Il giallo del paese maledetto
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Una nuova inquietante indagine per Astore Rossi
Il restauratore Astore Rossi riceve dall’amico Sergio Candurra una serie di mobili antichi da rimettere in sesto. Nascosti all’interno di uno di essi, Astore trova degli anelli, delle monete antiche e una lista di nomi, accanto ai quali sono vergate delle croci nere. Quando qualcuno si introduce in casa sua alla ricerca degli oggetti misteriosi, il restauratore vorrebbe spiegazioni, ma Candurra fugge dal Paese, affidando alle cure di Astore la figlioletta, Isabella. Assieme alla bambina, Astore si trasferisce nello sperduto paesino appenninico di Garbano, dove si troverà invischiato in una fitta rete di segreti, tutti con al centro la misteriosa lista di nomi che, scoprirà ben presto Astore, appartengono ad abitanti di Garbano ormai deceduti. Abitanti su cui, a quanto pare, gravava una maledizione… Trovare Candurra, proteggere sé stesso e Isabella da qualcuno che sembra minacciarli e svelare i segreti annidati a Garbano: saranno questi i tre obiettivi di Astore in un pericoloso gioco in cui nulla è come sembra.
Atmosfere cupe e misteriose per un giallo da leggere tutto d’un fiato
Un nuovo caso per Astore Rossi
Hanno scritto dei suoi libri:
«Le sue storie noir sono ben costruite ed è abile nel tessere trame che coinvolgono il lettore fino all’ultima pagina.»
Sherlock Magazine
«Si legge d’un fiato, senza riuscire a mollarlo un momento. Uno scrittore che non conoscevo, ma che adesso seguirò da vicino.»
Questo libro è stato precedentemente pubblicato con il titolo Segreti che uccidono
Riccardo Landini
Nato in Emilia ma d’origine romagnola, ha alle spalle studi classici e nel cuore una grande passione per Piero Chiara e il cinema italiano degli anni Settanta. Nel 2009 ha esordito nella narrativa con il romanzo E verrà la morte seconda, a cui è seguita la trilogia Il primo inganno, Non si ingannano i morti e Ingannando si impara. Nel 2013 ha vinto il premio Giallo Stresa. La Newton Compton ha pubblicato Il giallo di via San Giorgio, dove per la prima volta è comparso il personaggio di Astore Rossi, Il giallo della villa abbandonata e Segreti che uccidono.
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Anteprima del libro
Il giallo del paese maledetto - Riccardo Landini
2853
Copertina © Sebastiano Barcaroli
Prima edizione ebook: marzo 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-5370-0
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Corpotre, Roma
Questo libro è stato precedentemente pubblicato con il titolo Segreti che uccidono
Riccardo Landini
Il giallo del paese maledetto
marchio.tifNewton Compton editori
Indice
Prima dell’inizio
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
Dopo la fine
Il silenzio fa sì che le immagini
del passato non suscitino desideri,
ma tristezza, una enorme sconsolata
malinconia.
E.M. Remarque
Prima dell’inizio
La finestra era aperta. La luce della luna la attraversava per andarsi a posare sul pavimento sporco. Le ombre si agitavano sul muro, spasmodiche nel loro movimento incessante. Ciò era dovuto alla lampada che ondulava appesa al soffitto, mossa da un refolo di brezza. Una voce si udiva a tratti nel silenzio del locale, una voce che parlava per gli assenti.
«Sapete, vorrei scrivere un diario, vorrei raccontare la mia storia e non soltanto questa, ma anche quella di chi mi ha attraversato il cammino e se ne è pentito. Però non sono bravo a narrare, soprattutto con la biro tra le dita. La storia quindi si perderà negli anni, nessuno la comprenderà, nessuno saprà come sono andate davvero le cose, dietro l’apparente normalità degli eventi. Un po’ mi dispiace, lo confesso, sarebbe stato bello che il mondo venisse a sapere che, oltre le apparenze, si nasconde una realtà ben diversa. Oh, ci sarebbe davvero tanto da raccontare, tanto da imparare da questa vicenda, eppure nessuno ne saprà mai nulla. A meno che non succeda qualcosa, un sassolino negli ingranaggi di questo motore perfetto che ho creato, che renda evidente quello che si nasconde nell’oscurità. Se ciò accadesse, dovrei agire di conseguenza e la storia potrebbe prendere strade differenti. Non sarebbe piacevole, credo. Ma no, non può succedere niente, ne sono convinto».
Il richiamo di un uccello notturno risuonò all’esterno e si diffuse in lontananza come un sinistro presagio.
I
Il senno di poi. Quante volte ho utilizzato questa espressione, rendendomi conto che rappresentava quanto di più lontano dal mio modo di vedere. Le cose accadono e basta. Presentire quel che sta per succedere, anticiparne gli effetti, prevenire i guai: tutte belle parole che non possono adattarsi alla mia vita. Quindi è inutile piangere sul latte che si è rovesciato più o meno volontariamente. Occorre soltanto asciugare il bagnato, raccogliere i pezzi e tirare avanti.
Questo pistolotto soltanto per arrivare a dire che mai avrei pensato di ritrovarmi nella situazione in cui mi sarei cacciato e mai avrei immaginato che tutto sarebbe nato da quella mattina del venticinque giugno in cui Sergio Candurra mi chiamò per avvisarmi del suo imminente arrivo in via San Giorgio con un carico di mobili antichi.
Da circa otto mesi avevo infatti affittato un ampio locale, in origine usato dal proprietario come doppio garage, sito di fianco alla mia bottega, e che io invece utilizzavo come magazzino. Era un periodo in cui il lavoro andava piuttosto bene, nonostante la crisi generale, e mi capitava spesso di avere materiali che non sapevo più dove stoccare. Così, dato che il proprietario del garage era deceduto e il figlio non sapeva che farsene abitando in un’altra città, mi ero proposto come locatario a fronte di un modestissimo canone.
Verso le undici, annunciato da due colpetti di clacson, giunse il furgone guidato dal mio amico. Si trattava di un vecchio fiat Ducato Maxi la cui carrozzeria recava i segni di tutte le volte che si era infilato in via San Giorgio. La strada dove abitavo e dove avevo il negozio era stretta, con andamento a imbuto, cosicché se entrarvi era agevole, uscirne diventava un’impresa, soprattutto per veicoli di quelle dimensioni. Occupò completamente lo spazio disponibile, tanto che un motociclista che giunse appena dopo il furgone fu costretto a invertire la marcia e cambiare strada. La paura di multe o di perdita di punti della patente non preoccupava affatto Candurra; per lui queste erano minuzie insignificanti tanto quanto pagare le imposte o emettere fatture regolari.
«Ciao, Astò. Se mi apri il portone, comincio a scaricare. Sarà una cosa lunga».
«Mi vuoi far lavorare con questo caldo?», gli risposi mentre alzavo la serranda.
«Meglio così, no? Tutti si lamentano per la crisi e tu devi fare orari doppi, soprattutto da quando Oscar è in ospedale».
Eh già. Il mio amico, nonché prezioso collaboratore, si trovava ricoverato in una clinica da diverse settimane per una forma di leucemia linfatica piuttosto preoccupante. Ogni sera lo andavo a trovare cercando di togliergli quella paura che leggevo nei suoi occhi, il tormento di un animale ingabbiato e senza speranza. I medici, tuttavia, si dichiaravano mediamente ottimisti sul decorso della malattia e questo mi rendeva un po’ più fiducioso nel futuro. Eravamo passati quasi indenni attraverso avventure davvero assurde, sopravvivendo a criminali internazionali, psicopatiche e assassini di ogni genere; contavamo di superare anche questo momentaccio.
Quando Sergio e il suo occasionale aiutante, un marocchino che non parlava mai se non tramite grugniti, ebbero finito di scaricare il furgone, andai a gettare un occhio sui mobili che avevano portato. C’erano sei sedie, un tavolo fratino, una testiera da letto, una credenzina in noce, una vetrina in ciliegio che, purtroppo, aveva un’anta rotta, un pesante comò con gran necessità di lucidatura e una splendida scrivania a ribalta ricoperta con lastre di radica.
In linea di massima, begli oggetti che potevano suscitare la gioia di qualunque restauratore che avesse dovuto metterci le mani sopra per restituire loro nuova vita.
«Hai visto Astò, che splendide cose ti ho portato?», fu la retorica domanda di Sergio, mentre si tergeva il sudore che gli scendeva a rivoli dalla fronte.
«Non posso negarlo… E dove le hai trovate queste meraviglie?».
La risposta giunse con un microsecondo di ritardo e uno sguardo di troppo al suo compare per apparirmi del tutto sincera.
«Un tizio aveva necessità di vendere per realizzare una certa cifra e io mi trovavo nel posto giusto al momento giusto».
«Tu ti trovi spesso al posto giusto nel momento giusto», osservai. Poi aggiunsi, fissandolo con aria severa: «Siamo proprio sicuri che sia andata in questo modo?»
«Amico mio, tu mi conosci. Sai che non mi comporterei mai da disonesto».
«O quasi mai…», completai io.
«Comunque, ti chiedo soltanto il favore di tenerli qua per un po’ di tempo e, magari, di sistemare i pezzi più importanti, tipo la vetrina e la scrivania. Quando li vendo ti pago quanto ti devo sino all’ultimo euro, naturalmente».
«Naturalmente».
Sospirai. Non potevo scordare i debiti di gratitudine verso Candurra per certe vicende passate, né lui si sarebbe mai dimenticato di ricordarmeli. Pertanto, dopo un ultimo sguardo ai mobili, abbassai la serranda e li salutai. Il furgone ripartì, lasciando l’ennesima tacca sul muro scolorito di fronte al mio negozio.
Da un paio di settimane un caldo umido gravava sulla città e aveva invaso anche via San Giorgio che, essendo stretta e costantemente ombreggiata, di solito regalava frescura ai pochi abitanti, per lo più anziani, che ancora resistevano nei vecchi edifici che la costeggiavano.
In quel momento non si vedeva nessuno nei paraggi, però un buon profumino di ragù si insinuava furtivamente tra i muri e le finestre chiuse. Guardai l’ora: era quasi l’una. Chiusi la porta a chiave e mi avviai verso il bar L’Angolo, distante una cinquantina di metri, dove mi ero ormai abituato a recarmi per pranzo. Aria condizionata e tagliatelle al pomodoro e basilico costituivano il menù fisso delle mie soste di mezzogiorno, unitamente al caffè e ai quotidiani locali, già stropicciati da altre cento paia di mani.
Da quando Oscar era ricoverato, la solitudine che, in passato, avevo scientemente coltivato, mi pesava come un macigno sulla schiena e mi abbatteva l’umore. Dopo le vicende dell’affare Balkan e l’ennesima scottatura con Caterina, avvertivo pressante il bisogno di aprirmi di più al mondo e, soprattutto, sentivo quanto mi mancava il contatto con la gente, quello stesso che avevo rifuggito per anni.
Davo la colpa all’età che avanzava e mi toglieva il fiato, mi rubava i pensieri e le idee sul domani, mi aggrediva alle spalle con rimpianti e nostalgie per ciò che avrei voluto vivere e mi ero perso. Il romanzo che mi attendeva sul tavolino di fianco alla poltrona non bastava più a scacciare i fantasmi di un’esistenza impalpabile, opalina.
D’altronde non potevo neanche augurarmi di affrontare ciclicamente avventure in stile Radeno o affrontare criminali come Kreuzer e soci, visto che, se ero sopravvissuto seppur con qualche acciacco, lo dovevo esclusivamente a qualche buona stella o, se volete, a qualche santo sbadato che non aveva trovato di meglio da fare che proteggermi. Quest’ultimo pensiero si concluse sul trillo del cellulare che mi ero comprato dopo la faccenda dei Fedeli di Erebo, stravolgendo quelle che erano le mie convinzioni al riguardo e vincendo il mio rigetto verso questo strumento di chiara origine satanica. Considerata inoltre la situazione di Oscar, lo tenevo sempre acceso nel caso mi avessero dovuto chiamare dalla clinica per qualsiasi evenienza.
Risposi e udii la voce di Sergio dall’altro capo. Sembrava parecchio preoccupato.
«Lo sapevo, ti sei dimenticato sul furgone qualche altro oggetto da scaricare in magazzino», gli dissi ironicamente.
«Astò, devo chiederti un favore molto grosso, importante. E tu non mi puoi dire di no!».
Il suo tono di voce era ansioso, il fiato corto. Rimasi interdetto.
«Se posso, ben volentieri… Che succede?»
«Sai che mia moglie è morta l’anno scorso. Vivevamo separati da tanti anni, lei a Napoli e io qui».
«Certo, me l’hai raccontato diverse volte».
«E sai anche che ho una figlia di sette anni, Isabella, che ultimamente stava presso la zia materna».
«Va bene, queste cose le so già. E allora?».
Un campanellino d’allarme si stava facendo strada nel mio cervello come un tarlo affamato. In più Sergio mi aveva messo addosso la sua stessa ansia.
«Ecco, mi hanno appena comunicato che mia cognata non può più tenere la bambina e vuole che io la vada a prendere al più presto. Proprio adesso sto partendo».
Rimasi in silenzio. Non mi pareva un gran problema per uno che viaggiava in lungo e in largo per l’Italia e, spesso, anche all’estero per seguire i propri affari.
«Capisci che se non me la piglio io, Isabella finisce in mano ai servizi sociali, magari verrà affidata a degli sconosciuti che la adotteranno e io non la rivedrò più».
La voce all’altro capo si inceppò.
«Senti, Sergio, se hai bisogno che vada io a Napoli, basta che mi presti la tua macchina e lo faccio volentieri. Avverti però questa zia che…».
«No, non è questo», mi interruppe. «È che io devo assolutamente cambiare aria, sparire per un po’ di tempo. Diciamo che devo proprio assentarmi dall’Italia per risolvere alcuni problemini che mi sono arrivati tra capo e collo».
«E quindi?».
Formulai la domanda, ma tremavo, temendo di conoscere già la risposta.
«Mi devi tenere la ragazzina per qualche settimana».
«Io? E come faccio? Sai benissimo che abito in un appartamento piccolo e inoltre non ho alcuna esperienza con i bambini. Non saprei neanche da che parte cominciare. Poi lei non mi conosce, cosa penserà a essere sballottata in casa di un estraneo?».
«Astò, te lo chiedo col cuore in mano: non puoi dirmi di no! Ti garantisco che si tratta di poco tempo. Pensa alla bimba che, in caso contrario, finirebbe all’orfanotrofio».
Restai in silenzio. Era un’assurdità anche solo il concepire l’idea di mettermi a fare da babysitter a una ragazzina. Ma la decisione, ovviamente, l’avevo già presa.
II
Erano passati alcuni giorni. Ammetto che dopo la telefonata di Sergio ero stato preso da una sorta di panico prenatale, quasi dovessi essere io a partorire una bambina in bottega. Mi ero preoccupato di sistemare una brandina stile militare nell’appartamento per poter lasciare il mio letto alla piccola Candurra; avevo acquistato Il piccolo principe e un altro paio di libri per ragazzi, avevo fatto spesa per disporre di un frigorifero fornito, dato che, solitamente, più di qualche bottiglia d’acqua, raramente una birra, e un po’ di verdura, non ci tenevo altro.
Col trascorrere delle ore, la visita a Oscar in ospedale e alcuni lavori impegnativi che avevo dovuto svolgere, il pensiero di Isabella si era andato tuttavia scolorendo, per riapparire vigoroso durante il mio sonno notturno.
Non mi ero mai posto il pensiero di un figlio, anche perché, da quando la mia vita aveva subìto lo stravolgimento del carcere, con la conseguente inversione della rotta che stava percorrendo per puntare verso altri e opposti lidi, non avevo vissuto storie solide o sensate che potessero preludere a sviluppi duraturi. Un paio di rapporti durati qualche mese, frettolosi e indirizzati principalmente al soddisfacimento dei sensi, qualche incontro occasionale, amaro e deludente come certe bevande che si ordinano al bar soltanto per curiosità o per noia: poco altro.
Negli ultimi anni invece mi era capitato di farmi travolgere da avventure fuori – e non poco – dalle righe. Per esempio quella con Barbara Spada, assassina bisessuale e sociopatica che aveva cercato pure di ammazzarmi – e c’era quasi riuscita a essere sinceri… – per coprire le sue malefatte passate e presenti.
E, soprattutto, la brevissima relazione con Caterina Accornero, giovane libraia veneziana che mi aveva davvero trafitto il cuore e sconvolto l’anima: l’ultima volta che l’avevo vista si trovava in un letto d’ospedale a Roma, dopo essere stata ferita nello scontro a fuoco tra la polizia e la banda di Günther Kreuzer a Monterano. Me ne ero andato senza neanche salutarla, deluso perché mi aveva mentito, usato, perché ritenevo avesse rovinato quel sentimento che pareva essere nato così forte tra noi, all’improvviso. Ne ero ancora convinto, anche se il mio ritrarmi precipitosamente a ogni sintomo di prevedibile delusione aveva giocato un ruolo di massima importanza nelle mie decisioni.
Lei non si era mai più fatta sentire, né io, d’altro canto, l’avevo cercata. Un po’ come in quella bellissima poesia di Bukowski che conoscevo a memoria: «E io ti penso, ma non ti cerco».
Mi ero mangiato qualche fetta di pane e sale per diverse settimane, quindi altre preoccupazioni, altri pensieri avevano preso il sopravvento, ricacciando la sua immagine sorridente in un angolo della memoria, tra i tanti stracci e gli scarti della mia vita.
L’unica cosa che mi era rimasta di lei, oltre ai ricordi, era un bigliettino che mi aveva infilato, senza che me ne accorgessi, in una tasca del giubbotto, quando ci trovavamo a Milano in un albergo vicino alla stazione. Diceva: L’amore è un palco su cui si danza, costruito in legno giovane e fragile
.
L’avevo rinvenuto diverso tempo dopo la conclusione di quella vicenda. Così avevo realizzato una cornicetta in cui conservarlo, che tenevo in bella vista sul comodino a mo’ di santino. Guardarlo mi dava forza, in parte perché mi ricordava i suoi occhi e, per altri versi, perché ringraziavo ancora il Cielo di essere uscito tutto intero da quella vicenda.
Luglio si era affacciato sul proscenio dell’estate con una prepotenza poco apprezzabile: caldo sfiancante, umidità e insetti, un mix che avrebbe fiaccato chiunque non avesse trascorso gran parte della propria vita in Amazzonia. Forse per questo preferivo lavorare nell’ex garage, dove il fresco preservato dagli spessi muri garantiva quanto meno un sollievo dagli effetti della calura dirompente. Avevo spostato un banco e qualche attrezzo dalla bottega, oltre al piccolo ventilatore che Oscar utilizzava solitamente nel suo appartamento per smuovere l’aria.
Quella mattina mi ero messo di buona lena a sistemare la scrivania a ribalta che faceva parte del gruppo di mobili consegnatimi da Sergio, forse l’oggetto più bello, quanto meno a mio parere. Avevo iniziato con un esame approfondito delle sue condizioni: eventuali sbeccature, presenza di tarli, lesioni ai piedini. Avevo proseguito estraendo i cassetti per esaminare l’interno delle pareti e, nel corso di questa operazione, mi ero accorto della presenza di un segreto, ovvero di un tiretto nascosto.
In un certo punto, lo spessore del legno era, difatti, maggiore di quello che ci si sarebbe aspettato. Provai allora a levare un tassello e a esercitare pressione lateralmente. Mi si aprì davanti agli occhi uno sportellino non più lungo di dieci centimetri.
All’interno vi erano alcune monete che parevano d’oro, un paio di anelli e un foglio ripiegato più volte. Sorrisi davanti a quel piccolo tesoro: il proprietario della scrivania evidentemente ignorava la presenza del segreto che soltanto un restauratore poteva individuare senza difficoltà. Estrassi il contenuto e lo appoggiai sul banco da lavoro per poterlo esaminare meglio.
Proprio in quell’istante suonò il campanello del negozio, la cui porta avevo chiuso quando mi ero spostato nel magazzino. Mi infilai nella tasca dei pantaloni le monete e il resto, quindi uscii per vedere chi fosse giunto, sperando non si trattasse di