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Perdonare sempre: Autobiografia 1939-1961
Perdonare sempre: Autobiografia 1939-1961
Perdonare sempre: Autobiografia 1939-1961
E-book224 pagine2 ore

Perdonare sempre: Autobiografia 1939-1961

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Info su questo ebook

Nelle sue memorie autobiografiche, Cristina Bernhard ripercorre aspetti ed eventi della propria vita, dalla difficile infanzia fino alla vigilia del matrimonio. Cristina è una bambina orfana di madre in un paesino di alta montagna dell'Alto Adige, che a un certo punto deve lasciare i suoi bei monti per andare a lavorare in città. Potrebbe sembrare la storia di Heidi, se non fosse per l'estrema durezza delle condizioni di abbandono, sofferenza e sfruttamento, originata da un ambiente familiare e contadino molto arduo. La lontananza da casa diverrà per Cristina una lenta cura per rinascere alla vita e il ritorno sui monti sarà solo occasionale e talvolta sofferto.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2023
ISBN9788872838792
Perdonare sempre: Autobiografia 1939-1961
Autore

Cristina Bernhard

Nata nel 1939 in un paesino di montagna dell’Alto Adige, dagli anni sessanta vive a Saronno insieme alla sua famiglia. Con il suo racconto autobiografico “Perdonare sempre”, nel 2008 Cristina Bernhard ha partecipato come finalista al XXIV Premio Pieve – Banca toscana, aggiudicandosi una menzione speciale.

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    Anteprima del libro

    Perdonare sempre - Cristina Bernhard

    1943-1944

    I primi ricordi: un’infanzia serena

    Era una tiepida giornata del 1943. Un pallido sole filtrava dalle doppie finestre a illuminare il nostro soggiorno rivestito tutto in legno e con una bella stufa di maiolica in un angolo, intorno alla stufa delle panche larghe, un tipico arredo dei paesi montani. Serviva per fare la pennichella ad anziani e bambini. In inverno era bellissimo stare vicino alla stufa che emanava un calore formidabile.

    C’era anche un piccolo forno, dove mamma metteva delle mele a cuocere, allora tutto il locale odorava di mele al forno e noi bambini eravamo impazienti di poterle mangiare, ogni cinque minuti tormentavamo la mamma con la solita domanda: Mamma, forse le mele sono cotte?. Alla fine ce le dava mezze cotte per farci stare zitti.

    Nell’angolo a sud del soggiorno c’era un massiccio tavolo di legno, con la panca ad angolo per i bambini – allora eravamo quattro –, e le sedie per gli adulti. Nell’angolo della parete sopra il tavolo troneggiava un grande crocefisso con, ai lati, i quadri del Sacro Cuore e della Madonna. Sulla parete, tra una finestra e l’altra del soggiorno, era appeso un bello specchio che mi faceva fantasticare non poco. Mi domandavo: "Come mai sono anche lì dentro e vedo tutta la Stube?".³ Un mistero inspiegabile. Cercavo anche di guardare dietro lo specchio, ma non c’era niente!

    Sotto la finestra più soleggiata, anch’essa a sud, la mia mamma, Marianna, teneva la macchina per cucire. Quel giorno stava confezionando un paio di calzoncini per il mio fratellino Tommy, di tre anni. Prima mia mamma aveva già aggiustato i pantaloni di papà Johannes, che avevano un enorme strappo sul sedere. Le mie due sorelline, invece, dormivano nei loro lettini coperte da candidi piumini, come due angioletti, due testine bionde con le guancette rosa. Anna aveva due anni e Marta sei mesi.

    Io mi chiamo Cristina, allora avevo quattro anni ed ero la maggiore. Mentre la mamma lavorava, io e mio fratello Tommy eravamo intenti a costruire la nostra fantastica casa sotto il tavolo. I suoi muri erano fatti con le ghirlande multicolori che a giugno avevano addobbato il tragitto del giovane prete novello, dalla casa natia fino alla chiesa, nel giorno in cui egli celebrò la sua prima messa per i compaesani.

    Il mio paesino, sperduto in una vallata secondaria dell’Alta Val Venosta, allora era composto di diciotto famiglie, circa centoventi persone in tutto. Finita la festa per la prima messa del prete, noi bambini avevamo portato a casa un po’ di quelle coloratissime ghirlande inanellate a catena, per giocarci. Tommy e io le tiravamo intorno alle gambe del tavolo per fare le finte pareti della nostra piccola casa. Era bellissima, divisa in stanza e cucina, ovviamente immaginarie.

    Si giocava con le scatole vuote delle sardine, con cocci di piatti rotti, con qualche fiorellino disegnato, con le cartine multicolori delle caramelle, con sassolini luccicanti trovati sul greto del torrente, con legnetti che fungevano da posate e mestoli, con rocchetti vuoti che ci dava mamma, nei quali infilavamo una cordicella per farli diventare il nostro carretto; fiori, semi ed erbe servivano da verdura. Non avevamo giocattoli, ma tanta fantasia.

    Nel frattempo si era svegliata Anna e anche lei venne nella nostra reggia, sotto il tavolo, a giocare con noi. La situazione era molto animata, io dovevo stare attenta che Anna non strappasse le ghirlande. I suoi occhietti azzurri brillavano nell’ammirarle. Nel gioco, naturalmente io facevo la mamma e comandavo, così portavo spesso Anna a dormire nella stanza immaginaria, un po’ rimaneva lì, ma non troppo.

    Ogni tanto andavamo da mamma a vedere come cuciva. Ci divertivamo a mettere un foglio di giornale vicino alla ruota della macchina per cucire, un foglio che faceva un bel rumore, ma affaticava il pedalare della mamma, che perciò ci rimandava nella nostra casa sotto il tavolo.

    A metà pomeriggio di quel giorno si sentì bussare alla porta, mamma disse: Avanti!. Si aprì la porta ed entrò una Kramerin, una merciaia ambulante, che due volte l’anno veniva con il suo fagottone pieno di stoffe e un armadietto a mo’ di zaino sulla schiena, con i cassetti pieni di mercerie di vario genere, da vendere alle massaie del mio paese. Quel giorno la merciaia aveva con sé anche dei giocattoli, tra questi una bambola che io fissavo intensamente. Quale bambina non desidera una bambola? La merciaia sicuramente vide i miei occhi che bramavano quella bambolina vestita con un floreale vestitino e con la testina di ceramica, i capelli castani, con due occhietti azzurri e le labbra rosse. La merciaia cercò di convincere la mia mammina a comprarmi la bambola, ma forse la mamma aveva pochi soldi e non voleva. Alla fine la signora le fece un grosso sconto e io ebbi così la mia prima e ultima bambola: infatti, dopo due anni mi sarebbe stata strappata dalle braccine e buttata nel fuoco, e da quel momento i miei giochi sarebbero finiti per sempre. Chiamai la mia nuova bambola Tea, come un’amica di mamma, ed ebbi molta cura di lei, diventammo inseparabili. Infatti, di notte Tea poteva dormire nel mio letto e di giorno era presente in tutti i nostri giochi. Anche Anna poteva tenerla in braccio e cullarla.

    La zia moribonda

    Appena uscita la mercante con i suoi pesanti fardelli, arrivò agitatissima una vicina di casa, la signora Sofia, che aveva un colorito molto scuro e mi dava l’idea di una strega, una di quelle descritte nei racconti delle fiabe che mamma ci leggeva spesso. La signora Sofia era pure vestita di nero, aveva il viso pieno di rughe e la bocca senza denti! Inoltre era sempre spettinata. Un quadro perfetto per la mia fantasia.

    La signora Sofia era venuta a chiamare mamma perché andasse al capezzale di una nostra parente, zia Ida, che stava morendo. C’era l’usanza di accendere quattro candele intorno al letto dei moribondi. Alla signora Sofia quelle candele non rimanevano accese. Si pensò che la moribonda non accettasse la richiesta di perdono e l’ultimo atto d’amore da parte della signora Sofia: infatti le candele non bruciavano. Il motivo del rifiuto era che il marito della signora Sofia, che con lei non aveva avuto figli, aveva invece messo incinta ben due figlie di zia Ida.

    Zia Ida, da parte sua, aveva avuto in tutto dieci figli, cugini di mio papà Johannes, cinque maschi e cinque femmine.

    Comunque mamma si alzò dalla sedia e lasciò il suo cucito per seguire la signora Sofia. Ci raccomandò di stare buoni, dicendoci che sarebbe tornata subito, ma dopo un po’, visto che mamma non tornava, mi mossi per andare anch’io dalla zia Ida, lasciando i miei fratellini con la bambinaia: una ragazzina di dodici anni che si chiamava Lina. Con la mia bambola Tea in braccio entrai nella stanza di zia Ida, trovai mia mamma, che aveva acceso le candele, e alcuni figli della moribonda. Mi avvicinai al letto e dissi: Guarda zia che bella bambola, perché non apri gli occhi?. La zia fece un rantolo e io scappai fuori dalla camera per lo spavento.

    La stanza della moribonda mi era sembrata addobbata a festa: con le quattro candele accese attorno a letto, il copriletto con un alto pizzo fatto a uncinetto, dei soprammobili luccicanti. I due grandi quadri della Madonna e di Gesù, appesi alla parete con al centro il crocefisso, assistevano all’agonia della moribonda. Quella fu l’unica volta che ho visto morire una persona, ma è rimasto un ricordo indelebile.

    Dopo essere scappata fuori dalla stanza, varcai la porta di fronte ed entrai nel loro soggiorno. Sulla panca vicina alla stufa di maiolica verde, dormiva e russava il marito della zia morente, Alois. Aveva una folta barba lunga, come si usava ai tempi di Andreas Hofer, eroe nazionale dell’Alto Adige. Era un uomo burbero: lui dormiva mentre la moglie stava morendo nella stanza accanto.

    In un angolo della Stube giocava Stefania, una delle due figlie illegittime del marito della signora Sofia, che insieme alla sua giovane mamma abitava nella casa dei nonni. Siccome quella bambina tartagliava molto, io cercavo di farle pronunciare bene le parole, ma lei faticava assai. Tornai a casa mia portando con me Stefania e riprendemmo a giocare con la mia bambola Tea nella nostra coloratissima casa sotto il tavolo. Più tardi tornò anche mamma, silenziosa e triste per la morte di zia Ida.

    La sera in famiglia

    La giornata andava declinando: il pallido sole era ormai sparito dietro il cocuzzolo della montagna, le capre e le mucche erano tornate dai pascoli alle loro stalle, e il silenzio della sera scendeva sul paesino. Papà non era ancora tornato dal bosco, dove si era recato per fare la legna per l’inverno. L’inverno è sempre lungo in montagna e ci vuole molta legna per scaldarsi. Mamma era preoccupata e guardava spesso dalla finestra che dava sulla via. Finalmente il papà arrivò, stanco e sudato ma soddisfatto, con un secchio pieno di mirtilli neri e nello zaino tanti funghi giallini.

    A quei tempi c’erano tanti mirtilli e con il pettine si faceva in fretta a riempire un secchio. Oggi, invece, non si trova più niente: gira troppa gente, che spesso distrugge tutto. Strappano le zolle di muschio per cercare i funghi, danneggiando i miceli in formazione; calpestano le piantine di mirtilli o le strappano; estirpano vari fiori rari che si trovano in alta montagna. Un vero disastro ecologico. Hanno fatto bene a formare il Parco nazionale dello Stelvio e vietare questo scempio della natura. Il contadino invece ha solitamente una vera venerazione e un sacro rispetto del creato e ama la terra. Quella sera, appena papà rientrò in casa, gli presentai la mia bambola Tea. Tommy e Anna si attaccarono alle sue gambe e mamma gli diede un bacio. Eravamo tutti felici che papà fosse arrivato. Come ogni sera, papà doveva scendere nella stalla ad accudire il bestiame e a mungere le mucche, intanto mamma preparava la cena: una bella polentina gialla, con i mirtilli sopra, per noi bambini, e con i funghi trifolati, per gli adulti.

    Solitamente ci si sedeva a tavola quando papà tornava dalla stalla, con il secchio pieno di latte caldo appena munto. Lui, prima si lavava bene la faccia, le sue grosse mani e le braccia muscolose; poi, con un grosso sospiro, si sedeva. Si recitava sempre il Padre Nostro, prima e dopo aver mangiato.

    Quella sera fu una cenetta allegra per noi bambini: quei mirtilli che scappavano dal cucchiaio e che tentavamo di riprendere, finché alla fine dovevamo usare le manine, per cui ci ritrovavamo le dita e anche metà faccina viola. Terminato il piatto principale, ci davano da bere una tazza di latte. Poi, via a letto, a dormire.

    Un sonno disturbato

    La camera dei bambini era al piano superiore. Mamma e papà ci portavano su in braccio. Recitavamo insieme le preghiere della sera, poi veniva spenta la luce e i genitori tornavano giù al primo piano. La loro camera era vicina alla cucina e in caso di necessità poteva essere riscaldata con una stufa in muratura, anche perché, in quel periodo, la mamma stava ancora allattando la piccola Marta, che dormiva con loro.

    Io spesso mi svegliavo di notte e sentivo strani rumori tra le pareti di legno: erano probabilmente dei topolini che scorrazzavano in giro, o forse erano rumori che faceva mio nonno, la cui casa era contigua alla nostra camera. So solo che quando sentivo questi rumori avevo una gran paura, mi mettevo a piangere e cercavo, al buio, di scendere da mamma e papà. Loro mi venivano incontro e mi portavano nel loro letto caldo, dove la paura svaniva e io dormivo come un ghiro.

    Ricordo di non aver mai dormito volentieri nella nostra camera, quella dei bambini, nemmeno da adulta, mi è sempre sembrato come se vi aleggiasse uno spiritello. Tea, la mia bambola, dormiva con me nel mio letto, ma forse aveva paura pure lei, pensavo io nella mia testolina. Alla finestra della stanza non c’erano le persiane, perciò il chiarore della luna gettava ombre sinistre nel locale, se poi a queste ombre si aggiungevano i rumori provenienti dai muri, la paura era servita. Strano, i miei fratellini invece non si svegliavano mai.

    Penso che questa paura derivasse dal fatto che quando non obbedivo ai miei genitori, loro mi dicevano che quella notte sarebbe venuto a prendermi il diavolo. I bambini non si devono terrorizzare con certe fantasie, ma una volta si usava così.

    Il giorno successivo, il nonno, che aveva sentito i miei pianti, veniva a domandare cosa fosse successo.

    Il nonno paterno

    Il nonno viveva da solo nella casa accanto, era vedovo da tanti anni. Aveva tre figli maschi: mio papà Johannes, lo zio Artur e lo zio Karl. Gli zii vivevano in Austria e si vedevano raramente.

    Noi bambini andavamo quasi tutti i giorni da nonno Andreas, e lui ci offriva delle marmitte piene di yogurt naturale da mangiare. In ginocchio, per terra, ognuno riceveva una bella marmitta posta sulla panca davanti alla finestra, e lui ci diceva: Mangiate che diventate grandi!. Ma non si riusciva a mangiare tutto quello yogurt, era veramente troppo. Il nonno faceva anche una buona minestra d’orzo. Quando si macellava il maiale, preparava i canederli di fegato con dentro il guanciale. In quelle palle scure, il bianco del grasso spiccava visibilmente e mio fratellino Tommy diceva al nonno: "Io questi Knödel non li mangio, ci sono dentro i vermi!". Allora lui si arrabbiava molto e lo cacciava fuori dalla porta.

    Il nonno aveva un tavolo pieno di arnesi per il suo secondo lavoro, quello di falegname. Sapeva fabbricare di tutto: botti grandi e piccole, brente per portare il latte sulle malghe, secchi di legno, armadi, sedie, tavoli e tanti altri oggetti utili per la casa. Nel suo soggiorno, tutto ingombro di arnesi, trucioli e legname, non si doveva toccare niente, sennò arrivavano urla e schiaffi.

    Nella stanzetta accanto aveva un telaio che si era

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