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L'amore allo specchio
L'amore allo specchio
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E-book316 pagine4 ore

L'amore allo specchio

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Info su questo ebook

Ambientato in quel tratto di Sicilia da cui si ha l’impressione di poter “prendere la Calabria con le mani”, L’amore allo specchio è un romanzo vivace e ironico che si potrebbe definire di genere “giallo”, ma sarebbe estremamente riduttivo: la vera indagine che si conduce è quella della ricerca della verità e delle risposte alle domande che da sempre agitano il cuore dell’uomo. Alla caccia di una presunta, preziosissima reliquia, nientemeno che una Lettera della Madonna e alcuni suoi Capelli, il geometra Bonanno, detto il Cavaliere, e il becchino Caruso, soprannominato la Morte, ricostruiscono, con lo stimolo dell’anziano professor Pirri, l’iter delle reliquie, e rischiano a più riprese la vita a causa di un inquietante personaggio , il Frate. Dopo il ritrovamento dei misteriosi reperti, tra interrogativi sulla loro autenticità ed esplosioni di devozione popolare, avverranno anche dei miracoli, forse non tutti genuini... fino ad una conclusione inaspettata.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2013
ISBN9788866901693
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    Anteprima del libro

    L'amore allo specchio - Nino Raffa

    ca.

    15 agosto 2003

    Il vecchio lasciò la stanza prima dell’alba. Chiuse la porta attento a non far rumore. Trascinava lungo il corridoio un pesante sacco di tela. Scese prudente le scale appena segnate dalla lampada notturna, attraversò l’ingresso, finalmente schiuse il portone.

    Uno schiaffo d’acqua maligna lo sorprese sulla soglia.

    Notte fottuta! La mia solita fortuna!

    Precipitava una pioggia battente. Il cappuccio tirato sulla testa, si avviò con cautela sulle mattonelle scivolose verso il retro della villa.

    Pirri, questa è l’ultima che mi fa: stanotte saldiamo il conto! sibilò scaricando il sacco su un rudimentale carrello nascosto dietro il capanno degli attrezzi.

    Il diluvio, più della notte, faceva buia la campagna. Spingeva con fatica crescente lungo un sentiero fangoso tra gli ulivi. La pioggia cadeva obliqua e per quanto cercasse di ripararsi tenendo bassa la testa, la camicia sotto l’impermeabile di plastica era già fradicia.

    Se prendo una polmonite e ci resto secco, avrà anche questo sulla coscienza! Ma tanto lei era sicuro di finire all’inferno... anzi ci sarà già! A questo punto cosa le possono fare?

    Il viottolo sbucava improvviso sulla strada costiera. Attraversò le quattro corsie di slancio, quasi senza guardare per non perdere l’abbrivio. Dall’altra parte la spiaggia era infestata da una bassa vegetazione selvatica; la sabbia bagnata e compatta l’avrebbe facilitato ma adesso era l’intrico dei rovi a ostacolarlo.

    Potrebbe pure prendermi un infarto! Ma c’è un’altra cosa, professore, che mi fa incazzare: ho cominciato anch’io a parlare da solo!

    Scavava cauto distribuendo lo sforzo per non bruciare troppe energie nell’impeto iniziale. Ogni cinque minuti prendeva una breve pausa e in meno di un’ora aveva terminato.

    Finalmente qualcosa gira per il verso giusto.

    Sbirciò di nuovo l’orologio. Era ancora buio ma il sole doveva essere già sorto: un rapido spostamento delle nubi avrebbe spalancato in pochi istanti il giorno. Fece scivolare il sacco nella buca.

    Addio.

    Cominciò a riempirla. Adesso con affanno.

    Non c’era più tempo per riposare: un lucore crescente filtrava dalla cortina di pioggia. Il cuore accelerato, colmò la fossa con un’ultima serie di palate scomposte. Il temporale s’indeboliva. In un definitivo tocco di perfezione – la schiena a pezzi, le mani sanguinanti – spazzò la sabbia indurita con dei rovi.

    Il dottore mi ha raccomandato di riguardarmi e non fare sforzi. Le metto anche questo in conto! Spero solo che il diavolo lo venga a sapere e sappia cosa farle!

    S’era fatto giorno. Tre barche a strisce dai colori vistosi, tirate in secca per il maltempo, presidiavano la spiaggia; qua e là i resti dei falò di San Lorenzo punteggiavano la sabbia come macchie d’inchiostro pasticcione su un foglio spiegazzato; più avanti, nero d’inverni, inclinato a tribordo, agonizzava il relitto di un mercantile; bianca sullo sfondo, la massa cubista del paese più vicino.

    Indugiava con lo sguardo sulle onde, come in attesa di qualcosa dal mare. Dalla memoria tre sillabe scesero alle labbra.

    Morgana... Morgana...

    Un’eco distinta tornò da lontano. Strana, ritardata, plurima.

    Non aveva più importanza.

    Migliorava. Dall’altra parte dello Stretto la sagoma del continente emergeva massiccia dalla pioggia sottile; qualche barca si staccava dalla costa; alle sue spalle si facevano più frequenti le auto in transito. Rimanere con quell’attrezzatura sospetta era inutile e pericoloso: riprese la via di casa.

    Adesso che non serviva, aveva smesso di piovere.

    Un uomo più giovane aspettava sulla strada. Magro, stempiato, barba di tre giorni, l’abito scuro del mestiere, giocava con una moneta d’argento appoggiato al cofano brillante del suo carro funebre.

    Almeno poteva darmi una mano! ringhiò il vecchio.

    È il mio giorno libero. Certe cose le faccio solo in servizio.

    Come sapeva che ero qui?

    Mi hanno telefonato dalla villa. Passando ho visto qualcuno sulle dune e ho immaginato. Le avevo detto di non farlo, e anche per questo sapevo che lo avrebbe fatto.

    Mi è sembrato il giorno giusto.

    Lui diceva sempre che le date sono importanti.

    Il giovane aprì il portellone caricando il carrello nell’alloggiamento delle bare. Salirono sull’auto.

    Io avrei scelto un altro posto. Magari il giardino della villa. Qui c’è il pericolo che qualcuno, scavando per caso…

    Non si preoccupi: tutto quello che potevo l’ho fatto a pezzi. Tranne i capelli. Li avrei dovuti bruciare, ma non me la sono sentita. In poco tempo tutto sarà marcio e irriconoscibile. Alla fine ogni cosa tornerà alla terra.

    Anche la foto?

    No. La foto l’ho conservata.

    Lui come ci chiamava?

    Il cavaliere e la morte.

    Per il resto del breve tragitto rimasero in silenzio.

    I

    La notte del 31 dicembre 1999 prometteva di essere diversa dalle altre anche al pensionato Villa Felice.

    Perché prendete in giro noi vecchi con parole già false in altre età della vita? chiedeva il professor Pirri agl’infermieri che con quella parolina – felice – pretendevano di risolvere ogni problema.

    Gli dicevano che il luogo fosse dei più belli. Una secolare villa liberty immersa in un parco abitato da diverse varietà di palme, e poi chicas, banani, ulivi, aranci, limoni, siepi di bosso, oleandri… Il tutto affacciato sulla sponda siciliana dello stretto di Messina, da dove – come vantano da queste parti – si prende la Calabria con le mani.

    Nino Pirri moriva a Villa Felice da diversi anni. Era entrato mezzo cieco sulla sedia a rotelle e in qualche modo contava di uscirne sdraiato, gli occhi chiusi e la corona del rosario intrecciata tra le dita. Non che avesse fretta: nonostante mancasse da un pezzo dei cosiddetti piaceri della vita, l’eventuale mondo a venire non gli sembrava del tutto tranquillizzante.

    Era stato, tra le altre cose, un filosofo. Era stato perché a novant’anni passati – come ripeteva spesso – o non si è più nulla o si è tutti filosofi, e quindi esserlo non costituisce ormai una distinzione. Come il medico conosce le complicazioni fatali, sebbene improbabili, della malattia più banale, così il filosofo non ignora le trappole in agguato dietro la necessità della morte. E se da giovane è un medico sano che coltiva e sorveglia le sue paure attraverso i libri, le riviste specializzate e la pelle degli altri, da vecchio diventa un medico malato – non più medico, solo un malato – senza intermediari tra sé e il dolore. Con le inevitabili angosce.

    Per quel capodanno di fine secolo, la direzione del pensionato aveva voluto qualcosa di diverso dal solito panettone e spumante. Grazie alla volenterosa orchestrina della parrocchia ci sarebbe stato un revival di canzoni d’anteguerra, tra il prevedibile entusiasmo degli ospiti.

    "Come se la musica fosse fatta di suoni; come se le note potessero esistere senza carne e sangue; come se l’anima si potesse risvegliare con un campanello; come se due colpi di legno su una pelle di tamburo bastassero a resuscitare i morti. Sarebbe più facile ridarmi la vista e tutt’e due le gambe, che farmi risentire La bella Gigogìn." L’inevitabile commento di Pirri.

    Secondo i più ottimisti, erano attese torme di parenti. Figli e figlie, nuore e generi, con l’allegro contorno di nipotini, disposti a disertare i festeggiamenti alla moda per affrontare quel passaggio memorabile in compagnia dei loro maggiori bavosi, sordi, orbi e incontinenti.

    E perché, allora, li avrebbero buttati in quest’ospizio? osservò implacabile il Nostro.

    L’ineffabile direzione aveva quindi invitato per l’evento ogni famiglia, anche quelle di cui si conosceva appena la sigla in calce all’assegno mensile. Pirri, invece, non rischiava delusioni: mancava di parenti prossimi, e quelli più lontani aveva avuto tempo e cura di dimenticarli.

    Non doveva quindi a nessuno, se non a se stesso, la scelta di quella dimora fatale. Anni prima, seppellita l’ultima sorella, aveva telefonato a Villa Felice, chiedendo che mandassero a prenderlo. All’autista aveva indicato un unico bagaglio: biancheria personale, qualche vestito, un libro, un bossolo d’artiglieria reduce di qualche guerra altrui, un registratore con le cassette di musica lirica e poco altro.

    Sul comodino, una consumata Predestinazione dei Santi di Sant’Agostino rimaneva aperta alla prima pagina, e forse nessun occhio umano sarebbe più caduto sul tratto incerto di un’intermittente sottolineatura. Del resto la grazia non è più tale, se viene data secondo i nostri meriti. La nostra preoccupazione è che ciascuno speri in se stesso, incorrendo così nella condanna della parola profetica: maledetto ognuno che ha speranza nell'uomo.

    Uscendo di casa aveva sentito ancora di consumare una precisa azione per l’ultima volta. Lo stesso in strada, quando d’istinto s’era girato verso un’invisibile persiana della casa di fronte.

    Si lasciava alle spalle quattro stanze con servizi, quasi un secolo di vita e poco meno di ricordi. Lo attendevano una stanzetta con bagno e qualche anno d’agonia.

    Gli sarebbero pure mancati i suoi libri. Persi da tempo nell’ombra inesorabile che gli era scesa addosso. Acconto scontato dell’altra, che tardava.

    II

    Il 31 dicembre piovve a dirotto sin dal mattino.

    Pirri rifiutò di scorgevi il degno epilogo di un secolo prodigo di calamità: sapeva che ogni generazione crede di vivere tempi unici e difficili per sentirsi importante; per illudersi – seppure nel dolore – di aver lasciato traccia nella millenaria indifferenza della storia.

    Il maestrale rinforzava gemendo tra le tegole; le sue pause lasciavano spazio al boato del mare in tempesta. Gl’infermieri giuravano di non aver mai visto onde così gigantesche scavare lo Stretto: suggestione anche questa delle date memorabili.

    Per il resto, la mattinata trascorse normale.

    All’ingresso posteriore, il carro funebre attendeva Colosi, uno dei più entusiasti sostenitori di quella giornata. Si rimproverava sempre di aver mancato tutti gli appuntamenti importanti della vita e anche nell’ora fatale confermava la sua regola.

    Se n’era andato il pomeriggio precedente. Pirri ricordava di averlo contraddetto in extremis sul fatto che quello sarebbe stato l’ultimo giorno del millennio. Quanto alle occasioni perdute, il Nostro non si sentiva secondo a nessuno. Forse per questo, Colosi – sempre accanito nel dire la sua su ogni cosa, preferibilmente su quelle che meno conosceva, sempre avvolto da un’aura di pestilenziale dopobarba – era stato tra le poche compagnie tollerabili a Villa Felice.

    Alle nove e mezzo Bruno, uno degl’infermieri, depositò il professore sulla sedia a rotelle nella sala comune, addobbata di festoni. Altri due già sonnecchiavano sulle poltrone mentre la televisione trasmetteva un documentario ad altissimo volume. Di solito a quell’ora le infermiere seguivano qualche telenovela passando dal salone, ma in quel giorno indaffarato avevano sintonizzato un canale a caso, tanto per far compagnia ai vecchi.

    Una voce maschile parlava della Grande Guerra sopra una fanfara.

    L’Europa marciò allegra verso la guerra, salutando il conflitto come un salutare intermezzo nella noia della vita borghese...

    Qualche altra frase tratta dai proclami dell’epoca e la voce assunse un tono più grave su un sottofondo martellante di cannoni e armi automatiche.

    …le mitragliatrici, insieme alle tattiche miopi adottate da tutti gli stati maggiori, generarono spaventose carneficine sui campi di battaglia…

    Pirri cominciò a scivolare via col pensiero.

    Da tempo parlava da solo: abitudine non troppo strana a una certa età, se non fosse stato per la particolare convinzione di rivolgersi a una classe di alunni inesistenti. All’inizio l’aveva fatto consapevolmente: voleva dare una lezione a qualcuno, e allora per provocarlo ricorreva a questa stramba sceneggiata. Più tardi la trovata gli era parsa sfruttabile anche in privato: domande e risposte tra lui e i ragazzi immaginari, utili a riportarlo al dubbio nei rari casi di sicurezza. Inevitabile, poco a poco la messa in scena era scivolata nella patologia: ormai i ragazzi avevano smesso di rispondere e Pirri li istruiva in un delirio senza contraddittorio.

    … tra morti, feriti e dispersi si contarono nove milioni di russi, sette di tedeschi, altrettanti austro-ungarici… calcolava la televisione all’ingrosso, ma lui era già con i suoi discepoli in una strana aula sospesa tra cielo e terra.

    La Grande Guerra, ragazzi miei, me la sono persa, ma mi sono rifatto vent’anni dopo nei cieli di Spagna. Dodici ottobre 1937: il mio CR 32 abbattuto da un Chato repubblicano sopra Fuentes del Ebro. Una raffica esatta di mitragliatrice ultrarapida Skas da 7,62 millimetri: femore destro spappolato da una pallottola esplosiva, gamba praticamente tranciata, mille metri in picchiata semi-svenuto, atterrato non so come a Zaragoza. Fortunato a lasciarci solo una gamba, amputata con la baionetta senza anestesia. Un mese tra la vita e la morte. E da allora per me il suono meccanico, cadenzato e regolare delle mitragliatrici scandisce il passo della morte… della morte! della morte! ...

    Villa Felice non era posto dove si potesse impunemente evocare la morte.

    ... siamo attaccati! aerei nemici! cinque Chato a ore cinque! caposquadriglia abbattuto! le mitragliatrici! la morte! sono stato colpito! non risponde! perdo quota! non ho timone! non risponde! la morte! ...

    Le urla di Pirri stavano gettando lo scompiglio nel salone. Ormai una mezza dozzina di vecchi gridava la morte! la morte!

    Rosetta, la cuoca, accorse dalla cucina, dalle scale vennero giù Bruno, Mario e Margherita. Nonostante l’esperienza, impiegarono un bel po’ a normalizzare la situazione distribuendo alla bisogna scossoni, bromuro e coramina.

    Tornata la calma, il professore si addormentò nel suo cantuccio accanto alla televisione spenta. A bordo di una fantastica sedia a rotelle, duellava contro tre biplani rossi in un cielo plumbeo; lo abbatterono almeno quattro volte, altrettante gli amputarono la gamba, e altrettante si ritrovò un arto nuovo: una lucente meraviglia metallica così perfetta da dolere e sanguinare come una gamba vera.

    Venne svegliato verso le undici.

    Professore, ha smesso di piovere ed è uscito il sole, ce li facciamo quattro passi?

    Il cavaliere Umberto Bonanno dall’alto (o dal basso, riferito a certi centenari in circolazione) dei suoi settantasette anni, tutte le mattine che il tempo lo consentiva, sputando, tossendo e fumando, spingeva volentieri Pirri lungo i viali del giardino.

    Indossati i cappotti, si avviarono.

    Vuole che spenga la sigaretta?

    Faccia come le pare.

    Sa, il fumo passivo…

    Si preoccupa della mia salute?

    Non vorrei che le venisse il cancro ai polmoni.

    Sarebbe la minor cosa.

    Ha sentito del povero Colosi? chiese più avanti Bonanno.

    Non ce l’ha fatta per pochissimo.

    Per questo capodanno aveva una specie di mania.

    Poco male. Lo festeggerà da qualche altra parte.

    Intercalavano simili duetti a memorie di gioventù.

    Lei ha fatto la guerra di Spagna, vero?

    Sì.

    "La stupirò. Ho per le mani una lettura impegnata. Hemingway: Per chi suona la campana?"

    Ritorni ai suoi soliti gialli. È meglio.

    Non mi dica che non le piace Hemingway?

    Glielo sto dicendo.

    Ho capito: vecchie ruggini della guerra. In Spagna eravate avversari, se non sbaglio.

    Non solo questo.

    Già: lui era amico di Castro.

    Anche questo.

    A me invece Hemingway sta simpatico, non sembra nemmeno americano.

    Invece lo è. E si vede.

    Non mi dica che detesta pure gli americani.

    Glielo dico.

    E come mai?

    Gli americani sono lo stadio terminale della nostra civiltà. E come se non bastasse, se ne vantano.

    Che vuol dire?

    Vuol dire che qualcosa di grande che è cominciato ad Atene duemilacinquecento anni fa, sta finendo a New York adesso. Ma ormai non è problema nostro.

    Torniamo alla guerra di Spagna. Lei era con i volontari fascisti, legionari vi chiamavano…

    La guerra di Spagna è passata e io non ho niente da dire. Ma se ne vuole saperne qualcosa, lasci perdere Hemingway. Legga Orwell, piuttosto.

    Il viale adesso s’irripidiva piegando verso destra. A tratti, un sole perplesso faceva capolino tra le nubi.

    Bonanno ruppe ancora il silenzio.

    Non ho mai visto suoi parenti.

    Ho solo una nipote, figlia di una sorella.

    E come mai non viene a visitarla?

    Qualche anno fa ha perso un bambino di pochi mesi in un incidente.

    Per caso quel bambino schiacciato nel passeggino da un camion?

    Sì, quello.

    Ricordo benissimo.

    A suo tempo è stato un bell’argomento per televisioni e giornali.

    E questo cosa c’entra col fatto che non viene mai a visitarla?

    Veniva. Ma dopo l’incidente in ogni frase che non diceva c’era una sola domanda: perché Dio, che lascia sulla Terra questo vecchio decrepito, si è portato il mio bambino? Un giorno l’ho pregata di non tornare e lei mi ha accontentato.

    Avevano percorso un altro tratto in salita fino a un padiglione esagonale. In posizione elevata rispetto alle costruzioni circostanti, era un buon osservatorio sulla feroce bellezza della giornata.

    Pirri accomodò il plaid sulle gambe.

    Mi rivolga verso il mare intimò con la sua tipica incapacità di gentilezza anche quando chiedeva una cortesia.

    Si sarebbe addormentato se l’altro non avesse ricominciato.

    Scusi la curiosità, come mai non si è sposato?

    E lei come mai è vecchio?

    La sedia di plastica su cui sedeva Bonanno vacillò sotto la sua mole non trascurabile.

    Che domanda è questa? È naturale diventare vecchi: non c’è un perché.

    Benissimo. Per me è stato naturale non sposarmi: non c’è un perché!

    Ma una volta, se non baglio, è stato fidanzato…

    Ho capito: vuole sapere la storia delle sorelle Papa.

    Se le dispiace parliamo d’altro.

    Ma non gliel’ho raccontata? L’ho racconta a tutti. Posso credere che solo lei sia scampato?

    A dire il vero l’ho sentita da Colosi, da Rosetta, da Bruno, da due o tre dei vecchi (al pensionato, con questo termine, offensivo se riferito a se stessi, s’indicavano gli altri ospiti, magari più giovani), ma c’è sempre qualche particolare diverso. Mi è rimasta la curiosità di sapere com’è veramente andata. C’è stato pure un morto, e lei conosce la mia passione per i gialli.

    Dopo settant’anni di morti in questa storia ce ne sono diversi. Quasi tutti, direi. E, con un po’ di pazienza, presto saremo al completo.

    Bonanno si toccò.

    Professore! Con queste cose non si scherza!

    Mai scherzato in vita mia.

    Pirri scivolò sulla sedia assumendo la posizione adatta a un lungo racconto.

    I primi tempi in cui era arrivato alla villa si era lasciato scappare la storia delle sorelle Papa. In quel luogo estraneo, evocare certi fantasmi gli aveva dato il sollievo di una compagnia familiare. Quando il futuro scarseggia è naturale appigliarsi al passato: contano fatti vecchi d’un secolo, mentre quelli di ieri sono già dimenticati. Diventato popolare, il racconto di bocca in bocca era tornato al suo protagonista inevitabilmente trasfigurato: si diceva che il professore della storia fosse un tale cancrenoso morto a Villa Felice anni prima; secondo altri, le sorelle Papa erano le due vecchie legate ai letti nello stanzone del sottotetto che tutte le notti si lamentavano come spiriti in pena.

    Pirri non si era mai curato di smentire.

    Aveva ripreso a piovere. Cominciò a raccontare.

    Giacobbe durante la notte chiamò Rachele e gli rispose Lia. 

    Quando al mattino si accorse che era Lia, le disse: 

    sei proprio figlia d’un impostore!

    Ogni maestro, – lei rispose – ha i suoi discepoli! 

    Anche tuo padre chiamava Esaù, ma eri tu a rispondergli.

    Bereshit Rabbah, 70.

    III

    Le sorelle Papa erano figlie di Giuseppe fu Antonio e di Giovanna Romano, domiciliati al numero 16 di via Canova. – Il piglio da impiegato dell’anagrafe tradiva lo sforzo di essere preciso su una storia in cui la verità ne era sempre uscita male. – Dei loro sei figli, solo la metà raggiunse l’età adulta. Grazia, una delle due che c’interessano, nacque nell’ottobre del ‘903, anche se risultava del ‘904. Allora tra gli attributi del buon cittadino non figurava la sollecitudine verso gli uffici comunali.

    Anch’io fui rivelato sei mesi dopo intervenne Bonanno.

    "Dicevo… – Dal tono secco e dalla pausa, Pirri fece capire che non gradiva interruzioni. – Grazia fu la prima di una schiera di tre femmine, macchiate agli occhi paterni dall’irredimibile colpa di essere sopravvissute ad altrettanti maschi, l’ultimo dei quali se lo sarebbe portato nel ‘18 la spagnola."

    "Anche mio zio Orazio, se ne andò con la spagnola."

    Cavaliere, se lei a ogni passo interviene a sproposito, facciamo notte.

    Chiedo scusa.

    Dicevamo dei Papa… Concetta, la seconda, vide la luce nel fatale dicembre ‘908. Durante l’infinita notte del 28 fu dimenticata sotto le macerie del terremoto; in quel caos, i genitori si ricordarono di lei solo dopo molte ore, già sfollati a chilometri di distanza; tornati a precipizio la trovarono incolume nella cesta miracolosamente intatta, vegliata dai corpi dei vicini. Ottant’anni dopo, sulla soglia della morte, malediceva ancora quell’improvvida reminiscenza che la sottrasse alla pace celeste per consegnarla a un’esistenza tribolata.

    Nonostante facesse il difficile, a Pirri piaceva ricamare quella storia.

    "Dell’infanzia di Grazia e Concetta sappiamo poco. Probabilmente subirono quel minimo d’istruzione che allora si cominciava a non negare alle femmine e che la saggezza dei vecchi comunque sconsigliava. Per il resto, le loro giornate trascorrevano tra giochi e occupazioni domestiche, oppure scambiando visite tra amiche. Frequentavano le mie sorelle, ma da noi venivano di rado. Le incontravo più spesso la domenica mattina, vestite a festa per la messa, tallonate dalla figura severa e imponente del padre, e da quella docile e minuta della madre.

    "Anche di don Peppino e donna Giovanna Papa ci sarebbe tanto da dire. Si erano sposati lui a sedici anni, lei a quattordici; e questo spiegherebbe perché sorvegliassero le figlie con un eccesso che era tale anche per l’epoca. Forse, nel calcolo delle insidie del mondo, scontavano più la propria che l’altrui condotta. Ma la stiamo

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