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Ballerina dell'amore
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E-book123 pagine1 ora

Ballerina dell'amore

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Info su questo ebook

Una donna avanza a passo di danza verso la casa in cui ha vissuto da bambina. Superata la soglia, si aggira per i corridoi, tra odori e colori che sono rimasti immutati. Una stanza, in particolare, sembra essere immune al deterioramento del tempo, la camera da letto di sua madre. È così che ha inizio per lei un viaggio alla ricerca delle proprie radici. È un viaggio interiore, nel tentativo di esorcizzare il dolore della perdita di una madre andata via troppo presto, eppure ancora presente nel guidare le sue scelte come un soffio di vento.
Tra balletti classici e concerti jazz, tra quadri astratti e lettere ingiallite, tra riti brasiliani e castelli medievali, la protagonista di questo romanzo si identificherà sempre più nella motreb eshgh del poeta persiano: “ballerina dell’amore”, che riflette su scelte e relazioni, affronta vuoti e paure, con estrema sensibilità e fiducia sconfinata nel potere dell’Arte.

Alessandra Torregiani è nata il 1 luglio 1968 a San Severino Marche. Si è fatta strada nel mondo delle arti partendo dalla danza per poi approdare nel teatro e nel canto. Attualmente vive a Trento, dove insegna danza e si impegna nel portare avanti progetti in ambito sociale.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791220135320
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    Anteprima del libro

    Ballerina dell'amore - Alessandra Torregiani

    piatto.jpg

    Alessandra Torregiani

    BALLERINA DELL’AMORE

    A cura di Virginia Pascazio

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3097-4

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    BALLERINA DELL’AMORE

    Alle meraviglie della Terra,

    a tutte le anime sensibili e belle,

    a tutte le donne romantiche,

    a tutti coloro che danzano l’amore,

    a tutti quelli che vivono in libertà

    e a quelli che amano le parole.

    Ascoltati in profondità.

    Interrogati oltre i luoghi comuni e comincia a

    danzare a modo tuo.

    Se vinci sarà un tuo successo, se perdi, almeno,

    sarà un errore tutto tuo.

    Dal Libro della vita

    Capitolo primo

    L’ora del sogno

    Mia madre amava la vita, ma c’è stato un momento, solo un momento, in cui mi sono chiesta se la vita amasse lei allo stesso modo.

    È facile, quando si affronta la perdita di qualcuno, cadere nel tranello della mortalità, pensare che il tempo, per alcuni, sia una fiamma che si consuma troppo presto. Eppure lei, in qualche modo, aveva incantato il tempo. Ed era riuscita a farsi amare dalla vita, nonostante la mortalità.

    L’ho saputo con certezza il giorno in cui, per la prima volta dopo tanti anni, decisi di rientrare nella casa dei miei genitori. Quella casa che un tempo era stata anche mia. Allora mi bastò varcare la porta d’ingresso per avere la conferma della sua presenza. Mia madre era ancora lì, non come una fiamma ardente, ma come la candela che fuma ancora dopo lo spegnimento.

    Fra quelle mura era rimasto tutto uguale, inviolato, eppure vibrante di una vitalità ininterrotta. E mi immobilizzai, perché d’un tratto volevo capire bene chi fossi, in quale tempo e dove mi trovassi. Il presente e il passato convergevano nella mia persona, mentre i ricordi mi affollavano la mente: da una parte, mi sembrava di essere ancora la me bambina che veniva rimproverata dalla mamma per una marachella; dall’altra, ero la me adulta che inseguiva quella voce.

    In quel momento l’emozione investì il mio cuore come un profumo troppo forte, che stordisce la mente e impregna il corpo di sensazioni. Ma dopo qualche minuto, riuscii a chiudere la porta alle mie spalle e, con un profondo respiro, presi finalmente coscienza della mia realtà. Dissi tra me e me:

    «Eccomi. Sono nella casa della mia mamma, e voglio vedere, voglio capire, voglio sentire».

    Così iniziai a girare per le stanze, a passare dalle porte aperte, a posare lo sguardo su tutti quei relitti senza tempo che fanno di un luogo un non luogo, finché entrai nella camera da letto. E allora scoprii con sommo stupore che ogni cosa era rimasta esattamente come lei l’aveva lasciata anni prima.

    Ciò che colpì maggiormente il mio sguardo fu l’inalterabilità delle cose, il loro aspetto paziente. La sensazione che gli oggetti della sua quotidianità fossero rimasti tali e quali a come li ricordavo, puliti e ordinati secondo i suoi gusti, quasi fossero in attesa che lei tornasse da un momento all’altro a farne uso.

    Lo specchio antico, un cimelio di famiglia, inconfondibile per la cornice in stile rinascimentale, sormontava il comò che dominava la parete di sinistra. Un fascio di luce che proveniva dall’alta finestra illuminava la spazzola e il cofanetto dei gioielli, come un occhio di bue teatrale che mi invitava a entrare in scena.

    Con il cuore che mi batteva all’impazzata, feci qualche passo verso il comò e aprii il cofanetto. Vi trovai, fra i tanti gioielli, la sua fede nuziale, quella che di lì a poco avrebbe preso mio padre.

    Subito mi voltai e mi concentrai su altro, nel tentativo di reprimere la commozione. Sull’altra sponda del letto si trovava ancora il mobiletto all’interno del quale riuscivo a intravedere, disposte con ordine costante, le collane di perle, le pietre preziose, il fazzoletto con la sua iniziale e la spilla ornata di fiori. Me la ricordo benissimo, quella spilla, e ce l’ho ancora. Mia madre aveva l’abitudine di appuntarla ai fazzoletti che portava sempre intorno al collo: un altro dei suoi personalissimi segni di riconoscimento.

    Anche il letto, al centro della camera, era rimasto intatto, con le lenzuola ricamate dalla nonna, e sulle pareti troneggiavano i suoi dipinti. Spontaneamente alzai lo sguardo sul più bello di tutti: quello che rappresentava Venezia.

    Venezia era stata la meta di uno dei viaggi che mia madre aveva fatto con papà. Ma questo quadro, nel tempo, lei l’aveva trasformato: dapprima la città, con le sue gondole e i suoi canali, era perfettamente riconoscibile; dopodiché lei ne aveva sfumato i contorni, come se sentisse che questo viaggio, questa vita se ne stava andando. E alla destra, in un angolo del paesaggio, si era disegnata lei, di profilo. Lei che guardava e rammentava la sua vita. Ora Venezia non era più Venezia, ma un luogo della sua memoria.

    Nonostante fossi sopraffatta dall’emozione, lasciai la camera da letto e mi avviai a passi lenti, come trasognata, verso la stanzetta adiacente. Non appena aprii la porta, il mio sguardo fu attirato dall’armadio in fondo alla parete. Il caro vecchio armadio, che per me era stato quasi un compagno di giochi. Ricordo che, quando ero molto piccola, mi piaceva piazzarmici davanti e svuotarlo di tutto il suo contenuto, per provare di nascosto gli abiti di mia madre. Adoravo soprattutto le sue scarpe. Si sa: non c’è divertimento più grande, per una bambina, che indossare i tacchi alti della mamma e girare per i corridoi di casa giocando a fare la donna. E quando lei mi sorprendeva, erano urla! Ma adesso mi mancava il coraggio anche solo di toccarlo, come se aprirlo significasse sfidare un ordine ancora più perentorio.

    Esitai a lungo prima di prendere una decisione e alla fine, in qualche modo, come sospinta da una forza superiore, feci un lungo respiro e mi decisi a girare la chiave nella toppa. Le ante si aprirono con un cigolio e il suo mondo, il mondo di mia madre, si spalancò davanti a me.

    Un odore fortissimo invase le mie narici. Doveva trattarsi di naftalina, perché era uno di quegli odori che appartengono solo al passato. Attraverso quel profumo, come un lampo, mi si ripresentò alla memoria un’immagine di lei che si preparava per uscire, si truccava e si guardava compiaciuta allo specchio. I suoi look, sempre così incredibilmente perfetti, la facevano sembrare una donna sicura di sé, una donna che esplodeva di gioia e di bellezza, perché mia madre, ai miei occhi, era sempre stata meravigliosa.

    Anche ora, nell’armadio, tutto era pregno della sua presenza: i vestiti, le giacche e i cappottoni che parlavano di un’epoca ormai passata. Provai ad aprire anche i cassetti, con gesti misurati, per non rovinare niente. Non volevo turbare con la mia presenza la quiete che regnava tutt’intorno. Nel primo trovai le sue camicie da notte: quelle dell’ultimo periodo, che aveva indossato durante il tempo del ricovero. Nei cassetti più bassi, invece, trovai la sua biancheria intima. Si trattava soprattutto di canottiere in pizzo, dai colori tenui, perlopiù rosa antico e panna. Non indossava mai il bianco, lei. Il colore dominante del suo guardaroba era il marrone e talvolta, fra gli accessori, spuntava qualcosa di rosso.

    E poi c’erano i fiori. Un sacco di fiori.

    Mia madre aveva una grande passione per i fiori e i suoi quadri ne sono tuttora una chiara testimonianza. La sua carriera artistica nasce così: dalla sperimentazione di nature morte e paesaggi. Un piccolo quadro di fiori lo ritrovai proprio allora nella stanzetta adiacente al bagno. Era un quadretto di piccole dimensioni, un esercizio di base, ma dai colori vivacissimi. Per lei i fiori dovevano rappresentare la vita. Ecco perché non amava particolarmente i crisantemi e preferiva di gran lunga le rose.

    Aveva fatto un po’ suo il celebre motto del Piccolo Principe: «È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». E forse è proprio vero, come dicono alcuni, che quella rosa così fragile e così esigente, di cui tutti noi siamo in qualche modo responsabili, simboleggia la madre. D’altronde, la madre è una figura di attaccamento che soddisfa sin da quando siamo piccoli il nostro ancestrale bisogno di certezze. Ci insegna che tutte le relazioni hanno valore e che talvolta, per solitudine, si corre il rischio di confondere l’amore con la dipendenza, e che è necessario proteggersi dalle spine, perché anche un distacco richiede grande coraggio.

    Era per alleviare la solitudine della rosa, che continuava a pensare a lei, anche da lontano.

    Negli ultimi cassetti c’erano, ben piegate, le sue maglie. Era impossibile confonderle fra le tante maglie, perché lei aveva l’abitudine di mettere la sua firma ovunque. Giacché era capace non solo di dipingere, ma anche di ricamare e lavorare a maglia, tutti i suoi vestiti erano arricchiti da ricami floreali. Guardandoli, mi imbattei nei segni di un’identità molto chiara, forte e precisa. Quei vestiti erano

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