Il cammino dei sette canti
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Anteprima del libro
Il cammino dei sette canti - Francesco Passerini
PROLOGO
In fondo l'amicizia è una forma d'amore.
- La voce di Mamo anticipò di un attimo la serie di 'bip' della sveglia poggiata sopra il comodino.
Aprii gli occhi con la sensazione di trovarmi in un luogo sconosciuto e, mentre una parte di me trascinava fuori dal sogno l'eco delle parole, lo sguardo vagava per la stanza ricostruendone lentamente i contorni.
Strano, pensai, sentire di nuovo quella frase di cui la memoria aveva perso ogni traccia. Quasi che il cervello l'avesse tenuta nascosta in attesa di risbattermela in faccia al momento opportuno.
Non che rappresentasse più di tanto nella storia dell'amicizia che c'era stata fra me e Mamo; ma era uno di quei ricordi che in qualche modo si fissano nel tempo, come un segnalibro posto a memoria di un passaggio tanto insignificante quanto vitale.
Se il mio amico fosse stato ancora vivo avrebbe riso di quel che ero diventato. Mi avrebbe torturato con una delle sue tirate new age sull’interpretazione dei sogni, e non mi avrebbe dato tregua finché non avessi ammesso che quell’esperienza onirica era un segno dal quale trarre un qualche genere di monito.
Ma era passata una vita da allora, e di certo non avevo più voglia di misticismo; la morte di Mamo l' aveva strappata via insieme ai progetti e alle speranze.
Saltai giù dal letto e, dopo una veloce sosta in bagno, scesi la scala di legno fino alla cucina. Le sottili lame di luce che filtravano attraverso le imposte fecero a pezzi la mia ombra sulla parete, e un lieve odore di aria viziata mi assalì le narici.
Spalancai porta e finestre, invitando un refolo di vento che attraversò la stanza, trascinando all'interno tutti i profumi del bosco; un brivido sulla pelle sottolineò la differenza di temperatura che portava con sè.
Infilai sopra il pigiama un maglione di pile, godendomi l'immediata sensazione di tepore che mi restituì; poi, come ogni mattino, agguantai il telecomando della tv, sintonizzandomi sulle ultime follie del mondo.
Nessuna notizia eclatante, realizzai quasi subito e, mentre riempivo il bollitore per la colazione, politica e cronaca mi erano già venute a noia.
Con uno zapping veloce ripiegai su un canale locale che dava un vecchio telefilm di dieci anni prima; uno di quelli trasmessi in replica al mattino per riempire i palinsesti, ma che, in tutta onestà, preferivo di gran lunga alle fiction più attuali.
Il gusto del thè bollente riaccese lentamente i miei sensi e, tra due fette biscottate al burro e marmellata, gettai un occhio fuori dalla finestra. La giornata era splendida e il prato intorno alla casa sempre più incolto. Era senz’altro ora di metter mano al tosaerba.
Finii con calma di mangiare, quindi salii a lavarmi ed indossare abiti adatti al giardinaggio: maglietta ad alta traspirazione, salopette di jeans e scarponcini da lavoro con la punta di acciaio; una buona abitudine, quest'ultima, adottata dopo un doloroso schiacciamento dell'alluce destro.
Uscito sul piazzale, stiracchiai le braccia verso il cielo ed, al culmine della tensione, la schiena scricchiolò rumorosamente, scatenando un brivido di piacere lungo tutta la spina dorsale. Pronti all'opera!
- dichiarai a me stesso, e mi gettai nell'impresa.
Verso le dodici e trenta i miei sforzi giunsero al termine; posai gli attrezzi e mi concessi una pigra dondolata sull’amaca del giardino. Le narici piene dell'odore pastoso di erba tagliata, e la baita con la sua 'barba' ben curata, risvegliarono in me un senso di profonda soddisfazione. Se al mondo c'è un paradiso
- pensai - di sicuro si trova in alta montagna
Con un sordo brontolio, lo stomaco fece eco ai miei pensieri, reclamando cibo in cambio della fatica già spesa; rientrai in casa e misi sui fornelli una terrina di polenta ed una padella di salsicce e finferli.
Spazzolai tutto con grande soddisfazione e, dulcis in fundo, ripulii il condimento dalla pentola con la polenta avanzata, finendo per imbrattarmi i contorni della bocca come un bambino di sei anni.
Ridendo di me stesso, sciacquai labbra e mento al lavandino della cucina; l'acqua gelata mi frustò il viso, anestetizzando per un attimo i muscoli delle mascelle.
Mi asciugai in fretta, impaziente di dedicarmi al rito della fumata postprandiale, per la quale avevo già selezionato un Toscano Originale: una scelta di sapore deciso, ma perfettamente abbinata allo shot di Bombardino che mi seguì sulla veranda.
Il primo pomeriggio è assolutamente il momento del giorno che preferisco. Ha quel senso di pacata lentezza, non ancora appesantito dal sonno, che ti fa credere che la parte più frenetica della giornata sia ormai passata, e sia tempo di assumere una ‘velocità da crociera’ che ti culli fino al tramonto.
E' in quel momento che nascono i pensieri più profondi sulla vita; proprio per quello stato di intensa concentrazione in cui il corpo ha ancora energie da spendere, mentre la mente già comincia a rilassarsi.
Accade sempre in un 'primo pomeriggio' che, giunto all'autunno della propria vita, un uomo matura in sé la convinzione di poter trascorrere i suoi giorni futuri in serena compagnia dei propri ricordi, accompagnando la memoria con un sigaro, un calice di vino o qualsiasi altro vizio egli abbia voglia di coltivare.
Seduto sotto un portico (o davanti ad un camino) quell'uomo, ormai svincolato dalla pressione dei doveri, sentirà di aver acquisito la capacità stessa di rallentare il tempo; felice e consapevole di essersi ormai sottratto al vorticoso gioco del costruir futuro.
Quantomeno questa era la mia idea. Ciò di cui ero assolutamente convinto e che metodicamente avevo messo in pratica fino a quel giorno.
Il giorno in cui la voce di Mamo mi richiamò dal sonno.
Il giorno in cui il passato tornò a bussare alla mia porta.
CAPITOLO 1: L'UOMO ARCOBALENO
Quel pomeriggio di Settembre aveva il sapore nostalgico delle grigliate di carne cotte ancora all'aperto, figlie di una estate che non voleva cedere il passo alla stagione successiva; il che, quando si vive in una valle dolomitica e ci si avvia verso i rigori dell'inverno, è una assoluta benedizione divina.
Profumi e voci salivano dal paese ad allietare il volontario esilio cui mi ero sottoposto a causa di ciò che la vita mi aveva riservato, ed io, comodamente appollaiato sotto la veranda, assorbivo con avidità i raggi del sole, sbirciando distrattamente le case del paese giù a valle.
Dalle prime baite, che distavano quasi un chilometro dalla mia, lo sguardo digradava sul grumo di ville ed alberghi che fiancheggiavano la provinciale: una serie di agglomerati che, paese dopo paese, si snodava da entrambe le parti del fiume Avisio, lungo tutta la Val di Fassa; da Moena fin su a Canazei.
Il fiume, avevo sempre pensato, era il vero signore della valle e, per quanto la sua costante presenza portasse i sensi ad ignorarlo (come accade per ogni cosa ormai consueta), quando i rumori del giorno si spegnevano, il suo gorgoglìo prendeva il sopravvento e saliva incontrastato a coccolare le orecchie.
La mia baita dominava la vallata, inserendosi perfettamente nel paesaggio circostante. Pietra e legno si fondevano nella costruzione a generare solidità e calore al tempo stesso e, pur essendo piccola ed essenziale, era quanto di meglio si potesse chiedere per un eremita del mio stampo.
Tuttavia c'era in essa una singolare anomalia.
Il piano superiore, infatti, conteneva un bagno e due piccole camere arredate con letti singoli; cosa che fin dal primo giorno aveva stimolato in me la curiosità di capire perché mai due persone, anziché una coppia, avrebbero dovuto scegliere di condividere uno spazio così ristretto.
Ma forse era solo il mio modo di essere che rendeva impensabile quella possibilità, tant'è che nei rifugi d'alta quota, in spazi come quello, passavano le notti anche cinque o sei persone.
L'unico ambiente a pianterreno fungeva da salotto e cucina, con un piccolo angolo cottura dotato di una finestrella da cui si godevano tramonti da romanzo. All'altro lato della stanza, proprio al centro della parete, c'era il caminetto, che era, tra l'altro, una eccellente fonte di riscaldamento alternativa.
A dispetto della più moderna caldaia a gas, che troneggiava sul terrazzo del secondo piano, la canna fumaria era stata progettata in modo da fornire calore anche alle stanze superiori, e bastava poco, una volta acceso il fuoco, perché tutti gli ambienti fossero ben riscaldati anche in pieno inverno.
Stessa dinamica per l'impianto idraulico, che sfruttava un lungo tratto di tubature installate accanto alla stessa ciminiera, traendo da quella il calore necessario a riscaldare l'acqua.
Al centro del salone c'era uno spartanissimo tavolo di pino (eredità del precedente proprietario), circondato da quattro massicce sedie intagliate dallo stesso legno. Poco più in là, accanto alla porta di ingresso, un grosso baule di faggio, coperto da un patchwork di cuscini colorati, fungeva da divano.
Sulle pareti pochi oggetti, più che altro i ricordi di una vita, ed un paio di grandi mensole che reggevano con fatica una quantità spropositata di libri.
Quel pomeriggio, notai, portava con sé qualcosa di strano. Quasi un eco di antiche emozioni, delle quali, forse per la certezza di un futuro senza variabili, incolpai lo strano risveglio che avevo avuto.
Tuttavia non era così e, quando il destino gettò in tavola le carte, capii di aver perso una partita che non sapevo neanche di giocare.
Tutto iniziò con un un ronzio: un rumore stridente che, mentre galleggiavo in un fiume di pensieri, richiamò la mia attenzione nel presente. Era una sorta di volo di calabrone, ora più acuto, ora più ovattato, che continuava ad aumentare di volume, superando in prepotenza ogni altro suono della natura.
Drizzai le orecchie, concentrandomi per stabilire tratti ed origine di quella anomalia e, pur non capendo bene cosa fosse, realizzai che, quanto a direzione, sicuramente proveniva dalla valle.
Ipotizzai potesse trattarsi del ringhio di una sega a motore, ma l'idea era ben poco credibile; a chi diavolo poteva venire in mente di mettersi a tagliar boschi fuori stagione?
Rimasi in ascolto ancora qualche minuto, sperando che, qualsiasi cosa fosse, prima o poi si decidessero a spegnerla.
Quando fu chiaro che ogni attesa sarebbe stata vana, mi alzai piuttosto irritato e, deciso a risolvere l’enigma, cercai un punto di osservazione soprelevato.
Valutai che il luogo migliore fosse il dorso del sentiero che digradava verso il piazzale della baita; così, imprecando ferocemente, iniziai ad affrontare la salita.
Giunsi sul posto appena in tempo per scorgere un ombra rossa serpeggiare in un tratto scoperto della strada forestale, circa un chilometro ad est. Incuriosito da quella scoperta, tornai indietro a prendere il binocolo militare che tenevo sulla mensola del camino.
Senza apparente motivo, un forte stato di ansia si stava impadronendo di me e, sull'onda di quell'emozione, accelerai il passo, tornando in fretta e furia sulla cima della collina.
Le lenti spaziarono sul sentiero, seguendo i tornanti fino ad individuare il bersaglio: un grosso fuoristrada rosso fuoco che risaliva rapido il versante. Provai una sorta di crampo allo stomaco, realizzando che la meta verso cui era diretto poteva benissimo essere casa mia.
Di chi diavolo é quell'auto?
- mi chiesi.
Di sicuro non era di qualcuno della valle, perché più o meno conoscevo tutti i mezzi che abitualmente circolavano in zona; tuttavia ci trovavamo in un’ area inibita al traffico, e Dio solo sa quanto fosse difficile per un ‘foresto’ ottenere il permesso di arrivare fin lì in automobile.
Si dovevano fornire eccellenti motivazioni che fossero di interesse per il Comune o la valle stessa ed, anche in quel caso, si veniva accompagnati fino alla sbarra che chiudeva il sentiero da una pattuglia della guardia forestale. Dopo il passaggio, gli agenti serravano il lucchetto e rimanevano sul posto ad attendere che si tornasse indietro, oppure tornavano ad aprire ad un’ora concordata.
Durante la stagione turistica, però, era materialmente impossibile avere un permesso di quel genere, e quell'anno, visto il tempo clemente, la stagione turistica era di fatto ancora aperta. Chi cavolo era, quindi, quell'intruso?
Voltai il cannocchiale sul punto dove avrebbe dovuto essere la camionetta della forestale, ma non ottenni nessun ulteriore indizio. La strada era deserta, e la losanga di ferro che chiudeva il passaggio era incastrata al suo posto, bloccata dal lucchetto.
Cercai di tranquillizzarmi, raccontando a me stesso che potevano esserci mille ragioni per quella presenza: inviati di riviste scientifiche, studiosi o quant'altro, ma, nonostante questo, il mio senso di inquietudine cresceva insieme all’incalzare di quel dannato fuoristrada.
Col passare dei minuti divenne evidente che, chiunque fosse alla guida del mezzo, era più che deciso ad arrivare fino a me; il che mi suggerì di trovare una strategia d'urgenza.
Tutto sommato, pensai, freddezza e scontrosità sembravano le armi migliori; così rientrai sotto il portico, mi accomodai di nuovo sulla poltroncina di vimini, ed organizzai una accoglienza da manuale.
Recuperai dal tavolino il mezzo toscano lasciato sul posacenere e lo aggiustai all’angolo della bocca, (un po’ alla Clint Eastwood) aggrottando la fronte per assumere l'aria più ostile che riuscissi a immaginare, quindi aspettai.
Qualche minuto dopo, con grande stridore di ossa metalliche, l'enorme cassone a quattro ruote superò l'ultima groppa del sentiero, e prese a discendere, senza troppa cautela, il tratto che sfociava nel piazzale della baita.
Si fermò sollevando una tale quantità di polvere da rendere impossibile capire quante persone ci fossero all'interno, fornendomi subito l'alibi per manifestare tutto il mio disappunto.
Balzai in piedi, avanzando deciso verso gli intrusi e, gesticolando furiosamente, gridai: - Ohè! Vi sembra questa la maniera di entrare in casa d’altri? Chi siete? Chi vi ha dato il permesso di venire qui?
Per qualche secondo l'atmosfera rimase sospesa nella più assoluta immobilità, dandomi il tempo di realizzare che a bordo del mezzo c'era soltanto il conducente; apparentemente impegnato a raccattare qualcosa dal sedile posteriore, prima di scendere a terra.
Quando emerse dall'auto, l'uomo si rivelò un personaggio piuttosto pittoresco. Vestiva pantaloni mimetici a chiazze verdi, sovrastati da una camicia a quadrettoni rossi e neri su cui spiccava, come un pugno in un occhio, un piumino senza maniche arancione.
Mi tornò in mente una vecchia battuta di mio padre di quasi quarant'anni prima, quando, vedendomi uscire il sabato sera nel mio look da discoteca, regolarmente scoppiava a ridere e domandava: - Anche stasera ti sei vestito al buio ?
.
Per completare l'opera, appena fuori dall'auto l'uomo si calzò in testa un cappello da pescatore color azzurro cielo. Ora l'arcobaleno é completo!
- pensai.
Sventolando una cartellina, l'intruso alzò le mani in un gesto di resa: - Errore mio..... Mi scusi. Non sono avvezzo alle strade di montagna.
Poteva starsene a casa allora!
- ribattei burbero, squadrandolo dalla testa ai piedi. - Che cos'è? Un agente delle tasse, un pittore o che diavolo?
Giornalista
- dichiarò lui, tirando fuori dalla tasca del piumino un tesserino plastificato appeso ad un nastro rosso.
Meglio avesse detto 'terrorista'
- lo ammonii - Se ne vada immediatamente!
- e gli indicai sgarbatamente la via del ritorno con l' indice destro. Detto questo mi voltai, riprendendo a lunghe falcate la direzione di casa.
Tutt'altro che scoraggiato, lo scribacchino si affrettò a chiudere lo sportello e corrermi appresso, cercando di imbonirmi.
"La prego signor Corsari. Lei non ha idea di quanto ci abbia messo a rintracciarla..... Ho cercato per settimane un suo numero di telefono.....Un cellulare ...... E le assicuro che trovare il suo indirizzo è stata una vera impresa.
Non ho intenzione di essere scorretto nei suoi confronti, ma per favore non mi cacci a fucilate."
Non ho nessun cellulare ... E nemmeno un fucile
- risposi, mentendo su entrambe le cose - e non ho neanche intenzione di farmi intervistare. Le ripeto: se-ne-va-da !
Ascolti almeno cosa ho da dire prima di rifiutare.
- continuò l' uomo, raggiungendomi sotto il portico dove avevo ripreso posizione sulla poltrona.
Purché poi se ne vada.
- dissi sarcastico, immergendo la punta del sigaro nel fuoco di un fiammifero svedese.
"Sono Mario Linessi, della rivista 'Eso'. Scriviamo di occulto, misteri, ufologia ed argomenti correlati.
Come immaginerà vorrei intervistarla su quanto accadde trent'anni fa. Riaprire il caso e....."
E farsi un nome a mie spese!
- lo interruppi, sbuffando - Ma lei ha idea di quanta gente ha sofferto per quel che è accaduto allora? Stia pur certo che nessuno vorrà più parlarne, e tanto meno riaprire quelle ferite.
Come ho detto
- ribatté l'arcobaleno umano - Non ho intenzione di speculare sulla tragedia, e le assicuro che il suo punto di vista sarà il perno centrale di quello che scriverò.
In cuor mio cominciavo a disperare che se ne sarebbe mai andato; così decisi di mettere in pratica una delle vecchie teorie di Mamo, secondo la quale, osservando il viso di una persona, si riesce sempre a cogliere un punto debole da poter sfruttare a proprio vantaggio. Basta saper guardare!
– diceva. Ed io guardai.
Il giornalista doveva avere circa venticinque/trent'anni, e sfoggiava lunghi capelli neri che gli sfioravano le spalle. Aveva un naso aquilino piuttosto pronunciato, ed occhi marrone scuro che trasmettevano un misto di tranquillità e decisione: il marchio di chi comprende le amarezze umane senza cercare di trarne alcun profitto.
Strano, per un uomo così giovane
- pensai.
Due esili baffetti, appena sopra le labbra sottili, gli conferivano un'aria esotica, quasi sudamericana, e questo dette il colpo di grazia alla mia capacità di analisi, tirando fuori dal mio passato un ulteriore senso di disagio.
Se quell'uomo aveva una debolezza caratteriale io non la vidi di certo ma, al contrario, ne scoprii in me una completamente nuova causata dalla sua presenza. Mi stavo davvero innervosendo, e quella dannata poltrona diventava ogni minuto più scomoda.
Il giornalista dovette notare il mio stato di frustrazione e, forse ritenendo poco saggio provocare un uomo sul quale pendevano ancora sospetti di omicidio, si fece un poco indietro e mi propose di pensarci fino al giorno successivo.
Mandi un messaggio al mio albergo
- disse, porgendomi il biglietto da visita di un hotel di Campitello; poi esitò un attimo in attesa di un mio cenno di assenso.
E' noto che in alta montagna il tempo atmosferico ha la pessima abitudine di cambiare in fretta, ma devo dire che quel giorno superò addirittura se stesso e, mentre l'uomo arcobaleno cercava di interpretare il silenzio in cui ero caduto, un fronte di nuvole nere si era già portato sopra le nostre teste, oscurando il sole.
Nel momento in cui il giornalista mi consegnò il biglietto, pesanti gocce d'acqua iniziarono a solcare l'aria gravida di elettricità; poi un unico, immenso fulmine spezzò letteralmente il rettangolo