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La regola del fuoco
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E-book414 pagine6 ore

La regola del fuoco

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Info su questo ebook

Marco, un uomo alla soglia dei cinquant’anni, all’inizio del nuovo millennio, decide di intraprendere un viaggio in bicicletta percorrendo l’antica Via della Seta. Accompagnato dall’amico Franz, ex militare e navigato viaggiatore, parte dall’Italia per raggiungere la Cina attraversando Europa orientale, Medio Oriente e Asia occidentale. Il viaggio sin da subito si manifesta per la sua difficoltà: le intemperie e le dinamiche socio-culturali dei paesi attraversati, gli strascichi delle relazioni che il protagonista si lascia alle spalle e la natura impervia delle piste battute dai viaggiatori danno avvio a una tribolata esperienza di formazione. Il viaggio assume dunque una carica simbolica e metaforica. L’avventura non è solo una mera soddisfazione di una necessità egoistica di viaggiare, ma si struttura come una precisa volontà di superare i propri limiti interiori, le proprie categorie mentali nella percezione di se stessi e del rapporto che si ha con il prossimo e con l’ambiente circostante.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2021
ISBN9788855391849
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    Anteprima del libro

    La regola del fuoco - Gian Marco Bianchi

    Il profumo della libertà

    Un’altra notte insonne. In quei pochi istanti in cui lo sfinimento, vincendo su una mente furibonda e atterrita, mi faceva letteralmente crollare e sprofondare nel sonno, i latrati dei cani e il dolore provocato dai lacci di cuoio che tenevano legate mani e piedi mi riportavano di scatto alla veglia facendomi ricadere nel baratro del terrore. L’ansia, come un tarlo nell’animo, prendendo immediatamente il controllo, azzerava ogni mia capacità di discernimento, lasciando il mio corpo incapace di alcuna reazione. Dopo l’ennesimo risveglio, la schiena dolorante e le membra indolenzite non aiutarono la tenue fiducia di potermi riaddormentare e cancellare, anche per pochi minuti, quella pena insopportabile. Con uno sforzo, come se fossi trattenuto da un peso che gravava sul petto, mi alzai, sollevai il capo e mi guardai intorno sgomento. Il mio sguardo si perse in un impenetrabile buio, dove anche il pensiero si sentì prigioniero: fui nuovamente sopraffatto dalla disperazione. Ricaddi supino, annientato dall’angoscia e dello sconforto.

    La tenda che ci ospitava era spoglia e disadorna; a terra, a dividerci dalla polvere e farci da giacigli, alcuni logori tappeti che erano normalmente usati a modo di sottosella al basto dei cammelli e qualche stuoia; il tutto emanava un afrore, un miscuglio di muffa e letame, insopportabile più della scomodità del pagliericcio. Cercando di calmare mente e corpo, mi rannicchiai con la speranza di riappisolarmi, ma l’alba era ormai vicina e il muezzin iniziò, con il suo canto suggestivo, la chiamata alla preghiera.

    Franz, che dormiva stranamente raggomitolato in alcune sudicie coperte, si svegliò; ci spostammo, aiutandoci con i gomiti, di fronte all’apertura della tenda sistemandoci proni a terra. L’uomo di guardia, sentendoci desti, sollevò la nera e pesante stuoia. L’aria fredda, pungente, in un attimo invase il nostro rifugio spazzando via la mia lieve illusione che si trattasse soltanto di un brutto incubo.

    Il sole, che ancora non era riuscito a oltrepassare la cerchia delle montagne, con un livido chiarore illuminava appena le figure degli uomini inginocchiati in preghiera. Poco dopo le donne, il volto celato da una specie di rete, impenetrabili alla vista tanto erano recluse nei loro neri vestiti che le ricoprivano dalla testa ai piedi, iniziarono a ravvivare i falò che si erano assopiti sotto la cenere. Nell’aria si confuse il profumo del tè all’acre odore del fuoco appena rinato. Anche i bambini erano in movimento e armati di bastoni aiutavano le loro madri, spingendo e separando gli animali al fine di facilitarne la mungitura. I dromedari facevano gruppo a parte poco lontano da un buon numero di bovini, capre e asini impazienti di muoversi verso il pozzo per potersi abbeverare. Avrei pagato qualsiasi cifra per avere anch’io un secchio d’acqua pulita; erano passati vari giorni senza la possibilità di lavarci e sbarbarci: mi sentivo irriconoscibile, tanto ero arruffato e sudicio.

    Un giovane dagli occhi grigioazzurri, capelli neri e ispidi, il mento sollevato con aria di sfida, vedendoci fare capolino dalla tenda, ci portò una ciotola di latte appena munto e un tozzo di pane raffermo. Guardandoci con superbia, si divertì a pungolarci un poco con il suo inseparabile bastone prima di posare a terra quello che doveva essere, sino a sera, la nostra unica fonte di sostentamento, oltre a un piccolo otre d’acqua. Il gusto appena amarognolo del pane e il latte leggermente salato riuscirono a tacitare i lamenti dello stomaco che, apparentemente unico organo del mio corpo, forse governato dal primordiale istinto di sopravvivenza, sembrava ignaro della situazione.

    Per tutto il giorno non potemmo muoverci dalla tenda. Nella vana attesa che potesse accadere qualcosa di nuovo, ricominciammo a valutare la nostra situazione arrovellandoci per trovare il modo di uscire indenni da quel contesto. Lo smarrimento e la collera dei primi momenti di prigionia, che Franz aveva gestito con carattere, in lui si erano spenti piano piano trasformandosi in una sorta di apatia, che non era rassegnazione ma solo una lucida follia accompagnata da impotenza, che però gli diede modo di ragionare con più razionalità. Io invece non riuscii a riprendere il controllo e non lasciai passare un solo istante senza continuare a ripetere che era impossibile fuggire, recuperare le nostre cose e trovare la strada senza i fidati GPS, che ormai avevano le batterie scariche.

    Franz non riuscì a calmarmi e il tempo in quella tenda si trasformò in uno stillicidio d’interminabili momenti che si ripetevano vuoti di speranza e pieni di angoscia. Il mio compagno, cercando di distrarmi, disse che presto saremmo nuovamente ripartiti com’era già successo e che qualcosa di positivo durante il tragitto poteva accadere. Ogni due, tre notti, il campo era smontato e la carovana si metteva in marcia verso un nuovo pozzo, avendo sfruttato quel poco che la natura del luogo poteva offrire alle greggi: l’auspicio che lungo la pista qualcuno avrebbe potuto aiutarci mi regalò un piccolo attimo di speranza. Non vedevo l’ora di riassaporare il profumo della libertà; affidai la mente allo sguardo, unica cosa libera assieme alla fantasia, che si spinse lontano, al di là di ciò che non volevo vedere, oltre le colline, oltre i monti, dove non esistevano prigioni, se non quelle dettate dalla ragione. Rimasi lì pregando Dio.

    Da otto interminabili giorni eravamo prigionieri di una carovana di nomadi, o guerrieri; non saprei come definirli e i ricordi della partenza sembravano lontani nonostante fossero passati poco più di tre mesi dall’inizio del nostro viaggio.

    Il primo giorno dell’anno

    Era il primo di gennaio del duemila e fortunatamente il mondo non era finito. Mentre un fastidioso trillo cercava di svegliarmi da una notte agitata, gli ultimi botti, rimbombando ancora nella piazza, salutavano la festa ormai passata. Mi alzai in fretta e cercando di mitigare l’inquietudine mi dissi:

    «Ehi Marco... finalmente il grande giorno è arrivato!»... ma le mie parole non produssero l’effetto desiderato. Senza riuscire a frenare quella smania e con il cuore già in tumulto, mi tuffai nella doccia sperando di lavare l’ansia che mi stava torturando. D’un tratto mi colpì un pensiero: stavo nuovamente anteponendo le mie paure, i miei dubbi alla ragione e alla voglia incontenibile di viaggiare? Mi scrollai come un cane quando esce dall’acqua, cercando di spingere il tempo a correre più velocemente. Nella mente l’angoscia iniziò a sparire piano piano, come il vapore che, cancellando dallo specchio il mio riflesso, rimuoveva quella persona impaurita che non sentivo essere me stesso. E poi com’era possibile che quell’immagine mi rispecchiasse? Non ero certamente io quello che appariva di fronte a me. Era chiaramente una brutta imitazione, un burattino impaurito che, manovrato da un burattinaio distratto, sollevava il braccio destro quando io muovevo il sinistro. Quello non ero io, quello non dovevo più essere io.

    Una luce lattiginosa si faceva strada fra le tapparelle appena sollevate mentre ricontrollavo per l’ennesima volta i bagagli nell’attesa che Francesco venisse a prelevarmi per condurmi in stazione. Il mio armamentario lo avevo preparato alcuni giorni prima e, appena finito di chiudere l’ultimo zaino, sarei partito immediatamente. Attendevo con ansia questo momento e continuavo a guardare le mie cose, ma il tempo non passava mai: per non entrare in fibrillazione avrei dovuto sistemare tutto il giorno precedente la partenza.

    La bicicletta era corredata di borse agganciate al portapacchi posteriore; su di esso erano fissati una piccola tenda, la stuoia e gli attrezzi per potersi accampare in piena autonomia: il tutto superava i trenta chili di peso. Dopo l’ennesima ispezione mi accorsi che mi ero dimenticato di ritirare un antibiotico: mi recai alla vicina farmacia. Uscii frettolosamente e quasi investii una vecchia infagottata in un abito orientale che pretendeva di leggermi la mano. La donna, trattenendomi energicamente per un braccio, mi fissò come se mi stesse vedendo dentro; una luce strana era riflessa dai suoi occhi cerulei che mi bloccarono per un attimo eterno, dicendomi:

    «In questo palmo è impresso il tuo destino».

    Per togliermela di torno, un poco sgarbatamente, le offrii tutte le monete che avevo in tasca. La vecchia mi salutò con le mani giunte al petto dicendo «namaste» e insistette per regalarmi una specie di santino che, senza neppure guardare, misi in tasca. Rientrai di corsa e sistemando gli ultimi acquisti mi ritrovai fra le dita una foto consunta e stropicciata che rappresentava un asceta seduto sui gradini di un tempio intento a leggere la mano a un uomo, che a ben guardare, mi assomigliava. Stupito da quella sconcertante similitudine, riguardai con più attenzione. Fissando quella fotografia fui assalito da una strana sensazione di pace che azzerò ogni mia angoscia, lasciandomi il solo convincimento che tutto sarebbe andato per il meglio. In quel momento il mio amico Francesco suonò al citofono riportandomi alla realtà. Non avevo nessuno da salutare o persone che potessero stare in pena per me; diedi un’occhiata circolare alla stanza, spinsi i voluminosi bagagli nell’ascensore, chiusi a doppia mandata la porta e scesi in strada.

    Uno strano silenzio e una calma inusuale invadevano lo spazio; anche l’aria era completamente immobile assieme alle nubi ammucchiate come cotone all’orizzonte. Pennacchi di fumo e vapore si levavano stanchi dai camini; gli alberi, fioriti di brina, come sculture marmoree nei giardini, si confondevano in una luce opalescente che cercava di farsi strada nella nebbia.

    Percorrendo vie semideserte, ancora ingombre dei segni del capodanno, attraversammo tutto il centro senza la minima coda. Appena giunti in stazione un gracidante annuncio c’informò che il treno era in ritardo; a differenza da tutti gli altri che, spazientiti, iniziarono a lamentarsi e a telefonare per avvisare del contrattempo, mi sistemai accanto a una panchina con la speranza di potermi dimenticare per molto tempo la parola fretta.

    Francesco, mentre mi aiutava a sistemare i bagagli, notò un voluminoso libro che spuntava appena da una delle borse e mi disse:

    «Anche un libro ti sei portato, un peso in più da trasportare, non ne hai già a sufficienza d’ingombri da trascinarti appresso?»

    Lo guardai stupito mentre gli consegnavo le chiavi di casa; non mi sarei mai aspettato che proprio lui, un lettore assiduo, mi dicesse una cosa del genere e gli risposi un poco piccato:

    «Un libro nel mio bagaglio non è un peso, ma un compagno di viaggio che saprà temermi compagnia e distrarmi la mente quando subentrerà la nostalgia nei momenti difficili».

    Francesco accennò un sorriso. «Accidenti... a proposito di momenti difficili, quasi dimenticavo... l’altro ieri è passata in agenzia Cinzia e con fare più sconclusionato del solito mi ha lasciato questa busta, pregandomi di dirti di aprirla fra qualche giorno, quando sarai in viaggio.»

    Con Cinzia c’eravamo lasciati, non certamente senza traumi, da poco più di un mese, dopo quasi un anno di difficile convivenza, fra continue liti e dissapori. I nostri caratteri non ci concedevano più di qualche giorno di tranquillità fra una discussione e l’altra. Non troppo stupito, conoscendo il fare bizzarro della donna, presi la busta e la infilai nella tasca laterale di una sacca senza darvi troppa importanza. Francesco mi guardò, accennò un sorriso e con un abbraccio caloroso ci salutammo.

    Con uno stridere di freni il convoglio si fermò. Aiutato da un infastidito controllore, spinsi sulla carrozza l’ingombrante bicicletta e salii. Essendo il primo giorno dell’anno il treno era praticamente vuoto e potei, sempre mal sopportato dal ferroviere che si assicurò che oltre al mio biglietto avessi pagato anche quello per il bagaglio, occupare un intero scompartimento.

    La pianura padana scorreva nebbiosa oltre il finestrino sul quale si aggrappavano piccole gocce di pioggia portate dal vento. Il monotono rumore delle ruote sui binari mi conciliava il sonno; ogni volta che la testa ciondolava, sballottata da qualche scambio, riaprivo gli occhi ritrovando un paesaggio sempre uguale, immutato nel suo grigiore.

    Arrivai a Venezia in un gelido giorno di gennaio, uno di quei giorni in cui la brina rimane sino oltre mezzogiorno. Il vento ghiacciato, portando con sé il frastuono delle persone, pareva che si fermasse beffardo a giocare con le cartacce sul selciato, per accanirsi un attimo dopo con un sacco di plastica, e infine per turbinare rabbioso sotto una pensilina e correre verso il mare a increspare la laguna.

    Mi affrettai al binario spingendo un carrello e arrivai appena in tempo per salire faticosamente sulla coincidenza.

    Il mio sguardo si perdeva in un mare sovrastato da bianche nuvole e i miei pensieri si accavallavano nella mente e ribollivano diventando evanescenti come le onde che correvano veloci verso terra.

    Giunto a Trieste incontrai i due amici che mi stavano attendendo. Franz, arrivato anche lui in treno dall’Austria e Joachim, che viveva in Croazia. Felici di ritrovarci dopo più di un anno, festeggiammo con una bevuta e poi, non senza problemi, caricammo le biciclette e tutti i nostri bagagli sull’auto e raggiungemmo Dramalj, dove Joachim ci ospitò nella sua casa al mare.

    Il mio intento e quello di Franz, purtroppo il nostro comune amico non sarebbe venuto con noi, era quello di raggiungere la Cina ripercorrendo il più possibile le antiche vie dei carovanieri: la Via della Seta.

    Con Franz ci eravamo incontrati a Roncisvalle sul cammino di Santiago; immediatamente avevamo trovato un’affinità di pensiero e di propensione che lungo i molti chilometri e giorni passati insieme si era trasformata in vera amicizia. Negli anni successivi avevamo poi compiuto, sempre in bicicletta e in completa autonomia, vari viaggi in America Centrale e in Africa.

    Franz vive solo ed è un ex militare con molta esperienza essendo stato impegnato in zone di guerra assieme ai contingenti internazionali nei Balcani e in altre missioni umanitarie. Di nazionalità austriaca, è un atleta solido come una roccia ma soprattutto un vero viaggiatore: super equipaggiato e capace di affrontare qualsiasi situazione, parla bene l’inglese e varie altre lingue, compreso l’italiano. Franz mi liberava da quell’antica incertezza che ho sempre avuto nel prendere una decisione: il compagno ideale, con lui avrei potuto imbarcarmi in qualsiasi impresa. Viaggiare in sua compagnia mi permetteva di sciogliere il mio incontenibile bisogno di andare, conoscere persone e scoprire posti nuovi in assoluta tranquillità. Il suo carattere, mite ma deciso, m’infondeva quella sicurezza che è facile provare quando si è a casa e si progetta il viaggio, ma poi nella realtà, nell’affrontare situazioni sconosciute, le certezze si affievoliscono.

    Muoversi in completa autonomia è molto diverso dallo spostarsi facendo parte di un viaggio organizzato dove tutto è programmato, dove l’imprevisto è una scocciatura, un problema, ma che altri risolveranno. Quando si è soli, tutto dipende da se stessi, dalle proprie forze mentali e fisiche. Non ci sono guide alle quali chiedere aiuto o mezzi al seguito sui quali rifugiarsi se arriva un improvviso scroscio di pioggia. Tutto deve essere condiviso con il compagno, dalla fatica alle decisioni da assumere con eguali responsabilità. L’imprevisto è un pizzico di pepe che dà più gusto e perciò deve essere affrontato e vissuto come parte del gioco. Durante un tour organizzato si è contenuti in un’invisibile bolla che protegge e infonde tranquillità ma allo stesso tempo isola il viaggiatore dall’ambiente in cui è immerso. È come se un appassionato sub esplorasse la più bella barriera corallina a bordo di un sommergibile; certamente vedrebbe cose meravigliose, forse in altro modo non riuscirebbe a stare così in profondità senza alcun rischio né fatica, ma quale differenza vivrebbe se vi fosse immerso equipaggiato delle sole pinne e occhiali. Soltanto in questo modo potrebbe sentire sulla pelle lo scorrere dell’acqua, il gusto del mare sulle labbra, l’emozione di essere non un intruso, ma parte dell’ambiente nel quale si sta muovendo.

    Dopo una stupenda cena e altre bevute, mi ritirai pensando che non ci sarebbe stato nulla di più bello dell’istante in cui il nuovo giorno avrebbe lasciato finalmente la mia anima senza radici, libera di vivere i suoi sogni.

    Il campionissimo

    All’alba di una marmorea giornata, presi da quell’impeto di potere che si chiama libertà, partimmo verso un pallido raggio di sole che cercava di farsi strada fra bianchi e corposi nuvoloni che non promettevano nulla di buono. L’aria intrisa di gocce salmastre si asciugava sul volto sorridente del mio compagno, creando intricati disegni che luccicavano sulla pelle come fossero diamanti. L’urlo dei gabbiani ci accompagnava e, spinti dal vento che soffiava a nostro favore, iniziammo a correre lungo una strada deserta che, seguendo la costa frastagliata, puntava decisa verso sud. Il viaggio con un velo di emozione era finalmente iniziato; mi sentivo come un ragazzino il primo giorno di scuola e lo sguardo di Franz che mi pedalava accanto lasciava trasparire la stessa sensazione. La nostra avventura, proprio come l’avevo immaginata per tanti mesi, stava prendendo forma e l’andare senza un traguardo, vivendo la strada, mi stava stimolando. Non mi pareva vero di stare finalmente iniziando ad affrontare il mio sogno, tanto ero affascinato dagli spazi aperti, capaci di farmi sentire fragile e vulnerabile come una tartaruga alla quale abbiano strappato la corazza.

    Viaggiammo un intero giorno sotto un cielo che si faceva sempre più plumbeo e sembrava toccasse la terra. L’aria gelida, pregna di salsedine, saliva aspra nelle narici e si confondeva con il gusto salato del sudore, diventando irrespirabile. Il pomeriggio fuggì mentre dal mare giungeva il freddo alito del tramonto: cercammo rifugio in una piccola baia riparata dal vento e piantammo le tende. Mentre armeggiavo nelle sacche, mi tornò in mano la lettera di Cinzia; mi sistemai accanto alla lampada e mi apprestai ad aprire la busta. Franz in quel momento mi chiese di occuparmi del fuoco; riposi nuovamente la missiva.

    All’alba del giorno seguente, un sole stupendo riportò il buonumore; ci avviammo, su una stradina tortuosa, lungo la costa dell’Adriatico. Le gocce di rugiada aggrappate agli aghi dei pini parevano brillare di luce propria, rendendoli scintillanti come fili d’argento. Il mare scorreva spumeggiante alla mia destra e l’asfalto, srotolandosi sotto le ruote, pareva mi stesse spingendo avanti, senza fatica: a ogni pedalata mi sentivo come uno dei tanti uccelli che si libravano in volo e si lasciavano portare dal vento, liberi nel cielo.

    Il viaggio, che per molto tempo mi ero immaginato, mi stava catturando sempre più e tutte le mie energie fisiche e mentali erano concentrate su di esso. La mente sembrava finalmente sgombra e libera dai suoi tumulti e, quando si sta bene, si è più propensi a vedere soltanto il bello, non si sente la fatica, le avversità sembrano più lievi e tutto si affronta sotto una luce diversa. Finalmente stavo facendo qualcosa che sentivo veramente mio e come un cavaliere errante vivevo, giorno per giorno, ciò che il viaggio e la natura mi stavano regalando. Non provavo neppure quella strana voglia di voler essere sempre altrove, dove non sono; quella sensazione che mi faceva sentire felice soltanto nel tragitto tra il luogo che avevo appena lasciato e quello dove stavo andando. Fu così che, mentre pedalavo in quel freddo mattino d’inverno, spinto da un vento propiziatorio, mi accorsi del cambiamento ineludibile che si stava producendo in me, ma non ebbi il coraggio di lasciar fare... forse non era ancora il momento.

    Procedemmo tranquilli per l’intera mattinata poi, appena dopo aver superato un piccolo villaggio arroccato sul mare, sorpassammo di slancio, aiutati dall’abbrivio di una discesa, un ragazzo che pedalava appollaiato su una vecchia bicicletta da corsa troppo piccola per la sua statura. Il giovane si alzò sui pedali e con un notevole sforzo si riportò al nostro fianco. Notando la fettuccia tricolore legata alla mia sella, con voce affannata e in un appena comprensibile italiano, mi disse di essere un appassionato di ciclismo. Senza neppure riprendere fiato iniziò a raccontarmi le sue traversie, quelle di un ragazzo di sedici anni che, come molti altri, era stato toccato dalla guerra e di aver vissuto i drammatici momenti in cui i suoi vicini di casa, amici da sempre, compagni di banco e di giochi, a volte parenti stretti, divennero in un attimo acerrimi nemici, divisi soltanto da una differente religione. Ora, con una disperata speranza, voleva trovare il modo di attraversare quel mare che stavamo costeggiando per realizzare un sogno, quello di andare in Italia a correre in bicicletta. Il giovane ci raccontò che da qualche anno era riuscito a sistemare una vecchia antenna tv e ricevere i canali italiani, imparando la lingua, solo per seguire il ciclismo: il suo sport preferito.

    Un improvviso scroscio di pioggia c’investì poco lontani da un vecchio e malconcio casolare. Ci fermammo e ci rifugiammo nella rimessa dove le nasse accatastate, pronte per essere caricate sulle barche, emanavano odore di mare e di salsedine. Sempre incalzato dal ragazzo che ci chiedeva se avessimo partecipato a corse e se conoscessimo grandi campioni, mi tornò alla mente un incontro fatto molti anni prima, che mi lasciò un ricordo indelebile. Nell’attesa che la pioggia ci desse un attimo di tregua, ci sedemmo su una vecchia barca e rosicchiando una mela iniziai il mio racconto.

    Un mattino d’inizio estate, trotterellando accanto a mio nonno materno, eravamo scesi dal paese trasportando su di una vecchia carriola cigolante un sacco di granoturco che doveva essere macinato. Arrivati al mulino che si affaccia da un lato sul canale e dall’altro sulla statale, vedemmo fermi ad armeggiare su un tubolare bucato alcuni ciclisti. Il nonno, posata la carriola, mi afferrò la mano e si avvicinò a loro dicendomi:

    «Oggi potrai conoscere il più grande ciclista del mondo».

    A queste parole il ragazzo m’interruppe chiedendo:

    «Chi era... chi era?»

    Continuai il mio racconto dicendogli che, accovacciato a terra, si trovava Fausto Coppi, intento nello smontaggio di un tubolare forato aiutato dai suoi fedelissimi gregari Carrea e Milano. Al ragazzo gli s’illuminarono gli occhi ed esclamò:

    «Il campionissimo, il più grande ciclista di tutti i tempi!»

    Annuii e continuai il racconto dicendo che non conoscevo Coppi né gli altri: per me erano soltanto giganti intenti a riparare una bicicletta che rifletteva ai miei occhi colori e cromature luccicanti.

    Il nonno, indicandomi quello più alto con gli occhiali scuri di tartaruga e i capelli tirati indietro, sistemati come se fosse appena uscito da casa, mi disse:

    «Stringigli la mano, non avere paura, avvicinati».

    Intimorito dai possenti muscoli e dal grande naso piantato sul volto scuro del suo compagno, mi avvicinai; la mia testa era alta molto meno della sella della bicicletta.

    Il poderoso Carrea, prendendomi sotto le ascelle, mi sollevò mettendomi a sedere sulla sua gamba.

    «Stai a vedere e impara, non si sa mai che un giorno ti possa servire.»

    Quello che teneva la bicicletta, dandomi un colpetto sulla punta del naso, mi disse:

    «Stai bene attento che ora montiamo il tubolare nuovo» e sorridendo, si liberò di quel serpente che teneva avvinghiato intorno alle spalle.

    Milano gonfiò la gomma e quello con i capelli curati, premendo con il pollice sul tubolare, disse:

    «Basta, va bene così» e porgendomi la ruota mi sussurrò:

    «Reggila, non farla cadere».

    Io investito da tanta fiducia, trattenendo il fiato, tenni stretta nelle mie piccole mani la ruota anteriore. Coppi, toltosi gli occhiali, la riprese e la agganciò alla forcella.

    «Bravo, ti meriti un premio.»

    Fui nuovamente sollevato di peso e seduto sulla sua bicicletta. Con le gambe a ciondoloni non arrivavo ai pedali né tanto meno ad aggrapparmi al manubrio, la sua mano nella schiena mi teneva dritto in equilibrio: mi sembrava di volare nonostante fossi fermo e ben sorretto dal grande campione.

    Rimasi un solo istante su quella bicicletta, ma per me fu un tempo interminabile, poi fui nuovamente risollevato e riportato a terra.

    «Mangia tanta polenta, che ti vengono i muscoli come quelli di Carrea» disse sorridendo l’altro corridore che si era appoggiato al sacco sulla carriola.

    I tre ciclisti in un attimo salirono in sella e via sullo stradone a sparire nascosti da una lunga fila di pioppi. Forse fu proprio in quel giorno di sole che, come folgorato sulla strada per il Turchino, scaturì in me la passione per il ciclismo.

    Il ragazzo mi aveva ascoltato in silenzio, come un bambino quando la mamma gli racconta la sua fiaba preferita e Franz, con un accenno di sorriso sul volto, mi guardava stupito: non avevo mai parlato a nessuno di quell’incontro fatto tanti anni prima.

    La pioggia smise di cadere e ripartimmo cercando di schivare le pozzanghere che si erano formate sulla strada. Il giovane ci seguì per un buon tratto poi, un poco dispiaciuto, ci salutò prima di svoltare verso un piccolo villaggio che, con le sue basse case bianche, si affacciava sul mare.

    Il tempo migliorò leggermente e ci concesse di piantare le tende in una baia riparata dove i bassi pini marittimi, piegati dal vento, parevano robuste braccia protese verso il monte, messe lì apposta per farci da riparo.

    Dopo una notte di riposo, ripartimmo all’alba immersi nell’aria color turchese di una tiepida mattina e raggiungemmo, affamati, un villaggio sonnacchioso che si stava lentamente svegliando come un gatto pigro. Dai camini bassi, il fumo serpeggiava lambendo i tetti rossi per perdersi lento verso i monti. Il profumo di pane appena sfornato ci accolse riscaldandoci l’animo ancor prima che ci fermassimo accanto alla locanda sul porticciolo, dove era già esposto il pescato della notte.

    Un panino cosparso di marmellata di fichi e una tazza di caffè ridonarono energia ai muscoli e voglia di pedalare. Prima di ripartire ci aggirammo lungo il molo, dove un anziano pescatore stava riparando una rete. Mi fermai ad ammirare le dita di quell’uomo, nodose come rami d’ulivo, che si muovevano esperte e sicure. I suoi gesti antichi si ripetevano apparentemente facili fra intricati nodi e maglie. Su quel volto scavato dal mare e dal sole due occhi color del cielo si accendevano vispi a infondere serenità a chi incrociava quello sguardo.

    Il tempo mite ci permise di proseguire senza problemi e di trascorrere le notti in tenda. Dopo tre giorni di viaggio e un’interminabile attesa, passammo di primo mattino il confine ed entrammo in Bosnia. In un’intera giornata sui pedali, riuscimmo a raggiungere, al chiarore di poche insegne che si riflettevano sulla strada bagnata, Medjugorje. Qui la guerra e le sue brutture sembravano essere state messe da parte, come se una forza superiore avesse protetto tutti e tutto. Passammo due notti nel più spirituale paese che io abbia mai visitato. Salimmo sul monte, dove la Madonna benedice i fedeli e recitammo una preghiera intinti in un’atmosfera mistica che mi faceva sentire un tutt’uno fra anima e corpo. Mi pareva di essere immerso in un ambiente sospeso, dove addirittura le pareti dei monti rifrangevano appena le voci delle persone che pregavano in modo sommesso, come se fossero certe che persino lo scricchiolio delle scarpe sui sassi o un rumore diverso da un’orazione avrebbero potuto turbare la severa sobrietà del luogo.

    Accompagnati nuovamente da una pioggerellina sottile ma fastidiosa, ripartimmo puntando verso est.

    Nel pomeriggio, abbandonammo l’asfalto per seguire la traccia del navigatore che proponeva una scorciatoia. Pochi chilometri dopo, appena oltre una curva leggermente in discesa, la stradina finiva improvvisamente, senza alcuna indicazione, sulle sponde di un canale e per poco non vi cademmo dentro. Il tragitto proseguiva dalla parte opposta, ma il ponte per superare l’ostacolo era stato distrutto. Mi sfuggì un’imprecazione di rabbia e Franz, ridendo come nulla fosse, mi disse:

    «Sai cosa esclamò il vostro Dante Alighieri, quando si perse nella selva oscura?»

    Lo guardai stupito e lui ridendo ancor più divertito:

    «Navigatore di merda, dove cazzo mi hai portato?»

    Rimanemmo lì alcuni istanti a sghignazzare come nulla fosse sotto la pioggia che spazzava la via con scroscianti raffiche di vento; fradici e infreddoliti, ritornammo sulla strada principale. Poco dopo fortunatamente ci raggiunse un pullman, lo fermammo con ampi gesti, caricammo faticosamente le biciclette e salimmo puntando verso Mostar, la città tanto martoriata dal sanguinoso conflitto fra i popoli slavi. La corriera si fermò al capolinea, una fatiscente costruzione in lamiera lontana dal centro. Inforcammo le biciclette e attraversammo una brutta periferia percorrendo strade deserte e buie, fra case sparse e lugubri palazzoni che ci misero ancor più in apprensione e puntammo decisi verso il cuore della città.

    Il cappotto di Cristian

    La bruma della sera lasciò nuovamente il posto a una pioggia fitta e insistente che, mossa da un’aria gelida e densa, divenne subito insopportabile. Lungo la strada fummo avvolti in un silenzio bugiardo che sovrastava i gemiti di una terra violentata. Attoniti ci rifugiammo in un modestissimo albergo. Uscimmo approfittando di un attimo di tregua del piovasco, ma ci accorgemmo immediatamente che non era del freddo e dell’acqua che dovevamo preoccuparci, bensì di quello che ci stava intorno. In qualsiasi quartiere si poteva ancora respirare l’atmosfera della guerra e vederne gli effetti distruttivi. Nonostante fossero trascorsi anni dalla fine delle ostilità, e dalla dissoluzione della Jugoslavia, le pochissime persone che camminavano radenti al muro sparivano guardinghe, lasciando le strade deserte e tristi: uno strano alone di angoscia si estendeva su tutta la città. Mi fu subito chiaro che passeggiare come turisti per le vie desolate di Mostar non era molto sicuro. Lo stomaco, che normalmente dopo un giorno sui pedali reclamava cibo, era contratto dalla paura.

    Tutto quello che sapevo su ciò che era successo nell’ex Jugoslavia, lo avevo letto o visto in televisione; il trovarsi immerso nella cruda realtà fu molto diverso da quanto mi ero immaginato e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a comprendere quale follia potesse dare vita a tale odio: quel pensiero inquietante mi atterrì. Muovendomi verso il buio del crepuscolo, tutto mi sembrò distorto; mi sentii per un attimo pervaso da un empito di defezione, un solo attimo, poi un suono lontano, puro e gioioso risuonò fra le case. Era la musica di un sassofono che serpeggiava lungo una via umida e grigia; bastò quella melodia per attenuare l’ansia nel mio petto. Franz, calmo e impassibile, si muoveva con sicurezza: la sua esperienza di militare mi diede una lieve fiducia ma lui, vedendomi impaurito, si affrettò a cercare un ristorante dove cenare.

    Mentre camminavamo guardinghi verso una rara e traballante insegna luminosa che sfumava nella nebbia, fummo avvicinati da un giovane che, dopo averci seguito per alcuni metri, ci fermò. Dal suo sguardo era evidente che di qualunque natura fosse il dolore che lo affliggeva, sarebbe stato necessario molto tempo perché guarisse. Dignitosamente si presentò come Cristian, dicendo di essere fuggito dalla Romania e di aver bisogno di aiuto. Franz, che conosceva un poco la sua lingua, capì immediatamente che non era il solito imbroglione che chiedeva la carità, ma era veramente una persona disperata. Negli occhi del ragazzo, quando si riusciva a superare quella patina di durezza disegnata sul volto, si poteva intuire la sua drammatica sincerità.

    Cristian arrivava da Slatina ed era già la seconda volta che, clandestinamente, cercava di raggiungere la Germania, dove avrebbe incontrato un suo parente pronto a dargli ospitalità e lavoro. Ci raccontò, con un tono di voce cordiale e furibondo, che la prima volta che aveva tentato di uscire dal suo paese si era nascosto sotto un tir legandosi per non cadere fra le ruote nel caso si fosse addormentato. Aveva resistito per molti chilometri, infilato dove normalmente i camionisti custodiscono le catene invernali, rannicchiato scomodamente su un minuscolo bancale che lo divideva appena dall’asfalto, ma non lo riparava certamente da tutto quello che le

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