza. Non è danza finché non si inabissa nel fondo della coscienza dove è reso vuoto e privo di finalità; e non è danza finché non emerge nuovamente in superficie, dove è restituito all'universo.
Puoi