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Tienimi stretta
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E-book136 pagine1 ora

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Info su questo ebook

Vera è una donna ferita, reduce da una separazione e da altre storie d'amore fallimentari. Vive a Napoli, ha due figli e un lavoro prestigioso nel campo della moda. Il libro è un percorso introspettivo a ritroso, tra abbandoni e umiliazioni attirate dalla sua docilità e dal mondo fantasioso in cui si rifugia da quando aveva circa sei anni. Da quell'epoca la sua memoria è un gomitolo di ricordi strani, percezioni mai elaborate, paure indefinibili. Sarà la confessione della madre, affidata ad una lettera lasciatale prima di morire, che le rivelerà il fiorire di quella dinamica masochista: un abuso sessuale subito da parte dello zio a cinque anni. Da quella rivelazione il suo mondo interiore si ricompone, come schegge di un vetro rimesse insieme con pazienza, da cui riesci di nuovo a specchiarti intera. Tutto si riallineerà sul filo più doppio della consapevolezza e del perdono verso tutti i suoi carnefici. La saggezza dell'anima coprirà come un manto la mente e i suoi percorsi deliranti, riallacciandosi all'innocenza dei suoi giochi di bambina allo specchio.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2016
ISBN9788892633575
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    Anteprima del libro

    Tienimi stretta - Francesca Scamarcio

    linavitagliano@libero.it

    ESTATE 2000

    PRIMO CAPITOLO

    È già arrivato l’ultimo giorno di luglio.

    Da un occhio socchiuso Vera sbircia la sveglia sul comodino. Segna le undici in punto. Si gira più volte insofferente, raccoglie il cuscino caduto sul pavimento, lo appoggia sulla nuca e si rannicchia a pancia in sotto, cercando un pezzetto di buio. Di domenica non c’è nessun motivo per alzarsi presto. La pioggia lenta sul terrazzo diventa un suono dolce, sembra una ninna nanna. Il passato si srotola all’improvviso. Volti troppo vicini, come deformati da una lente d'ingrandimento, vecchi suoni, odori, sapori si affollano tutti intorno a quelle immagini, dalla cucina di una vecchia casa la voce dura di sua madre le rimbalza nelle tempie, il passo di suo padre si trascina nel lungo corridoio come quello di un emissario svogliato, fino alla camera sua e di Alessia. Aspettava che le sfiorasse la schiena prima di alzarsi, le piaceva tanto quel tocco rispettoso, era come un patto segreto tra di loro, lui che eseguiva l’ordine di svegliarla e lei che ubbidiva per proteggerlo dall’insuccesso. Alessia invece si girava dall’altra parte sbuffando, poi continuava a dormire per ore.

    Entrava in cucina con gli occhi appiccicosi, sussurrando un saluto dietro la schiena di sua madre. La tazza del latte fumava accanto alle buste di plastica piene di biscotti fatti in casa, delle buste enormi, chiuse con gli elastici, per non farli seccare. Le melanzane appena fritte adagiate su un piatto da portata foderato di carta, per assorbire l’olio in eccesso, e gli altri contorni, coperti dagli strofinacci, che occupavano già tutto il resto della tavola. Gli odori pungenti del pranzo si mescolavano al sapore dolce della colazione. Guadagnava energie prima di pulire tutte le stanze, era quello il suo rituale della domenica. Cominciava dal salotto, dopo aver aperto tutte le finestre e sollevato le coperte dal letto dei genitori per far respirare un po’ il materasso. I detersivi la aspettavano in un secchio in corridoio, quello profumato per i pavimenti, la crema delicata per la ceramica del bagno e la cera d’api per i mobili di legno, a cui era riservato anche un panno di lana a quadretti. Ogni gingillo destava un ricordo, anche i centrini fatti ad uncinetto da zia Rosa e le cornici d’argento con le foto. La più bella era quella del matrimonio dei genitori, con la madre che sorrideva sporgendosi dal finestrino dell’auto e suo padre appoggiato con il gomito fiero sullo sportello. Erano stati belli e giovani anche loro. S’incantava a guardarli in quelle pose, chiedendosi ogni volta dove fosse finita quella leggerezza, forse l’avevano esclusa dal quotidiano proprio da quel giorno felice, com’era accaduto per le lenzuola buone del corredo, che sapeva intatte in fondo a un cassetto del comò. Un paio di quelle di lino bianco ricamato erano destinate all’ultimo momento solenne, per quell'epilogo sua madre aveva preparato anche la camicia da notte e all’epoca non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Gliel’aveva mostrata una volta in silenzio, aprendola giusto un attimo e poi ripiegandola con cura, solo qualche parola per assegnarle il compito di una vestizione impeccabile. Ci aveva pensato per giorni e giorni con orrore, scorrendo le immagini del volto immobile di sua madre, gli occhi vitrei, la pelle fredda e quella camicia di merletti semplici, lunga fino ai piedi, che un giorno avrebbe dovuto infilarle proprio lei.

    In quelle domeniche cercava di sbrogliare tra la polvere delle matasse strane, non sapeva chi ce le aveva messe, sapeva solo di dover purificare la casa anche in altro modo, riallacciando il presente a quei sorrisi in bianco e nero delle foto sul comò. Celebrava quell’offerta dolce fino a quando si sedevano tutti a tavola e scrutava ansiosa il viso di sua madre, aspettando un sorriso di ricompensa che non arrivava mai. Alessia si presentava ancora in pigiama, con il volto gonfio di sonno e lo sguardo strafottente, rispondendo a monosillabi a qualsiasi domanda. La spiava per tutto il tempo con un lato dello sguardo, sentiva quel coraggio fendere, impietoso, l’aria satura della sua fatica di ore. Alessia era identica e precisa a sua madre, portata per il comando, tanto quanto lei assomigliava al padre, mite e arrendevole proprio come lui.

    I momenti di leggerezza erano quelli del pomeriggio, quando infilava di nascosto le scarpe con i tacchi alti di sua madre, quelle che le aveva visto solo alle cerimonie importanti, e ballava come una matta davanti allo specchio, la spazzola dei capelli impugnata come un microfono e lo stereo a tutto volume con le canzoni di Madonna, che faceva vibrare anche le pareti della stanza. Balli irrefrenabili tra gli applausi di un pubblico invisibile. Quando era sfinita, si metteva seduta sul letto, gli occhi chiusi e le mani sulla testa che le girava forte, ascoltando la normalità che riemergeva malinconica da quelle viscere luminose in cui le era parso di respirare sensi segreti, forse anche l’eco dell’universo. Nel silenzio ripiombato nella camera, iniziava a disporre con cura tutte le bambole sul letto, anche quelle di Alessia. Prima le spogliava, poi le rivestiva con i vestitini buoni della domenica, quelli che cuciva da sola con i ritagli delle stoffe preziose di sua madre, che, per arrotondare, faceva la sarta per le signore ricche del quartiere. Aveva imparato ogni dettaglio di quel mestiere solo osservandola, senza mai ricevere una spiegazione. Preparava così le sue prime sfilate, senza saperlo quelle ore trascorse con le bambole erano state il tirocinio del lavoro che avrebbe scelto molti anni dopo.

    Nel tempo ogni bisogno aveva percorso quella strada, prima censurato dal sacrificio, poi liberato in una fantasia convulsa, senza un nesso tra il primo e il terzo atto. C'era come un tempo intermedio coperto dal mistero, in cui si era rintanato l'equilibrio che apparteneva a tutti gli altri. Mai a lei.

    Francesco lo aveva scelto a venticinque anni, rigido e critico come sua madre, come per continuare le sue prove di resistenza al dolore.

    La pioggia è aumentata all’improvviso, sembra un tornado, alcune persone in fondo alla strada corrono al riparo sotto ai cornicioni dei palazzi, qualche oggetto vola giù dai balconi. Si decide a uscire sul terrazzo per avvolgere i tendoni esterni, l’ultima volta che si sono riempiti d’acqua sono crollati sul tavolo di vetro e lo hanno spaccato in due parti, ci sono voluti quasi mille euro per riportare il terrazzo all’ordine di sempre. Rientra con i capelli e la camicia da notte inzuppati, appoggia la fronte all’infisso per riprendersi dalla fatica. Il ritmo accelerato del respiro e il ticchettio della pioggia che batte sui vetri la sospingono in un tempo surreale. All’improvviso quelle gocce furiose sembrano scorrerle direttamente sul viso. Bucano i vetri, si infilano decise tra le ciglia, dietro i bulbi degli occhi, rigano le guance come lacrime, poi scendono ad accarezzarle il collo, esplorano ogni poro per insinuarvi una specie di tormento. Raccontano mille cose, anche di una pienezza da assaporare in fretta, poi scivolano giù senza più una forma.

    Le vengono in mente le parole di Heidegger sullo stupore. Ai tempi del liceo le era piaciuto tanto quel filosofo, aveva persino inventato un gioco per scoprire se fosse vero quello che diceva, cioè che lo stupore producesse un altro tipo di coscienza. Bisognava entrare nella stanza fingendosi un estraneo e guardare tutte le cose come se fosse la prima volta. Si sforzava di desiderare tutto quanto, il suo lettino con la trapunta a quadretti, i pupazzi sulle mensole, i vestiti a cui teneva di più, i momenti felici ritratti nelle foto appese alle pareti. Non era facile, a volte bisognava aiutarsi con l’idea di perdere tutto, visualizzando i fatti più terribili, un incendio, o un terremoto, persino le macerie sotto cui le sue cose sarebbero apparse irraggiungibili. La paura fungeva da miccia, perché a quel punto la visione cambiava davvero, diventava elettrica. Riusciva a riconoscere quella specie di lampo, l’attimo preciso in cui il desiderio si insinua nella mente, come il fragore di una sorgente tra le montagne silenziose, quel desiderio delle cose di sempre che sgorgava mescolato a un senso eccitante di gratitudine. Era fantastico riuscire a guardare dietro la visione scontata della propria vita, sì, aveva ragione Heidegger, doveva essere quello il segreto della felicità. Non era riuscita a condividere con nessuno quella fantasia, nemmeno con i compagni di classe a cui era più legata, tanto nessuno di loro l’avrebbe mai capita.

    Di nuovo una pioggia sottile, copre il silenzio discretamente. Si distende di nuovo, sperando di poter riprendere il filo dei ricordi. Darebbe qualsiasi cosa pur di rivivere una di quelle domeniche con la sua famiglia. Aspetterebbe il passo di suo padre lungo il corridoio forse con meno ansia, potrebbe anche provare a colmare la distanza di sua madre inventandosi un po’ del coraggio di Alessia. Quanti fantasmi in meno ci sarebbero oggi? Può darsi che i suoi genitori avessero scelto il conflitto solo per occupare più movimento, come delle pieghe in cui avevano infilato il loro amore di ragazzi, senza riuscire più a liberarlo, e che lei abbia sopravvalutato quell’aria pesante, quei silenzi ostili, mentre avrebbe potuto saltare, cantare, danzare felice insieme a loro, provare a contagiarli con le sue piccole follie. Un pensiero lacerante, come un fascio di luce improvvisa che ferisce lo sguardo, risucchia la parzialità, l’incertezza, l’ombra, trasfigura i ricordi in un’essenza insostenibile. Meglio abbandonarsi, come un tronco su una mareggiata, con la riva nel cuore. Sempre più spesso il passato affiora così, come una colpa, poi per fortuna molla la sua presa.

    SECONDO CAPITOLO

    È il primo lunedì di agosto. La strada è deserta, i luccichii del sole sull’asfalto

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